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Punto di vista: Documenta 13 per Luca Trevisani

Hannah Ryggen Thea Djordjadze Giuseppe Penone Fantasmas para siempre.. il motto della mostra (?) è tratto da un lavoro (deludente) di Paul Chan Nodo di vetro di Hassan Khan Libro di Mark Dion The Otolith Group Llyn Foulkes Foto di Donna Haraway in The Wordly House, Project by Tue Greenfort Foto di Luca Trevisani *** […]

Hannah Ryggen

Thea Djordjadze

Giuseppe Penone

Fantasmas para siempre.. il motto della mostra (?) è tratto da un lavoro (deludente) di Paul Chan

Nodo di vetro di Hassan Khan

Libro di Mark Dion

The Otolith Group Llyn Foulkes

Foto di Donna Haraway in The Wordly House, Project by Tue Greenfort

Foto di Luca Trevisani

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d13

C’è chi dice che gli artisti possano o debbano essere i politici del futuro.

C’è chi, invece, pensa che non si debbano occupare del presente da gestire, ma dell’uomo, eternamente uguale a se stesso, e dei suoi bisogni, anche quelli abbastanza uguali a loro stessi, cambiati ben poco lungo la linea curva della storia.

Alcuni lettori sono voraci di stampa fresca, e di novità editoriali, altri rifuggono i quotidiani, a cui preferiscono i grandi classici, e i valori che elargiscono con costanza, come una bustina di the in acqua calda.
Voi preferite avere l’orologio in anticipo sui tempi, o avere un orologio rotto, che due volte al giorno, per certo, segna l’ora giusta?
Le parole dei profeti riguardano il presente in cui vengono pronunciate e udite, o il futuro che annunciano ? Quale tempo disegnano: l’ora o il poi? Sono un luogo o un moto a luogo ?

Le mostre d’arte devono mostrare l’arte ai suoi apici, o impiegarla per illustrare weltanschauung?

dOCUMENTA 13 produce domande, a volte retoriche, a volte insolubili.

Ad un certo punto ho pensato a Monte Verità, ma ad una versione da Walter Bonatti, da alpinismo introspettivo. Non siamo ad Ascona, ma lungo i lKarlsaue park, e a Bakunin, Malatesta e Isadora Duncan, si sono sostituiti Bruno Latour, la fiducia nell’ipnosi, e nella primavera araba.
Camminando tra le sedi della mostra, camminando da una casetta in legno e l’altra, come un viandante dello spirito, meditavo sul ‘trovare noi stessi’ tramite una determinata natura, e poco dopo ho incontrato il compost ricomposto di Pierre Huyghe, e, li vicino, la magica casa dei cigni di Donna Haraway, che sono forse il punto più esplicito di tutta la mostra, o del suo lato più interessante.

Alcune mostre chiedono all’arte di essere strumento per capire il mondo, ci riescono solo quando non chiedono all’arte di dirci dove siamo, o dove saremo tra poco, come se si trattasse di un navigatore satellitare. La cosa funziona proprio nel modo opposto, la vita va dove vuole, e l’arte buona fa lo stesso; come un buon amico che ti sorprende, ti sorride, ti manda a quel paese quando te lo meriti, ma non ti dice sempre di si, e non fa nemmeno finta di portarti per manonel futuro. Anche perché il futuro non esiste ancora.

It’s always yet to come.

Quando vedo arte, scienza, antropologia, e tutti i rami dello scibile, impiegati come sismografi piegati a soddisfare la nostra ansia per prevedere il mondo che verrà, come se tutto fosse parte di un mercato azionario delle idee, ecco, la cosa si fa un poco didascalica.

Io credo nell’oroscopo, ma mai in quello che leggo stampato di fresco nel giorno corrente. Credo a quello che trovo sfogliando vecchie riviste, a quello scaduto. La sua autorevolezza è senza dubbio più grande. Mi da consigli, mi apre gli occhi, e nulla più.

Come un amico.

Come hanno fatto, a Kassel, Hannah Ryggen, The Otolith Group, Clemens von Wedemeyer, Omer Fast, il vento ossigenante di Ryan Gander, e il mantra pastiche inaspettatamente pop di Ceal Floyer.

Luca Trevisani

 

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