Ha aperto i battenti una grande mostra (celebrativa) dedicata alla pittura italiana in Triennale Milano a cura di Damiano Gullì. Il titolo – mutuato dall’omonimo volume edito da Multhipla/Giancarlo Politi nel 1975 – presenta al meglio l’ambizione della mostra: con Pittura italiana oggi, si tenta di raccontare quanto sia viva e diffusa la ricerca pittorica nel nostro paese. Sono 120 gli artisti selezionati da Gulli, nati in un arco temporale molto ampio che va dal 1960 al 2000. L’allestimento – a cura dello Studio Italo Rota – rende grazia sia alla ricerca degli artisti che alle intenzioni del curatore che, come ci racconta nella lunga intervista che segue, ha tracciato un percorso espositivo fatto di echi e risonanze, corrispondenze e continui rimandi tra un opera e l’altra.
In mostra sono stati individuati singoli exempla rappresentativi, attraverso un’opera per artista, realizzata tra il 2020 e il 2023, in grado di offrire sguardi trasversali, letture e interpretazioni originali della nostra contemporaneità.
Elena Bordignon: 120 artisti sono tantissimi. Un numero che testimonia di quanto sia vitale la pratica pittorica nel contesto italiano. Per selezionare un numero così alto di artisti, che coprono almeno 4 decenni – quelli nati dal 1960 al 2000 – avrai fatto tanta ricerca e tanti incontri. Mi racconti la gestazione di questo grande progetto per la Triennale?
Damiano Gulli: Questa mostra nasce da tantissimo lavoro pregresso, praticamente di anni. E’ nato, in realtà, quando la mostra non era un’idea o un progetto. Non c’era né l’idea di pensarla né di poterla proporre.
Questo percorso è nato da una famigliarità che ho con la pittura, grazie all’amicizia che mi lega con tanti artisti; ma potrei anche parlarti di coincidenze, caso, varie esperienze della vita hanno portato molti artisti che conosco ad occuparsi di pittura. Dunque sono state tante le occasioni che mi hanno portato a confrontarmi con i temi legati ad essa. Mi sono trovato molto spesso a confrontarmi con artisti per cui era fondamentale esprimersi con la pittura, ma anche con tanti altri che subivano la messa al bando del mezzo pittura. Su certe generazioni, in particolare, ha fortemente inciso una serie di fattori – penso a chi è nato negli anni ’60 e che dunque si è trovato ad operare alla fine degli anni ’80, inizio ’90 -, era un momento in cui, dopo la sbornia della Transavanguardia, l’attenzione si è rivolta ad altri mezzi espressivi, relegando la pittura nell’angolo. I tempi eran cambiati radicalmente, si è passati da una massima esposizione a un confino. Chi si è trovato ad operare in quel periodo, si è trovato penalizzato a fare pittura. A livelli di visibilità mediatica e di attenzione del mercato. Per tornare alla tua domanda, se dovessi cercare un evento scatenante sulla genesi della mostra, devo citare una rubrica su Artribune, che si chiama “Pittura Lingua Viva”, in cui sono raccolte una molteplicità di riflessioni e idee, molte volte anche molto provocatorie. In particolare, un tema molto sentito riguardava l’attualità di questo mezzo. Con questa mostra non entro nel dibattito se la pittura sia viva o morta; è un linguaggio come tutti gli altri, che mi ha suscitato la necessità di presentarlo e analizzarlo in maniera più specifica; di farlo raccontando una scena italiana – che è circoscritta, perché sono tutti artisti viventi, nati in un arco temporale che va dagli anni ’60 al 2000 – perchè ritenevo importante che fosse compito di una Istituzione – in questo caso la Triennale di Milano – di raccontare cosa succede in Italia. Non tanto per campanilismo o nazionalismo, bensì per mostrare quale fosse la situazione della pittura nel nostro paese. Senza contare che ci si lamenta spesso che le istituzioni non si occupano della scena artistica italiana. Questa mostra mi sembra un’ottima occasione per contrastare questa opinione.
Devo anche ricordare che la Triennale, per sua tradizione, ha raccontato la pittura nei decenni scorsi in più occasioni.
EB: L’arco di tempo per la selezione delle opere è molto stretto: hai scelto le opere realizzate tra il 2020 e il 2023. Perchè un lasso di tempo così breve?
DG: Sì, mi rendo conto che è un arco temporale strettissimo. Paradossalmente, gli anni dal 2020 al 2023, nel nostro vissuto personale è stato in realtà un tempo molto lungo, denso di eventi, indeterminato e sospeso. Gli artisti in mostra sono tanti – 120! – ma potevano essere molti di più. Sono partito da una considerazione. Quattro decadi di artisti hanno alle spalle, ciascuno dei portati diversi – chi lavora da tren’anni, rispetto ad un giovanissimo, ha un’esperienza, una carriera o semplicemente delle opere che sono diventate storicizzate. Quindi se facevo una mostra storica, museale… correvo il rischio di appesantire un po’ il percorso che, invece, volevo seguire. Mi piace l’idea che l’attraversamento della pittura fosse vivo.
EB: In effetti, scegliere delle opere molto recenti, da molta freschezza e vivacità all’espressione pittorica.
DG: Fare un percorso museale mi sembrava già volere musealizzare anche artisti viventi. E’ giusto, certamente, perchè molti di loro fanno già parte di collezioni importanti ecc. E’ logico che, nel momento in cui un curatore si presta a fare un percorso storico, vada a cercare il capolavoro più conosciuto, più pubblicato .. nel momento in cui hai l’opera più riconosciuta di un artista a fronte di quella di un giovanissimo, è logico che c’è uno scarto. A me piaceva mischiare le carte e far giocare tutti sullo stesso piano per vedere cosa sarebbe accaduto. Quella freschezza è generata dal fatto che sono tutte opere fatte e vissute in situazioni che gli artisti hanno esperito fisicamente e spiritualmente con tutta l’umanità. Questo triennio ha un suo portato storico, economico, sociale di grande trasformazione, di momenti dolorosi, di interrogativi che ci si pone anche nella pratica artistica, Pandemia, post-pandemia, la guerra.. e anche il tema della creatività e autorialità messe in crisi dall’avvento dell’intelligenza artificiale. Il proliferare di immagini veicolate attraverso i social o attraverso vari supporti digitali. Di fronte ad una bulimia sempre più grande di immagini, come risponde chi queste immagini le produce? Quali sono le nuove sfide di questo fenomeno e di chi questo fenomeno lo ha vissuto?
EB: Nel testo in catalogo, tra i tanti aspetti che hanno influenzato la ricerca di molti artisti in mostra, ne hai messi in luce alcuni: dalla pandemia alla guerra, alla paventata messa in crisi, e scomparsa, dell’autorialità a causa delle evolute applicazioni dell’intelligenza artificiale, la bulimica proliferazione di immagini nei supporti digitali. Mi fai alcuni esempi in cui è evidente la sedimentazione della realtà nella pratica pittorica?
DG: Uno degli aspetti che ho maggiormente rilevato, nella gestazione di questa mostra, è che la maggior parte degli artisti non esplicita queste tematiche. Nel senso che emergono, sono evidenti, però non ci sono statement fortemente politici o sociali. Nessuno parte dicendo: io voglio parlare della mia solitudine durante il lockdown, in maniera banale, ma cos’è che emerge? Ho notato una forte insistenza sulla volontà di rappresentare contatti, relazioni o più banalmente corpi che si toccano, si abbracciano..questa ricerca di tenerezza, ma anche eros, scambio, condivisione, a volte sono monologhi in gruppo – penso a Maddalena Tesser, Emilio Gola e Pietro Moretti, tra gli altri – altre volte, singoli che tentano di abbracciarsi. E’ evidente che sono delle opere nate in un momento di forte crisi, c’era una fragilità e una presa di consapevolezza di precarietà; c’era anche l’idea di prestare attenzione, dall’umano al non umano. Sembra, per molti versi, che per dare una risposta ad un momento difficile, ci sia il bisogno di evadere nel sogno, nel surreale, in una dimensione ironica, ambigua, a volte kitsch, ma che alla fine riprende stilemi molto classici come i bestiari e un immaginario fantastico. In molti dialoghi che ho fatto con gli artisti, è emersa una grande consapevolezza della pittura, ma anche dell’iconografia del passato. Quando cito animali fantastici o figure ibride, penso alla sirena di Thomas Braida che appare in una marina. Mi sono chiesto: ma perchè, siamo nel 2023, e spunta una sirena? Poi, vedo dei lavori di Michele Bubacco e trovo un ‘sireno’, – come la chiama lui – poi trovo nelle opere di Flaminia Veronesi, che parla molto del mare e della sua donna paguro; anche Bea Bonafini utilizza un immaginario fatto di forme ibride e strane creature che non si capisce se sono degli animali, degli oggetti; anche in questo caso c’è molto il tema della metamorfosi. Non a caso, un dipinto in mostra di Nazzarena Poli Maramotti si chiama proprio Le metamorfosi 2: un vaso di fiori che si dissolve nello sfondo, generando una polifonia di forme. In mostra viene assecondato una sorta di flusso tematico: si trovano delle ‘isole’ dove troviamo corpi e relazioni, in altre troviamo sirene che convivono con dei mutanti di Presicce – un Adamo ed Eva immersi in un paesaggio apocalittico – oppure si vede un enorme paesaggio di Francesca Banchelli con uomini, scimmie, ossa, minerali dai colori anti-naturalistici. Ho citato alcuni esempi che suggeriscono una sorta di comunione inter-specie. In mostra i temi sono molti fluidi; non voglio fare dei proclami, vorrei invece suggerire delle interpretazioni, con correlazioni aperte e imprevedibili. In merito al tema dell’astrazione, ho evitato di cadere nella vecchia dicotomia astrazione – figurazione, due categorie della pittura. In mostra ci sono pittori che sono estremamente dediti all’astrazione e viceversa. Tanti, però, lavorano nel mezzo. Ad esempio Guglielmo Castelli dice che nel suo lavoro arriva alla figurazione attraverso l’astrazione. Lui, come tanti altri, penso ad Andrea Kvas, Vera Portatadino o Linda Carrara. La stessa Poli Maramotti fa esplodere la figurazione verso l’astrazione…
EB: La mostra non cade nelle dicotomie astrazione / figurazione – realistico / visionario, ma tutto sembra mescolarsi e trasformarsi. C’è un aspetto però che emerge: in alcuni casi la pittura si fa scultura, installazione, atto performativo, pattern, scenografia. Cosa pensi di questa pittura che esula dal supporto quadro per espandersi nello spazio?
DG: Il concetto di expanded paintings non è nuovo, se non ricordo male è un concetto ripreso anni fa dai saggi di Rosalind Krauss, utilizzato nella Biennale di Praga del 2005 da Giancarlo Politi ed Helena Kontova. Una pittura che si confronta con l’ambiente e l’architettura è l’elemento che mi riporta alla storia, ormai centenaria, della Triennale. Nel ’33, quando la Triennale si è stabilita nel Palazzo dell’Arte – prima era a Monza – partono le mostre dedicate alla pittura murale. Era molto forte il tema e il dibattito sull’unità delle arti; uno dei principali fautori era Gio Ponti nelle pagine di Domus. Ovviamente un artista che era profondamente coinvolto era Mario Sironi .. su loro impulso, è partita questa serie di mostre, la prima delle quali – esemplare – era stata allestita nel salone d’onore (forse era la Sala delle cerimonie), in cui c’era un mosaico di Gino Severini, tuttora visibile, che conviveva, come se fosse un’unica grande opera a più mani, con le opere di De Chirico, Campigli, Funi… Nel catalogo ci sono degli esempi molto significativi, penso all’allestimento di Baldessari del ’51, poi ci sono anche altri esempi significativi. Cito queste mostre perchè la Triennale ha da sempre una vocazione per lo scambio e il dialogo delle arti. Un luogo dove si può arrivare a teorizzare questa fusione delle arti. Senza contare che le problematiche che emergono dai documenti di allora sono le stesse di cui discutiamo oggi.
EB: Mi fai qualche esempio in mostra?
DG: Paolo Gonzato farà un grande wall-painting, anche Giulia Mangoni farà un grande dipinto su muro dove riprende tutta la sua ricerca antropologica. Al di là di questi grandi interventi, voglio sottolineare che essi sono il frutto di un tessuto di relazioni, che toccano aspetti della tradizione, dell’antropologia, dello stesso linguaggio pittorico. Potrei citare anche Giuliana Rosso e Benni Bosetto che abbiamo invitato a misurarsi con dei moduli concepiti appositamente per la mostra dallo Studio Italo Rota, che sono come delle scatole esplose, delle forme aperte.
EB: In merito all’allestimento, mi racconti come lo Studio Italo Rota ha sviluppato il percorso espositivo? Lo Studio ha progettato delle forme che cambiano a seconda delle esigenze espositive. Lo spazio curvo della Triennale non è un luogo facile dove mostrare delle opere a parete. Non ci sono molte superfici adatte a ospitare quadri, ma ci sono bellissime finestre dove entra la luce naturale. L’ alternativa era fare delle scatole chiuse e avere quella sensazione un po’ da ‘fiera’.
DG: La soluzione trovata dallo Studio Italo Rota è il frutto di un grande rispetto per l’opera e per gli artisti. Hanno concepito una soluzione tale per cui abbiamo la sensazione di avere una visione unica per ogni singola opera, ma al contempo, convivere con quello che c’è. Si creano, attraversando lo spazio, dei tagli, delle prospettive molto accurate. Grazie all’allestimento, ho potuto perfezionare rimandi, risonanze e una certa continuità con le opere. A differenza del catalogo dove abbiamo adottato una soluzione che rispetta l’ordine alfabetico, in mostra abbiamo potuto costruire un percorso ad hoc. Ogni modulo è messo in relazione alle opere che ospita, così come la luce è stata pensata per essere diffusa in tutto il percorso, senza cadere in quella soluzione di illuminotecnica a spot. Si creano dei punti che sono molto intimi in relazione ad altri che sono molto più aperti.
Il percorso è molto dinamico e aiuta sia la visione singola delle opere che la visone d’insieme. Un aspetto che vorrei sottolineare è che i pannelli che costituiscono l’allestimento derivano da allestimenti di mostre precedenti. C’è un’azienda che si è occupata proprio di questo. Dunque tutti i moduli, dopo la mostra, possono continuare ad essere riutilizzati o smaltiti e rientrare nel ciclo di vita del legno. Così come la scelta di non utilizzare giunture, colle, rivestimenti, vernici va in questa direzione.
Opere in mostra di: Beatrice Alici (San Donà di Piave, 1992), Paola Angelini (San Benedetto del Tronto, 1983), Silvia Argiolas (Cagliari, 1977), Stefano Arienti (Asola, 1961), Francesca Banchelli (Montevarchi, 1981), Riccardo Baruzzi (Lugo, 1976), Andrea Barzaghi (Monza, 1988), Romina Bassu (Roma, 1982), Alessandro Bazan (Palermo, 1966), Angelo Bellobono (Nettuno, 1964), Thomas Berra (Desio, 1986), Luca Bertolo (Milano, 1968), Lorenza Boisi (Milano, 1972), Bea Bonafini (Bonn, 1990), Marco Bongiorni (Garbagnate Milanese, 1981), Benni Bosetto (Merate, 1987), Thomas Braida (Gorizia, 1982), Michele Bubacco (Venezia, 1983), Pierpaolo Campanini (Cento, 1964), Pietro Capogrosso (Trani, 1967), Linda Carrara (Bergamo, 1984), Valerio Carrubba (Siracusa, 1975), Guglielmo Castelli (Torino, 1987), Manuele Cerutti (Torino, 1976), Andrea Chiesi (Modena, 1966), Marco Cingolani (Como, 1961), Adelaide Cioni (Bologna, 1976), Roberto Coda Zabetta (Biella, 1975), Claudio Coltorti (Napoli, 1989), Gianluca Concialdi (Palermo, 1981), Rudy Cremonini (Bologna, 1981), Pierpaolo Curti (Lodi, 1972), Valentina D’Amaro (Massa, 1966), Davide D’Elia (Cava dei Tirreni, 1973), Enrico David (Ancona, 1966), Francesco De Grandi (Palermo, 1968), Roberto de Pinto (Terlizzi, 1996), Marta Dell’Angelo (Pavia, 1970), Alberto Di Fabio (Avezzano, 1966), Stanislao Di Giugno (Roma, 1969), Patrizio di Massimo (Jesi, 1983), Gianluca Di Pasquale (Roma, 1971), Fulvio Di Piazza (Siracusa, 1969), Chiara Enzo (Venezia, 1989), Alice Faloretti (Brescia, 1992), Matteo Fato (Pescara, 1979), Alessandro Fogo (Thiene, 1992), Andrea Fontanari (Trento, 1996), Giulio Frigo (Arzignano, 1984), Giorgia Garzilli (Napoli, 1992), Oscar Giaconia (Milano, 1978), Emilio Gola (Milano, 1994), Paolo Gonzato Triennale Milano 3/2 (Busto Arsizio, 1975), Cecilia Granara (Jeddah, 1991), Diego Gualandris (Alzano Lombardo, 1993), Agnese Guido (Copertino, 1982), Sebastiano Impellizzeri (Catania, 1982), Massimo Kaufmann (Milano, 1963), Pesce Khete (Roma, 1980), Andrea Kvas (Trieste, 1986), Francesco Lauretta (Ispica, 1964), Viola Leddi (Milano, 1993), Iva Lulashi (Tirana, 1988), Marta Mancini (Roma, 1981), Giulia Mangoni (Isola del Liri, 1991), Margherita Manzelli, (Ravenna, 1968), Beatrice Marchi (Gallarate, 1986), Andrea Martinucci (Roma, 1991), Fabio Marullo (Catania, 1973), Fulvia Mendini (Milano, 1966), Beatrice Meoni (Firenze, 1960), Daniele Milvio (Genova, 1988), Narcisa Monni (Alghero, 1981), Pietro Moretti (Roma, 1996), Maria Morganti (Milano, 1965), Angelo Mosca (Chieti, 1961), Marco Neri (Forlì, 1968), Valerio Nicolai (Gorizia, 1988), Ismaele Nones (Trento, 1992), Francis Offman (Butare, 1987), Luca Pancrazzi (Figline Valdarno, 1961), Dario Pecoraro (1984, Milano), Jem Perucchini (Tekeze, 1995), Alessandro Pessoli (Cervia, 1963), Gabriele Picco (Brescia, 1974), Edoardo Piermattei (Ancona, 1992), Aronne Pleuteri (Erba, 2001), Amedeo Polazzo (Starnberg, 1988), Nazzarena Poli Maramotti (Montecchio Emilia, 1987), Gianni Politi (Roma, 1986), Vera Portatadino (Varese, 1984), Luigi Presicce (Porto Cesareo, 1976), Pierluigi Pusole (Torino, 1963), Marta Ravasi (Merate, 1987), Andrea Respino (Mondovì, 1976), Pietro Roccasalva (Modica, 1970), Chris Rocchegiani (Jesi, 1977), Giangiacomo Rossetti (Milano, 1989), Giuliana Rosso (Chivasso, 1992), Pietro Ruffo (Roma, 1978), Erik Saglia (Torino, 1989), Nicola Samorì (Forlì, 1977), Angelo Sarleti (Reggio Calabria, 1979), Alessandro Sarra (Roma, 1966), Alessandro Scarabello (Roma, 1979), Davide Serpetti (L’Aquila, 1990), Marta Sforni (Milano, 1966), Mario Silva (Londra, 1993), Sofia Silva (Padova, 1990), Marta Spagnoli (Verona, 1994), Enrico Tealdi (Cuneo, 1976), Maddalena Tesser (Vittorio Veneto, 1992), Michele Tocca (Subiaco, 1983), Saverio Tonoli (Lucca, 1984), Eva Chiara Trevisan (Treviso, 1991), Vedovamazzei (Simeone Crispino, Napoli, 1962, Stella Scala, Napoli, 1964), Nicola Verlato (Verona, 1965), Flaminia Veronesi (Milano, 1986), Alice Visentin (Torino, 1993).