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Ricorsivo e citazionista, al tempo stesso imprevedibile ed originale, Pietro Roccasalva, nella sua ultima personale “The Wooden O” – ospitata fino al 23 maggio alla galleria Zero… – soddisfa le nostre previsioni. Ci aspettiamo infatti da lui un maniacale virtuosismo tecnico, una spesso inspiegabile iconografia e, non ultima, una inaspettato piccolo salto in avanti in quella che è il suo personale archivio visionario. Concordo con le presentazioni un po’ facili che gli attribuiscono – “artista che ha sviluppato nel corso degli anni un immaginario dato dalla sedimentazione e della continua stratificazione di riferimenti e citazioni provenienti da ambiti eterogenei, dal cinema alla filosofia, dalla letteratura alla storia dell’arte” -, ma al tempo discordo nel ritenere queste “stratificazioni” la parte più considerevole della sua ricerca. Ciò che affascina, infatti, è il giusto equilibrio tra una magistrale abilità tecnica e un evidente citazionismo riferito soprattutto alla storia dell’arte, siano le correnti italiane del ‘900, siano, a livello tecnico, tanti altri maestri che punteggiano l’evoluzione figurativa dei secoli addietro. A questo andare a ritroso nel tempo, Roccasalva può aggiungere anche le forme citazioniste rivolte a se stesso. Esempi ne siano in mostra il dipinto “Il Trovatore” e il gruppo di lavori i cui soggetti sono ripresi dall’installazione e tableau vivant “Just Married Machine” del 2012.
Sorprende notare, infatti, come la ricorsività dei suoi soggetti – riconoscibili ma sempre trasformati – ne accresca il fascino, rendendoli intriganti, misteriosi e detentori di un enigma tutto interno alle forme dell’arte. Anche laddove il linguaggio si fa veramente “classico” – fatto di non finito, di sfumati, di sapienti sbavature, trame di grafite vicine a campiture di carboncino – la quasi ingannevole perfezione fotografica ci induce a sottovalutare i contenuti per perderci nell’abilità tecnica dell’artista.
Titoli appannaggio di allegorie, stranezze concettuali, citazioni labirintiche… dietreggaino nell’ombra rispetto alla bellezza delle opere: l’irrisolvibilità – dunque l’attrattiva di queste opere – risiede tutta in superficie, non nell’alterità dell’intelletto, né tanto meno nell’altezza dei riferimenti. Prendiamo il titolo della mostra e dell’installazione della prima stanza, “The Wooden O”. Scopro facilmente che con questa definizione si descriveva il teatro caro a William Shakespeare, il Globe Theatre, che aveva una struttura in legno, chiamata appunto “the wooden O”, ottagonale e presentava uno spazio aperto al centro che serviva per far entrare la luce naturale. Non ci è dato sapere per quale ragione l’artista l’abbia scelto – glielo potremmo sempre chiedere… – ma ritengo che, tutto sommato, non sia nemmeno così importante, per far luce su delle opere che, muto l’artista, parlano benissimo da sole.