Tra le centinai di mostre che, in contemporanea, inaugurano in questi giorni a Venezia, in concomitanza con la 56° Biennale D’Arte a cura di Okui Enwezor, c’è anche quella molto attesa di Peter Doig, il pittore nato a Edimburgo nel 1959. Ospitata fino al 4 ottobre 2015 nelle stanze di Palazzo Tito, spazi della Fondazione Bevilacqua La Masa, la mostra è la prima personale dell’artista in Italia a cura di Milovan Farronato e Angela Vettese. Per questa occasione l’artista presenta alcuni grandi dipinti accanto a diverse opere di piccolo formato, appositamente realizzate e mai esposte precedentemente. Questo nuovo corpus di opere rimanda a diversi immaginari visivi, traendo sia dalla sfera personale sia da immagini trovate. Doig agisce con un metodo di lavoro intuitivo e non prestabilito, facendo sì che le opere evolvano naturalmente e in modo sorprendente.
Intervista con Milavon Farronato e Angela Vettese
ATP: Vorrei iniziare ponendovi una domande molto semplice, quasi banale. Perché vi interessa o vi affascina l’opera di Peter Doig?
Angela Vettese: Questa mostra rappresenta il mio saluto alla Fondazione Bevilacqua La Masa dopo averla guidata per 13 anni. Sono felice di potere portare qui un pittore, come risposta e continuità rispetto alla “mia” prima Biennale, nel 2003, quando avemmo una personale di Marlene Dumas. La riflessione sulla pittura ha costituito uno dei filoni del mio tempo alla BLM, con passaggi quali Karen Kilimnik, Enrico David e con il picco che è la chiave di volta per capirne le relazioni con l’arte concettuale, Richard Hamilton, colui che ha messo la pittura nella massima connessione con l’eredità di Duchamp, da una parte, e dall’altra con il processo di rispecchiamento del pensiero che essa implica da sempre. Come spiego anche sotto, ho l’impressione che Doig ci indichi nel suo dipingere come funzioni il pensiero e come la nostra mente proceda per prove ed errori, per ricerche successive di equilibri e di soluzioni, per stadi che hanno però sempre dei margini di correzione. Credo che la pittura al suo meglio, oggi, sia rilevante appunto perché si occupa di questo: non la rappresentazione di una cosa visibile ma la rappresentazione di un processo mentale. Sono anche contenta che, parallelamente, la BLM ospiti una mostra di fotografia socialmente impegnata come quella di Salgado sulle condizioni di lavoro nel mondo del caffè e un open studio dei 12 giovani che ogni anno stanno in residenza, con un programma che dal 2006/7 si è andato arricchendo di studio visit, mostre, cataloghi, rapporti con le aziende del territorio. Insomma le direzioni a cui ho tenuto maggiormente in questi anni di lavoro.
ATP: Spesso la sua pittura è frutto di scelte intuitive, emozionali forse. Mi racconti come si intuisce questo aspetto spontaneo nella superficie dei suoi quadri?
Milovan Farronato: Nelle stratificazioni? Nei soggetti mai abbandonati? Ma anche nelle loro variazioni, probabilmente. Doig ha un ampio repertorio di fotografie che scatta di continuo. Gli servono per sopperire lacune o incertezze della memoria (dice lui), gli servono come appunti visivi per comporre nel tempo (molto tempo) l’immagine e l’immaginario di un dipinto che, come un giardino all’orientale, é un mondo accatastato. Le superficie sono emotivamente dense, l’intuizione si accompagna alla memoria, conscia e inconscia!
ATP: Lo spazio espositivo di Palazzo Tito, non è dei più facili per accogliere una mostra. Come avete pensato il percorso espositivo? Avete privilegiato un taglio cronologico, tematico o, invece, avete strutturato un display per assonanze tra le opere?
Milovan Farronato: Dissento. Palazzetto Tito è uno spazio ideale per una mostra, specialmente di pittura. Non è un project space che si consuma tutto in un attimo, o in una sola visione. E non ha quella complessità o volumetria per poter offrire un percorso retrospettivo (se non sintetizzato nel suo esoscheletro). È un palazzetto veneziano con una peculiare scalinata d’ingresso, una sala di rappresentanza su cui si aprono a ventaglio stanzette di piccole o medie dimensioni. E un backstage un tempo usato dai domestici e ora dagli operatori della fondazione BLM. È di certo lo spazio di cui Peter Doig si è interessato quattro anni fa quando, spettatore dell’allora mostra del collega e amico Enrico David, espresse esplicito desiderio di poter intervenire di suo pugno nello stesso contesto, nello stesso ambiente, nello stesso periodo (durante le giornate inaugurali della Biennale di Venezia). Solo opere nuove prodotte in questo lasso di tempo (specialmente negli ultimi tre anni). Nessuna cronologia (non è una retrospettiva) e nessun tema (non è un po’ démodé per una personale pensare a un tematica da investigare?). Lo abbiamo lasciato lavorare e lo abbiamo accompagnato nelle scelte espositive (al photo finish!).
ATP: Quali sono i temi più ricorrenti della sua opera?
Angela Vettese: I temi più ricorrenti del lavoro di Doig sono l’ambiente naturale e anche il corpo, ma non direi che ci sia un soggetto prevalente. Mi sembra che il punto sia il ruolo e il posto dell’immagine nell’opera, tentando di sfidare delle convenzioni anche abusate come la simmetria, la centralità, il taglio che mescola tratti pittorici con elementi fotografici. Mi ricorda la fluidità di Degas messa in una dialettica costante con la geometria di Cezanne e i colori di Gauguin.
ATP: A vostro parare, cosa rende originale e importante la sua ricerca pittorica. Perché è diventato uno dei maggiori talenti della sua generazione?
Angela Vettese: La pittura di Doig è acida e cruda, mai lucida, sempre quasi sabbiosa. Ha qualcosa di brusco, cosa che non tocca l’aspetto emotivo se non per accenni e allusioni. Il suo è un realismo senza affettazioni, impossibile da confondere con qualsiasi rinascita dello spirito pop e anche della violenza espressionista. Sono convinta che il suo modo di essere pittore sia uno dei più onesti nel raccontarci come si possa ancora dipingere prescindendo dall’immagine mediatica, dall’immagine a effetto che fa parte del gusto pubblicitario. Il suo è un tratto che non cerca il consenso e non parte dalla moltiplicabilità dell’opera, anzi cerca di capire se sia tuttora possibile concepire un’immagine auratica. E questo senza negare che anche per Doig ci siano fonti più o meno popolari per le sue immagini: per esempio il corpo femminile che compare in due opere è tratto da una rivista per nudisti. Alla stessa stregua, però, del cavallo più grande che è una citazione da Goya o del leone che è una citazione dalle prigioni di Trinidad, cioè mescolando le immagini di oggi e quelle della tradizione.
ATP: C’è una definizione che ho trovato molto poetica, oltre che molto suggestiva, per presentare Peter Doig: sofisticato pensatore visivo. Cosa avete inteso descrivendolo in questo modo?
AV: Doig dipinge sempre e dappertutto, persino ora a Venezia durante l’allestimento della mostra, oltre che negli atelier di Trinidad e di Londra. Questa necessità di non lasciare mai il lavoro parla di concentrazione e anche di uno sforzo continuato. Ogni quadro, se guardato con attenzione, mostra stratificazioni diverse che si susseguono. Doig non parte mai da un disegno a matita ma sempre da schizzi con una materia corposa, un gessetto o un colore. Da qui procede per mettere a punto immagini che si sviluppano in differenti dimensioni, su carta, su tela, o anche nell’ambito di una stessa grande tela che cambia volto molte volte. Tutto questo mentre l’artista lavora a molteplici quadri contemporaneamente. Il pensiero funziona così: mette a fuoco alcuni problemi, li esamina, li tiene in fase di latenza cercando una soluzione per prove ed errori, li struttura dentro a una geometria mentale che è ordine e quindi anche gerarchia. Alla fine non si ha una decisione ultimativa se non perché occorre agire, ma resta sempre un margine di dubbio. Doig chiude le sue opere senza che possano dirsi chiuse, ma perché occorre farlo. Le chiude quando la struttura geometrica, i rapporti di colore, i contenuti sono ragionevolmente equilibrati e risolti, pur lasciando un margine al processo che potrebbe portare da quell’opera a un’altra ancora. Mi sembra che il modo di funzionare della mente umana e quello con cui funziona la sua pittura, nel processo che include lo scegliere un tema (anzi più temi contemporaneamente, come quando si tengono aperti più file in un computer, rispettando le ossessioni del momento), l’affrontarlo in modo dialettico, nell’accettare periodi di latenza e nel sapersi fermare a una soluzione tenendola peraltro sempre aperta, abbiano un parallelismo.
ATP: Nel curare la mostra, avete scoperto cosa rende i suoi dipinti “tra le immagini più suggestive nell’arte contemporanea”?
MF: Peter ribadisce con ricorrenza e piacere che la pittura gli permette di vivere tante altre storie (forse anche vite). Ogni quadro è un mondo verso cui debordare, da circumnavigare, a cui aggrapparsi fino all’ultimo momento. Oggi, 4 maggio, giorno in cui la mostra apre al pubblico, farà il suo ingresso, o dovrebbe fare, l’ultimo dipinto, che per il momento è stato conservato nella sua stanza d’albergo e li centellinato di giorno in giorno. Non che sia stato dipinto in estremis. Anzi, il contrario, ma il completamento ha richiesto un lungo rendez vous, ed è espressione di una laboriosa ricerca sentimentale. Conosciamo il soggetto (un busto di donna) e conosciamo il suo posizionamento (nella stanza dove impera un cavaliere mentre un altro è stato abbozzato su carta)… Ma non abbiamo certezza che arriverà per tempo. Forse Peter non è ancora pronto a lasciarlo andare.
ATP: C’è un quadro che, a tuo sentire, racchiude e sintetizza l’intera mostra. Un quadro che, se osservato nella sua profondità, svela la natura di questo straordinario pittore?
Milovan Farronato. Ci sono motivi ricorrenti: leoni, cavalli e cavalieri. Qualche figura ribadita: una donna che come un tronco, solida e mascherata, si staglia su fondali cromaticamente diseguali. Qualche quadro collegato al passato: un cumulo piramidale di altoparlanti simili a quelli che ho visto nel suo studio londinese con accasciata, questa volta, una figura femminile. C’è anche una canoa verde con due figure sopra: una in muta e un’altra velata. Non credo ci sia un’opera che possa racchiudere il senso della produzione degli ultimi anni, credo anzi che sia più interessante mettere in relazione le opere tra di loro.
Per la prima volta, dal 6 maggio al 27 settembre 2015, la mostra di Sebastião Salgado per illy, dal titolo PROFUMO DI SOGNO. Viaggio nel mondo del Caffè, sarà proposta alla Fondazione Bevilacqua La Masa di Venezia, con la collaborazione di Contrasto. La mostra è a cura di Lélia Wanick Salgado. La mostra, allestita negli spazi di Piazza San Marco, si compone di una selezione di 75 scatti più rappresentativi del viaggio fotografico compiuto dal grande maestro insieme a illy per omaggiare gli uomini e le donne del caffè: una storia di persone, di paesaggi, di rapporto armonioso con la terra raccontata attraverso immagini in bianco e nero dal forte impatto espressivo, evocativo ed emozionale. La collaborazione con Salgado, iniziata nel 2003 in Brasile, è l’espressione dell’attenzione che illy da sempre pone ai temi dello sviluppo sostenibile, del rispetto delle culture locali e dell’amore per la terra che si concretizzano in un costante rapporto di dialogo con i coltivatori: una relazione improntata allo scambio, alla crescita, e orientata alla qualità del prodotto unita al miglioramento delle condizioni di vita per i coltivatori stessi e le loro comunità. Valori che lo sguardo impareggiabile di uno dei maggiori fotografi contemporanei ha saputo cogliere nei gesti della coltivazione, della raccolta, dell’essiccazione e della selezione dei preziosi chicchi.