Testo di Valerio Borgonuovo —
Perso, l’artista è perso di fronte all’incommensurabile dolore del mondo, e nulla sembra possa fare per trasformare – quanto meno agli occhi e ai cuori di noi comuni mortali – la narrazione del lutto, della morte, quando queste assumono connotati di violenza e ingiustizia come quelli odierni.
Ho letto innanzitutto questo tra le righe di Perso(a)nomalia, la mostra personale di Robert Kuśmirowski (1973, Lodz, Polonia) al MAMbo di Bologna, realizzata in occasione del 44º anniversario della Strage di Ustica (27 giugno 1980). Già nel 2007 era stato Christian Boltanski (1944-2021, Parigi) a confrontarsi con la tragedia di Ustica per il nascente Museo, fortemente voluto dalla Città di Bologna e dall’Associazione dei Parenti delle Vittime, e destinato all’ex deposito tranviario della Zucca, nel quartiere della Bolognina. La scelta di Boltanski fu quella di riavvolgere il nastro del tempo a un attimo prima della tragedia, relegando quest’ultima alla presenza spettrale del relitto del DC9 Itavia e con esso di 9 scatole nere chiuse contenenti gli effetti personali ritrovati in mare.
Cuore del memoriale sarebbero stati invece gli ultimi pensieri, sogni, preoccupazioni, e speranze delle 81 vittime di quell’attentato, che con le loro voci tornavano a reclamare la loro eterna esistenza come persone e non come semplici numeri, materia di analisi statistica.
Il risultato fu un toccante dispositivo di riflessione civica che rappresenta tuttora un esempio straordinario di cultura della memoria, estremamente rispettoso dell’etica della rievocazione.
Ciò che fa Kuśmirowski è ovviamente qualcosa di diverso, non solo da quanto fatto in passato a Bologna in termini di politiche della memoria, seppur coerentemente con esse, ma di diverso anche da ciò che ha contraddistinto finora la sua ricerca. L’artista in questo caso non affronta il tema della memoria – che sappiamo essere centrale nella sua ricerca – facendo ricorso a minuziose repliche di oggetti e ambienti del passato da egli stesso realizzati e utilizzati per liberare il potenziale immaginifico insito nel loro incontro con l’osservatore. Egli stavolta fa ricorso a quella che sembra contraddistinguere la sua indole più genuinamente intellettuale di accumulatore seriale prima ancora che di artista per l’appunto, che lo porta a lavorare col preesistente, sebbene dimenticato o lasciato cadere nell’oblio.
Ne è un esempio il pianoforte a coda, o per meglio dire ciò che di esso resta, in cui si è imbattuto durante le ricerche preliminari, e con cui ha immediatamente stabilito una affezione e un interesse tali da decidere di rendergli omaggio componendo e suonando alcune tonalità minori col suo pianoforte viennese del 1906 non accordato, nonché di diffonderne la registrazione all’interno dell’intero spazio espositivo.
The Piano, questo il suo titolo, è però anche la prima di tre opere frutto dell’incontro con il mercante, arredatore e collezionista Maurizio Marzadori, titolare del negozio Freak Andò (tra i partner tecnici della mostra). Genius loci bolognese per chiunque sia alla ricerca di un’ispirazione prima ancora di un oggetto, è difatti dal suo deposito che proviene sia il pianoforte appena menzionato – che per inciso l’artista colloca in una stanza vuota e bianca, quasi segreta, in fondo alla grande sala centrale – che lo scaffale da magazzino utilizzato per SHEL[L]F, dove la presenza di muffe, tarli e microbi sembra condannare certi oggetti e la loro memoria a un’altra vita dopo la morte; a un’altra vita consacrata all’inutile.
In merito ad esso Kuśmirowski scrive: «si tratta di un meraviglioso oggetto proveniente da un paradiso domestico di oggetti indesiderati, raccolto da Maurizio Marzadori, medico di bellissimi apparecchi dimenticati e di un’enorme quantità di gioielli. Per me un passo importante è stato ricreare l’atmosfera che mi colpì durante la mia prima visita a casa sua. Una libreria collocata in una stanza bianca racconta molto di più di sè che in un giardino. E così che le cose artistiche diventano oggetti d’arte».
E in effetti, ciò di cui parla l’artista riecheggia su una scala ancora maggiore anche nell’installazione ambientale pensata per l’imponente sala centrale delle ciminiere. Un po’ casellario archivistico un po’ deposito oggetti smarriti, Portier presenta oggetti, mobili, ambienti, complementi d’arredo ed effetti personali scovati nel tempo o a casa di Marzadori e qui ricontestualizzati semanticamente secondo associazioni di senso non lineari capaci di indurre a pensare che grazie ad essi sia possibile ricavare indizi e informazioni utili a identificare persone e fatti sepolti dall’incuria o dall’occultamento volontario.
Intorno ad essa, e nelle sale adiacenti si articola quello che potremmo definire un “cosmorama”, per citare il titolo di una delle opere esposte, ovvero un dispositivo di visione sul passato, fatto di altri lavori inediti o in un qualche modo “re-enacted”, riattivati e talvolta “rinominati” (come fossero dei “file”) dall’artista sulla base dell’urgenza concreta che questa mostra solleva e che fondamentalmente ha a che fare con la grande amnesia storica di cui oggi siamo affetti; se è vero che genocidio (PO(OR)LAND), totalitarismo (DUSTtribute), diaspora (Stanislasw Szukalsi’s house), terrorismo (Luft Hansa, originariamente Lindenstr. 35), tra le altre indicibili nefandezze dell’uomo, non sono anomalie del passato da cui abbiamo imparato la lezione ma modalità ancora estremamente attuali di una specie incapace di coesistere pacificamente innanzitutto con se stesso.
Tali lavori riescono inoltre a parlarci di Ustica senza però mai farlo direttamente, senza mai citarla se non attraverso la rievocazione dell’universalità del lutto, del dolore, del torto, dell’ingiustizia che accomuna tutte le vittime ma anche i superstiti della ferocia umana.
Come dicevo l’artista è perso. È perso perché è un uomo e in quanto tale non è immune dal tempo in cui vive, anzi, ad esso è più esposto di chiunque altri per la sua natura irriducibilmente empatica alle cose del mondo. Una condizione, la sua, che lo condanna suo malgrado a doverci salvare, a provare a salvare il nostro rifugio simbolico, seppure momentaneamente, dalla realtà.
L’artista è perso, eppure forse proprio per questa ragione, mai come ora è chiamato a essere guardiano della memoria, portier per l’appunto del nostro tempo, come afferma lo stesso Kuśmirowski, e di essa, della memoria, colui che ne tenta una sua ricomposizione finalmente pacifica e riflessiva.
Sembra poco lo so ma di questi tempi non darei più nulla per scontato.
Robert Kuśmirowski. P E R S O [A] N O M A L I A
A cura di Lorenzo Balbi e Marinella Paderni con l’assistenza curatoriale di Sabrina Samorì
Fino al 6 gennaio 2025
MAMbo – Museo d’Arte Moderna di Bologna | Sala delle Ciminiere
Via Don Giovanni Minzoni 14, Bologna