Testo di Costanza Sartoris
Come si definisce la nostra identità? In che modo il mondo virtuale è entrato a far parte delle nostre vite? Cosa permetterà in futuro di distinguere il reale dal virtuale? Il mondo virtuale e tecnologico renderà il mondo un posto migliore?
Queste e innumerevoli altre domande affollano la mente quando si cerca di ripensare criticamente alla mostra Pretty Good Privacy di Patrick Tuttofuoco presso la Federica Schiavo Gallery (fino al 19/01/17). Le opere, nella loro disarmante semplicità, spingono la riflessione verso un terreno tanto vasto quanto complesso, toccando alcune tematiche che spesso inconsciamente ignoriamo, dove è centrale il come la tecnologia influisca sulle nostre vite. I lavori in mostra si presentano infatti come dialoghi aperti in cui la dinamica del doppio, dell’opposto, sembra creare uno spazio per il dibattito sulla realtà contemporanea che ci circonda.
Uno dei temi affrontati in questa mostra è quello che ruota attorno al concetto di individuo e di come questo si costruisca oggi su un duplice livello di significato: quello concreto, tangibile, della realtà corporea; contrapposto a quello effimero, gassoso, dell’apparenza di ciò che siamo e di ciò che gli altri vedono di noi.
A livello visivo questa dicotomia prende le fattezze dei quattro doppi ritratti che si impongono con la loro presenza spaziale quasi scenica nelle sale della galleria. Volti gassosi, amorfi e dai colori fluorescenti, osservano con grandi e nitidi occhi i calchi cavi in ceramica di soggetti classici. I media assumono in queste opere carattere riflessivo: i grandi e colorati volti stampati su PVC, ritratti irriconoscibili di celebri CEO di industrie dell’IT, dialogano con candide copie apparentemente velate di statue classiche, che, con i loro occhi cavi, aprono loro stesse in uno spazio potenziale fluorescente. L’utilizzo del colore, cifra stilistica del lavoro di Tuttofuoco, tocca l’emotività di chi osserva, generando emozioni e curiosità.
Eppure questo discorso può apparire quasi marginale se si allarga la visione delle opere includendo il tema dell’identità: è infatti sulla dialettica tra ciò che è pubblico e ciò che è privato che la nostra identità a livello sociale acquista senso. Il nostro relazionarci al mondo è un continuo spostamento tra ciò che siamo per noi stessi e ciò che siamo per gli altri e, grazie alla tecnologia, il nostro io privato è sempre più esposto alla sfera pubblica: postiamo cosa mangiamo, ci scambiamo selfie che condividiamo sui social e applicazioni geolocalizzano dove siamo, spesso senza neanche esserne pienamente consapevoli. Il desiderio di mostrare la nostra presenza online, sembra darci così la massima libertà di espressione.
Libertà o controllo? Il software di crittografia Pretty Good Privacy, che Tuttofuoco cita nel titolo, va ricordato come forse l’unico tentativo di difendere la nostra privacy, la nostra libertà di agire in privato. Infatti, Pretty Good Privacy è l’unico software libero in grado di dare segretezza alla nostra comunicazione, utilizzando dei codici di crittografia che proteggono i messaggi, con una tecnologia simile a quella utilizzata dai militari. Sempre sul concetto di libertà entra in gioco un ulteriore livello di analisi che è quello delle potenzialità offerte dalla rete: con una connessione a internet potremmo estendere i nostri orizzonti, eppure gli algoritmi interni a molti search engine ordinano secondo schemi precisi le risposte che noi cerchiamo, indicizzandole in base alle nostre precedenti ricerche e quindi limitando la nostra capacità di allargare il campo, restringendolo alle informazioni che già conosciamo. La libertà diventa ancora una volta apparente, portandoci verso una conoscenza circoscritta e sempre più preferenziale, allontanando da noi tutto ciò che risulta diverso e limitando quindi la nostra capacità critica. Siamo dunque liberi di cercare ciò che vogliamo, ma allo stesso tempo legati a software esterni che decidono a nostre veci cosa farci vedere.
Vi è infine un ultimo importante tema che la mostra Pretty Good Privacy offre allo spettatore come spunto di riflessione. Questo è dato dal led a scorrimento luminoso intitolato A better place, che riprende un video ironico sui grandi discorsi che i CEO delle aziende della Silicon Valley sono soliti fare. Ognuno dichiara il proprio sistema come un mezzo per rendere il mondo un posto migliore, ma, come afferma giustamente Patrick Tuttofuoco sul singolare comunicato stampa della mostra, “questa esigenza sfrenata di rendere il mondo un posto migliore senza mai realmente toccarlo fisicamente mi genera una vertigine e credo che la mostra abbia a che fare molto anche con quello…”