ATP DIARY

Overman — Oscar Giaconia. Intervista con l’artista

Testo e intervista Valentina Gervasoni Il 26 maggio – in occasione di ArtDate 2017 – ha inaugurato (in sordina, potremmo dire) il progetto Wunderkammer della galleria Thomas Brambilla di Bergamo. Spesso l’arte si manifesta attraverso l’accumulo di spettacoli artistici, visti soprattutto come intrattenimento sociale; così, dopo le esperienze di Hong Kong e Brussels, Thomas Brambilla […]

Oscar Giaconia, Green Room, installation view BACO - ph Marco Ronzoni
Oscar Giaconia, Green Room, installation view BACO – ph Marco Ronzoni

Testo e intervista Valentina Gervasoni

Il 26 maggio – in occasione di ArtDate 2017 – ha inaugurato (in sordina, potremmo dire) il progetto Wunderkammer della galleria Thomas Brambilla di Bergamo. Spesso l’arte si manifesta attraverso l’accumulo di spettacoli artistici, visti soprattutto come intrattenimento sociale; così, dopo le esperienze di Hong Kong e Brussels, Thomas Brambilla sente la necessità di mettere in discussione questi rapporti di potere e mercato, “rifiutandosi” ironicamente di rispondere all’esigenza del pubblico da inaugurazione. Racconta Brambilla: “Il mio ruolo da gallerista è essenzialmente quello di facilitatore. La forma vuole essere quella di uno studiolo, una Wunderkammer intesa nella sua accezione primigenia di museo”, un museo la cui collezione è composta da poche opere. Il progetto si propone, infatti, di scegliere una, due opere di un artista da esporre in uno apposito spazio, al riparo dalla vetrina della galleria di Via Casalino, in cui l’opera non cercherà né attirerà spettatori, bensì, solamente, ammiratori e conoscitori. La mostra “si trova”. Si trova fisicamente in uno spazio appartato, chiuso, ricavato sul fondo della main room della galleria e si trova letteralmente in risposta a un cercare consapevole.

La stanza è tenuta quasi al buio, illuminata solamente da una lampada a petrolio che irradia una luce aranciata e un odore pungente. L’atmosfera e lo spazio restituiscono la sensazione di una piccola nicchia, una cappella intima di luce soffusa e controllata per mostrare dettagli. Sottrarre le opere all’implacabile luce diffusa della galleria genera immediatamente una suddivisione netta degli spazi. Ci sono due sale, quella conscia/pre-conscia e quella pre-conscia/inconscia: la dimensione ideale, insomma, per accogliere Overman, il primo capitolo del progetto affidato a Oscar Giaconia.

ATP: A un anno di distanza, torni a presentare il tuo lavoro a Bergamo. L’anno scorso con il progetto Green Room occupavi lo spazio di BACO, quest’anno, sei il primo artista a inaugurare la Wunderkammer di Thomas Brambilla. I due progetti sembrano essere intimamente connessi, uno l’introflessione dell’altro: da BACO, un ruolo di primo piano era giocato dalla presenza del green screen, un fondale cinematografico che dominava lo spazio ospitando in potenza una varietà di sviluppi e visioni; oggi, il contenitore scenico è quasi privato, uno spazio in cui l’opera non cerca né attira “spettatori”, ma solamente “ammiratori e conoscitori”. Ci racconti qualcosa in merito?

Oscar Giaconia: Cerco per cercare. È una concatenazione desiderante che non mi porta a nulla se non a ripetermi macchinicamente, ogni giorno. Non trovando nulla ri-cerco tramite contro-tecniche solipsistiche e catatoniche. La pittura è il parassita che mi possiede, ameba ultrapiatta che mi concede di attraversare dimensioni differenti. Ogni dimensione dentro cui mi dimeno è come un tessuto infinitamente plastico, lamellare, un alveare-pluriball. Ogni cella può essere un delirio cellulare e attivare un processo di proliferazione neoplastica incontrollabile. Il luogo per me è un incubatore, come il corpo del malcapitato ospite lo è per il proprio parassita. Le immagini diventano un polipaio, una fungaia, potenziali terreni di coltura per altre immagini, dove poter deporre e schiudere le uova del proprio immaginario. Che sia una sala d’aspetto, una green room, una cantina, una fogna poco importa, per quanto mi riguarda restano serbatoi dove stipare le macerie dei miei tentativi di controllare quanto è ben al di là del mio controllo e delle mie possibilità.

Oscar Giaconia, OVERMAN -Installation view, Galleria Thomas Brambilla - ph Marco Ronzoni
Oscar Giaconia, OVERMAN -Installation view, Galleria Thomas Brambilla – ph Marco Ronzoni

ATP: Il tema delle visione mi pare rilevante nella tua poetica. La visione è intesa al contempo come fenomeno straordinario e come processo fisiologico e psicologico, collocabile nel dominio della scienza. In Wunderkammer n. 1 Overman, il ritratto di un vecchio fisherman e di un guardiano di porci sono internati nei rispettivi reliquiari sintetici, “altari votivi” che istituiscono un rapporto di chiarezza e oscurità, presenza e assenza, manifestazione e nascondimento, sacralità e profanità del guardare…

OG: Creare un’immagine equivale a divenirne guardiani. Non mi interessa rappresentare nulla, ancor meno riferirmi ad alcun soggetto che non sia subiectum, una forma d’assoggettamento dovuto a sessioni di brutale “masterizzazione” pittorica. I cosiddetti “personaggi”  che assumo sono solo apparenti, non esistono, verifico solo un’escalation sulla reversibilità dei loro “ruoli” in mano all’artefice. Sono immagini-relitto, “vascelli fantasma” che subiscono un inabissamento inverso tra le maglie dei processi di ricerca.
In questo senso alcuni non-personaggi come il fisherman, il nostromo o il pastore di maiali sono solo contenitori-sentinella, vedette stilitiche asservite a un overman-ingegnere che li muove come pedine fuori dalla scena. Un grande studioso come Gian Antonio Gilli, che ho avuto il privilegio di conoscere, osserva nei suoi saggi sugli stiliti, come originariamente alcuni soggetti affetti da handicap fossero potenziali arcaici specialisti, portatori di eccezionali dotazioni insieme corporee e psicologiche. Dove sono finite queste estinte e oramai invisibili specializzazioni di partenza? È ciò che cerco tra il prima e il dopo d’ogni gestazione per immagini; i suoi buchi neri, una danza macabra di interferenze che la squalifichino e la facciano scadere da custode a custodia per altro a venire.

ATP: Green Room chiudeva la sua messa in scena con l’intervento di Vittorio Sodano, make-up artist di notevole fama e talento, che ti aveva truccato e travestito, trasformandoti in una serie di soggetti a te familiari. Il gesto del “trucco”, l’atto del truccarsi, del comporre e inventare, porta con sé anche il significato magico di costruzione di un artificio che si articola tra invisibilità e travestimento. Come ha sottolineato Roger Caillois, uomini e animali si camuffano non solo per nascondersi, ma anche per farsi vedere. Questo processo di “camouflage” è stato un processo di rivelazione di te stesso? Cosa ha celato e rivelato di Oscar Giaconia?

OG: Quell’operazione di trucco fu come un trick, un gioco diagnostico nel tentativo di produrmi nell’innesco di una mistica dell’artificio, come mescolazione tra differenti strumentazioni mimetiche. Maschere e travestimenti hanno radici rituali e apotropaiche ancestrali che mirano sì a proteggere ma anche a intimidire e a incutere paura a ciò che fa paura. È la paura che mi guida. Retrospettivamente, osservando le deiezioni di quell’atto, il passaggio dalla mistica alla mestica, come flusso, fu automatico: la pittura ti mastica e ti espelle in-volontariamente là dove il progetto a monte invece non può accedere. Liquidando sia il truccatore sia il truccato, mi costrinsi di adoperare i resti documentativi di quella messa in scena come flusso di materia ermetica da riciclare pittoricamente.

ATP: I protagonisti di questi interventi sono Overman: figure di controllo, oppressori, pretendenti al ruolo del comando, custodi, guardiani invisibili che vedono senza essere visti, sottratti alla visibilità, ma capaci di rivendicare un’assoluta presenza. La loro reiterazione nella tua poetica e pratica artistica è un segnale di quell’impresa dell’autoconoscenza che sconfina continuamente nell’esistenza? In altre parole, rappresentarli, indossare i loro panni è un tentativo di far aderire la realtà all’inconscio?

OG: Lavoro sempre camuffato, “mascherato”, con divise prese in prestito dal dominio militare, ma occasionalmente anche auto costruite. È una passione dell’illusione, una passione di stare al gioco. Mi sorprende come i mistici amassero “giocare” e inventassero i loro avversari. Violentavano il nulla per animarlo con la conseguenza che il rispettivo pensiero affermava l’esistenza degli altri per mero calcolo e artificio.
Camouflage e camuffamento hanno un etimo incerto, che passa dal vocabolo seicentesco cafouma (letteralmente soffiare una folata di fumo in faccia al nemico per disorientarlo), ai camuffi (ingannatori e ladri veneziani), a carmare-charme (incanto magico gettato sulle cose). Baudrillard scrisse come fosse necessario cercare la maschera dietro l’identità e non il contrario, incolpandola di distogliere l’attenzione da quell’Altro archetipico che ci ossessiona realmente. Sono la maschera e il simulacro che vanno ritrovati. Sempre Baudrillard chiosa in merito che “il simulacro non nasconde la verità, è la verità che nasconde il fatto di non esserci. Il simulacro è vero”.

L’overman non è necessariamente una persona fisica: esiste un’equivalenza con il vecchio caposquadra che annoiandosi durante una pausa si ubriaca, sogna e fa il punto della situazione rimuginando sui vecchi schemi del mestiere.
In realtà lo considero più uno stadio larvale, un luogo psichico, forse. È la cartilagine del mio immaginario che collega e connette materie differenti e incongrue, e contemporaneamente può funzionare da assurda spugna e filtro antivirus, una sorta di impersonale agente Smith a difesa di un programma auto costruito. Ma quel programma anti caos e anti virus può diventare esso stesso il  caos, il virus.

Oscar Giaconia - performance BACO - Ph Francesco Ferri
Oscar Giaconia – performance BACO – Ph Francesco Ferri

ATP: In Colon (2016), una grande scena mostra i resti di un naufragio; mentre, il vecchio fisherman qui esposto è non vedente. In entrambi i casi, l’Overman della situazione dimostra di aver fallito il suo compito…

OG: Quel vecchio e distopico fisherman sembra essere stato accecato. Forse era un vedente in un paese di ciechi e un vedente tra ciechi è quasi sempre un folle, un visionario, non rimaneva altra scelta che cavarsi o farsi cavare gli occhi. L’overman che m’illudo d’essere lavora col fumo negli occhi, procede per tentativi alla cieca, per passaggi a vuoto. Ho sempre considerato le piccole catastrofi, gli auto sabotaggi e i fallimenti come amici fedeli. Guardare un’immagine che passa attraverso un vaglio simile è come esfoliare una piccola cipolla fatta di errori e pentimenti traslucidi. Sono un attento restauratore di relitti e di naufragi.

ATP: Già a partire dal 2011, nella tua produzione è possibile trovare delle opere titolate Colon. Possono essere considerate parte di una serie? L’associazione più semplice, forse banale, che si può fare analizzandone il titolo è quella con il tratto terminale dell’apparato digerente, sede dell’ultimo passaggio di quel processo chimico-meccanico della nutrizione che riduce le strutture biologiche complesse in principi nutritivi ovvero in sostanze assorbibili e assimilabili. Mi chiedo se il tuo processo pittorico sia affine per intenti, al di là del concetto di trasformazione, ovvero se la complessità del pensiero trovi effettivamente una riduzione “semplice” nella pratica. 

OG: Dipingere vuol dire avere il coraggio e l’in-coscienza di diventare unico, di diventare mostri. La pratica pittorica richiede in-volontariamente una scelta radicale, fisiologicamente ascetica, una virtù dello squilibrio. Così avverto sempre una precessione dell’esito sull’intento, dell’incidente sulla causa, del doppiatore sul doppiato.

Colon è una somma di im-posture e atteggiamenti digestivi ai danni dell’immagine coltivata indebitamente alla stregua di una colonia. Ogni immagine può essere canale, buco, interstizio, tunnel, orifizio, foro di scolo per poter accedere altrove. È una ricerca d’al di là. Può essere anche inversamente  il letame, il fertilizzante nero, il compost escrementizio per altre colonizzazioni, per altre immagini. Parafrasando un paradossale iconoclasta, Carmelo Bene, tutta la cultura è scatologicamente una cloaca, una questione di colon-izzazione e di culo.

Wunderkammer n. 1 Overman by Oscar Giaconia
26/05/2017 – 15/07/2017
Thomas Brambilla
www.thomasbrambilla.com

Oscar Giaconia, OVERMAN -Installation view, Galleria Thomas Brambilla - ph Marco Ronzoni
Oscar Giaconia, OVERMAN -Installation view, Galleria Thomas Brambilla – ph Marco Ronzoni
Oscar Giaconia - performance BACO - Ph Francesco Ferri
Oscar Giaconia – performance BACO – Ph Francesco Ferri
Oscar Giaconia - performance BACO - Ph Francesco Ferri
Oscar Giaconia – performance BACO – Ph Francesco Ferri
Oscar Giaconia, OVERMAN -Installation view, Galleria Thomas Brambilla - ph Marco Ronzoni
Oscar Giaconia, OVERMAN -Installation view, Galleria Thomas Brambilla – ph Marco Ronzoni