L’artista svizzera americana Olympia Scarry – nella sua personale White Noise ospitata alla Fondazione ICA a Milano fino al 6 marzo 2022 – si confronta con due delle ‘sostanze’ più ambigue che conosciamo: il tempo e il suono. Come raccontare, descrivere o rappresentare ciò che non si vede, ciò che è impalpabile e sfuggente. Scarry si confronta dunque sui ‘depositi’ del tempo, i suoi effetti e conseguenze sui materiali come cristalli, marmo, vetro e sapone. Così come cerca di dialogare con il suono per restituirne una forma visibile.
Per completare questa sua ricerca, all’ICA l’artista ospita nella sua mostra il film Breaking Into Trunks di Allora & Calzadilla, e una composizione sonora di Stephen O’Malley.
Ad affascinare l’artista è la stretta relazione tra il tempo e il suono – “l’uno non esiste senza l’altro” – che nella sua mente si materializzano in percorsi astratti, discontinui, imprevedibili nella superficie, ma anche nella profondità, della stessa materiale. Nella grande scultura che domina la sala dell’ICA, Saliva del 2013, la Scarry realizza una blocco molto grande di sapone adagiato sopra un sostegno in rame dalle stesse dimensioni. La materia porosa e opaca del sapone bianco dialoga con la lucentezza e la perfezione del rame. Se qui il dialogo si gioca tra lucidità e opacità, nella scultura Untitled del 2019 ad essere in contrasto è, invece, la fragilità del vetro – trattato come fosse una pietra – e la resistenza del tubolare in metallo che lo circuisce, gli pone resistenza.
Poco lontano ci confrontiamo con la scultura IPD 1 8E – R (2022) che consiste in un grande parallelepipedi composto da sapone e carbone. Grazie a questa miscela di elementi, nella superficie del blocco si sono formati dei disegni casuali, macchie, scalfitture che, per un semplice gioco mimetico, fanno apparire questo blocco fragile e mutevole, come se fosse di marmo.
Adagiata sul pavimento, la scultura Parallel Lines Meet At The Point of Inifinity (2019), composta da aste di vetro borosilicato tenute assieme in un piccolo fascio. Per la sua trasparenza e robustezza, questo tipo di vetro è ampiamente usato nella costruzione di telescopi, lenti e strumenti medici. In questo contesto, attivato dalla luce naturale della sala, il fascio di aste di vetro sembra un piccolo tratto di una molto più lunga linea che unisce un ipotetico orizzonte.
Una costante che si trova in quasi tutte le opere in mostra è la particolare sensibilità con cui l’artista sembra orchestrare le linee: nei materiali naturali, come nel caso nei cristalli a pareti nella serie di sculture White Noise II (2022); nelle trame casuali che si formano tra acidi grassi e una base (in genere idrossido di sodio) nella formazione del sapone; o nei grovigli ‘automatici’ che l’artista crea nelle opere su carta, realizzati con alluminio, rame e acciaio.
Oltre alla serie di sculture, in mostra anche una grande opera realizzata con pittura ad olio su carta, dove l’artista si confronta con le frequenze sonore di quel ‘rumore bianco’ a cui fa riferimento il titolo. In merito al titolo della mostra, in una recente intervista, l’artista spiega che il rumore bianco è “il suono trasmesso in modo casuale, che può avere un’identica intensità a frequenze diverse, esprimendo una densità costante come nella luce bianca. La quale, anche se appare così, è definita dalla miscela complessa di tutte le lunghezze d’onda dello spettro visibile. In altre parole, quello che non appare è spesso la forza trainante, come nelle frequenze sonore o visive».
Guardando l’opera ad una distanza molto ravvicinata, la superficie cromatica è intessuta da lievi e quasi impercettibili linee spezzate, digradanti, discontinue e vibranti: tracce e percorsi che, se visti, percorrono i rumori.
In un angolo, dalle piccole dimensioni, una fotografia dal titolo La Soufrière (2022), nome mutuato da vulcano dell’isola caraibica di Saint Vincent che ha oscurato il cielo di Barbados l’anno scorso ad aprile. A colpire l’artista, immagino, sia stato l’enorme massa di ceneri formatesi sopra l’isola. Il vulcano si chiama La Soufrière, “La Solfatara”, in francese.
L’immagine fotografica non rivela molto del vulcano né dell’esplosione nell’isola, suggerisce invece la densa e spessa massa di cenere che, grazie alle luce, crea morbide linee nel cielo. Questa immagine sembra riverberare in tutte le opere in mostra, sia per il ridotto spettro cromatico che per le suggestioni formali.
Per ampi e ambigui processi, per la scelta dei materiale e la loro lavorazione, per il complesso e misterioso intreccio tra tempo e suono, ciò che l’artista ci racconta con questa selezione di opere in mostra, è un concetto molto affascinante che ha a che fare con la storia ‘vertiginosa’ nella terra.
Alludendo a quello che secoli fa è stato definito «tempo profondo» – il tempo delle trasformazioni naturali, tanto lungo che per noi è quasi impossibile farcene un’idea chiara – Scarry ci invita a intuire quell’abisso che cela il tempo geologico che trasforma i minerali, disegnandone le venature e gli sfumati. Ciò che un artista può creare con un rapidissimo segno del pennello, la natura impiega milioni di anni, un tempo inimmaginabile.
Tra la resistenza degli opposti – leggero/pesante, lucido/opaco, fragile/forte binomi che caratterizzano tutte le opere in mostra – Scarry ci presenza forme astratte che svelano “l’urgenza di purificare e registrare la memoria materiale del tempo”.
In contemporanea con la mostra di Olympia Scarry, la Fondazione ICA Milano ospita la video installazione di Maria D. Rapicavoli, The Others: A Family Story e la personale di Christine Safa, C’era l’acqua, ed io da sola, a cura di Alberto Salvadori.
Tutte le mostre sono in corso fino al 6 marzo 2022.