Testo a cura di Brenda Vaiani —
Man mano che il lockdown si estendeva su scala globale, una lunga schiera di riflessioni sul virtuale hanno
iniziato a diffondersi freneticamente in qualsiasi tipologia di spazio digitale.
“Ci si può affidare al web quando lo spazio fisico cessa di essere disponibile?” Questa e altre domande simili
si sono ripetute in uno strano e ossessivo loop, con la sensazione che ogni volta non si riuscisse mai a
raggiungere un punto più alto del discorso, da cui fosse possibile intravedere il panorama culturale in tutto
il suo progressivo e inesorabile mutamento. Corpi confusi, le diverse opinioni che animavano i talk delle 6 di
sera sui canali Instagram, mi sembravano dar vita ad un frame cinematografico: somigliavano a quelle
gocce d’acqua, che in alcuni film di fantascienza sfuggono dalla bottiglietta dell’astronauta e restano ad
orbitare senza meta nelle capsule spaziali a gravità zero, fino a che lentamente non fuoriescono dal centro
dell’inquadratura.
Dalle prime settimane di Marzo, dal piccolo spazio indipendente, alla galleria o alla grande istituzione museale, nella maggior parte dei casi la reazione è stata quella di “passare all’azione”, traducendo nel virtuale, in maniera letterale, i propri contenuti. Scelta comprensibile, sicuramente l’unica visto il poco tempo concesso al vuoto che si era improvvisamente reso ostacolo tra noi e il mondo; e molti, così, sono effettivamente riusciti ad assicurare alla propria realtà di non sparire in maniera traumatica dallo scenario. Ad Aprile, a distanza nemmeno di un mese dal lockdown, residenze, mostre virtuali, attività ricreative in formato jpg con cui coinvolgere il pubblico da casa, sono iniziare a comparire ovunque: mosse ad effetto, sicuramente, ma quanto si stava facendo, poteva dirsi la risposta più esauriente, più concreta al bisogno di una ri-progettazione del “fare”e “comunicare” arte? Purtroppo credo di no. Come le domande di qualche tempo prima, queste occasioni-goccia, sono sparite con poco lascito oltre i bordi della scena che stavamo osservando.
La confusione è normale e di per sé non è negativa: lo diventa quando viene interrotta bruscamente, ignorando i cambiamenti che si stanno adoperando all’interno della coscienza individuale e collettiva e che generalmente, fanno spazio a nuove vie del sapere. Se poi ci soffermiamo su una valutazione generale delle proposte relative al web, rare eccezioni a parte, è impossibile non ammettere che la frettolosità di un’azione del genere ha fatto emergere più che altro un rapporto assai acerbo con il digitale e una coerenza sorprendentemente vacillante sulle componenti fondamentali di ciò che rende la pratica artistica necessaria e disponibile solo e quando può affermarsi nel suo pieno potenziale, piuttosto come qualcosa che al pari di un prodotto commerciale qualsiasi – deve-essere-sempre- e-comunque-garantito dai suoi produttori.
Risulta sempre più evidente che la questione meriti di essere ripresa e ampliata. Ben prima del suo effettivo arrivo, il duemila venti ci aveva spinto verso un sentimento nostalgico, attraverso il quale, globalmente, abbiamo iniziato a stilare liste e classifiche per eleggere il meglio del secondo decennio del nuovo millennio. E così il distaccamento è arrivato, ma da quest’ultimo è emerso con tutta la sua potenza qualcosa di imprevedibile: un concetto di fallibilità con cui la società contemporanea, gli organi istituzionali che la costituiscono e le attività che le animano, pensavano di non dover mai fare i conti.
Questo non può essere archiviato assieme alla fine dell’emergenza Covid, ma anzi deve essere considerato, nel contemporaneo, il più importante precedente e strumento con cui mettere a fuoco ciò che culturalmente deve essere abbandonato o ricostituito. Perché nonostante si sia entrati sempre più in confidenza con termini come “jpg”; “bitmap”; “gif”, con la compressione dei data o con l’utilizzo dei programmi per la conversione e la trasmissione di materiale analogico in digitale, i progetti espositivi nati sotto la stella del distanziamento, non sono riusciti a dare il proprio contributo in termini di lungimiranza narrativa. Tutt’altro, sono rimasti confinati o talvolta peggio ancora sepolti da una condizione che ad oggi possiamo dirlo con certezza, rappresentava solo la fase iniziale di un cambiamento antropologico e culturale immenso, e per questo lentissimo da metabolizzare.
Forse allora, anziché spingersi verso un consumismo emotivo e narrativo immediato, la direzione artistica avrebbe dovuto indirizzare ad una – ci si rende conto, difficile – pratica di attesa e di astensione dalla voracità con cui generalmente ci si approccia al fenomeno degli eventi.
Percepire la chiamata che gli artisti da sempre avvertono nelle situazioni di forte cambiamento sociale, non dovrebbe venire tradotto in un rastrellamento di voci e significati con lo scopo primario di porre rimedio alla fragilità della propria istituzione. Non dovrebbe significare progettare e agire per necessità di aderire a concetti erronei di normalità, a ritmi socio-culturali basati più di quanto si vuol ammettere sulla quantità e sulla velocità con cui si propagano i contenuti. Al contrario, il risultato e la presentazione al pubblico di una proposta espositiva dovrebbe rendere conto di un elevato valore di qualità che si ottiene e che cresce proporzionalmente al rapporto che si intesse con gli artisti, all’investimento temporale, morale ma anche economico sul loro lavoro: non dimentichiamoci che anche in tempi tranquilli la ricerca prevede prima di tutto il facile accesso a materiali, all’attrezzatura e agli spazi del lavoro, ma soprattutto di norme che la tutelino.
Solo adesso, forse, ci si sta rendendo conto non solo di quanto fossimo lontani dal conoscere la totalità delle parti di questa esperienza, ma anche degli ostacoli che in termini di sussistenza caratterizzano il settore artistico-culturale, coinvolgendo la professione del mediatore culturale come quella dell’educatore, dell’artista come quello del dipendente free-lance, del curatore emergente e così via.
E in effetti appena ci si è lasciati alle spalle la moltitudine di “pupazzi zsdanoviani”1 digital-espositivi, è con uno schianto senza precedenti che le coscienze di ogni tipologia di professionista hanno assistito, svegliandosi di colpo, all’impietoso spettacolo dei propri ruoli e delle proprie mansioni via via limitate o interrotte, nell’obiettivo delle istituzioni di creare in totale autonomia un’alternativa virtuale alle loro voci e alle loro capacità. Ad esempio, è con un cupo clamore che nelle prime settimane di emergenza si sono diffuse le notizie della massiccia campagna di licenziamenti portata avanti tra i dipendenti free-lance e part- time di grandi musei come il MoMa, il Mass Moca, gallerie e fondazioni internazionali e della lettera di risposta che ne è seguita, firmata da più di 200 professionisti:
“This could be a moment in which to utilise these skills to offer more to communities than virtual museum tours. Instead of retrenching museums into conservative modes of exclusionary content dissemination, a more forward-thinking stance would be to intensify the educational dimension of their offer in this moment of fear, loss and community re-organisation, and to prioritise relationships with their most excluded groups.”
L’emergenza Covid-19 non ha dunque evidenziato solo la necessità della pratica artistica di rivalutare sé
stessa con nuovi obiettivi, ma di guardare dritto in faccia la fragilità di un’intera collettività che ha sempre
convissuto con una condizione fossilizzata di precariato, e che adesso si è semplicemente rivelata.
Per non accettare l’idea di un futuro in cui si elegge semplicemente il miglior programma espositivo
virtuale, o in cui si procede col mantenimento dei vecchi modelli, per le istituzioni e per i singoli è giunto il
momento di ripensarsi creando nuove vie per la pratica contemporanea ma soprattutto ri-assegnando
diritti alla propria forza lavoro, valorizzando e non sospendendo un potere intellettuale che risulta essere il
vero strumento per rinvigorire la pratica di far cultura di domani.
E qualcosa, sta già accadendo. Vicino a noi, realtà come il Mambo, a Bologna e FuturDome a Milano, stanno segnando la fase della ripartenza vocando i propri spazi a fucine laboratoriali per gli artisti emergenti – categoria tra le più fragili nel settore – concedendo quanto di più sacro adesso: il ritorno al lavoro, quello che adopera concretamente per il domani, alle voci degli intellettuali di ampliarsi dentro le architetture del sapere, ma soprattutto lo slittamento discorsivo verso quel punto più alto di cui si parlava all’inizio, da cui si possono intravedere le prime risposte lungimiranti alle domande che ci stiamo facendo tutti e che vertono su corrette necessità e doveri dell’esserci, di una vera e propria ricostruzione.
1 Termine utilizzato in uno scritto del 1968 dall’artista Gastone Novelli che aveva come soggetto il legame arte e società, pubblicato in “Scritti ’43-‘68” Edito da Nero. “Ma il condividere le opinioni ed i sentimenti del nostro tempo non significa, qui, il produrre pupazzi zdanoviani o oggetti per il consumo: il linguaggio più astratto o più individuale, quando è retto da una sua logica, quando tiene conto dei dati, di tutti i dati del suo tempo, quando è in grado di entrare in relazione anche con una sola parte dell’esterno, entra a far parte della realtà contemporanea”.