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English text below
In occasione della sua personale Many Maids Make Much Noise – ospitata fino al 13 febbraio 2016 all’ ar/ge Kunst di Bolzano – abbiamo intervista l’artista inglese Olivia Plender.
Con questo appuntamento si conclude il programma del 2015 dedicato alla riflessione sui trent’anni di attività di ar/ge kunst come Kunstverein di Bolzano e sul significato suggerito dal proprio nome (ar/ge kunst come Arbeitsgemeinschaft o gruppo di lavoro).
ATP: La tua mostra è la conclusione di una serie di eventi in occasione della celebrazione dei trent’anni di argekunst. I vari artisti che hanno partecipato quest’anno sono stati invitati a riflettere sul concetto di “ar/ge kunst” come Arbeitsgemeinschaft o gruppo di lavoro. Quali sono le tue considerazioni sul progetto che hai inaugurato recentemente a Bolzano?
Oliavia Plender: Sono attratta dall’idea del ‘gruppo di lavoro’ perché lavoro spesso in collaborazione con altre persone. Questo solleva interessanti problemi pratici come le dinamiche di gruppo, la distribuzione del potere, prendere decisioni collettive e così via, nonché questioni etiche sulla rappresentazione e sull’appartenenza. Tuttavia, in questa mostra l’idea di ‘gruppo di lavoro’ è presente su più di un livello tematico. Gran parte del mio lavoro come artista deriva dalla ricerca storica sui movimenti sociali del passato, e più di recente ho osservato il movimento delle suffragette inglesi (l’ala militante della campagna per il diritto di voto alle donne nei primi del Novecento). Ultimamente ho riflettuto su come grandi azioni pubbliche collettive, come le proteste e le manifestazioni dei militanti – motivo per cui tale movimento è famoso–, erano sostenute da reti private di amicizia e affetto. Inoltre ho riflettuto sui modi di lavorare, di vivere e di stare insieme, che sono storicamente meno visibili ma non meno importanti in termini di lotta per cambiare opinioni e comportamenti, rivendicare spazzi e far udire la propria voce.
La mostra si focalizza in parte sulla rivista Urania, che esisteva tra il 1915 e il 1940 e fu fondata da Esther Roper e Eva Gore-Booth (entrambe attiviste per il diritto di voto alle donne) insieme a Thomas Baty. Il titolo Urania si riferisce a un luogo utopico dove non esistono generi; a quel tempo gay, lesbiche e persone che non si conformavano alle norme di genere spesso si definivano Uraniani. La rivista era distribuita agli ‘amici’ privatamente (presumibilmente a causa di leggi di censura) e non aveva molto contenuto originale o editoriale. Si compone, invece, di ritagli di giornale inviati da sostenitori di tutto il mondo; questo crea una sorta di indice globale di esempi di non conformità al genere, cross dressing, travestitismo, ermafroditismo, matrimoni dello stesso sesso e così via, nonché dell’attività femminista. La rivista è il risultato di uno sforzo collettivo, da un lato sembra cercare di portare in vita una nuova soggettività, dall’altro di creare reti di sostegno e di solidarietà tra persone che altrimenti sarebbero invisibili l’una all’altra.
ATP: “Many Maids Make Much Noise” sviluppa una ricerca che hai iniziato prima di questa mostra, sulla storia del Women’ Social and Political Union (WSPU). Potresti dirmi da dove proviene il tuo interesse per questo argomento?
OP: Ho iniziato la mia ricerca sul WSPU nel 2010, quando mi è stato commissionato dal The Women’s Library di Londra (in collaborazione con Hester Reeve) un lavoro attinente al loro archivio di storia femminista. Ci siamo rese conto, dunque, che c’è un incredibile divario tra la rappresentazione storica tradizionale del movimento (come quello creato dai media e quello che ci hanno insegnato a scuola) e la complessità che abbiamo visto all’interno di materiali d’archivio, lettere, foto e così via. Insieme alla lotta per il voto, il WSPU ha sostenuto l’apertura alla formazione e alle professioni per le donne e un gran numero di artisti sono stati membri del WSPU, la più importante è Sylvia Pankhurst. Inoltre gli artisti hanno giocato un ruolo importante all’interno del più ampio movimento per il suffragio femminile, ad esempio nella pubblicazione Suffrage Atelier. Questa ha funzionato come una scuola d’arte alternativa dove la gente poteva imparare a lavorare con i processi di stampa, al fine di produrre propaganda visiva per la causa. L’opera che Hester ed io abbiamo fatto in risposta al materiale d’archivio era ‘Open Letter to Tate Britain’ nella quale esigevamo che il Tate affrontasse quegli artisti che facevano parte del movimento delle suffragette, poiché sono state in gran parte trascurate dagli storici dell’arte (con l’eccezione di Lisa Tickner nel suo libro The Spectacle of Women). Successivamente abbiamo curarto una mostra delle opere di Sylvia Pankhurst alla Tate Britain, sotto il nome di Emily Davison Lodge. Questo progetto è il seguito dell’altro e affronta altri aspetti del movimento.
ATP: Perché pensi che sia importante, oggi, affrontare un problema storico risalente a un centinaio di anni fa?
OP: Gran parte del lavoro che faccio come artista è in qualche modo sia una riflessione sia una partecipazione nella lotta a come la storia viene scritta. L’esclusione degli artisti suffragette dalla storia dell’arte è un classico esempio di come artisti femminili raramente sono stati considerati abbastanza importanti da essere trattati da storici dell’arte; questo riflette gli atteggiamenti delle società verso le donne nel loro complesso. Ad esempio nella mostra delle opere di Sylvia Pankhurst alla Tate Britain, volevamo fare un intervento femminista nel canone della storia dell’arte; oltre ad aprire un dialogo sulla mancanza di rappresentanza di artisti femminili, sia nelle collezioni che nelle mostre, storiche e contemporanee.
Uno dei poster che ho fatto per l’esposizione alla ar/ge kunst, a Bolzano, si riferisce all’attivismo antifascista di Sylvia Pankhurst nell’ambito dell’Etiopia. Lei è ben riconosciuta (soprattutto in ambito britannico) per i suoi voti vincenti a favore delle donne. Tuttavia non ugualmente nota è la sua lotta contro il razzismo e l’imperialismo. Quando Mussolini invase l’Etiopia nel 1935, lei era una delle poche figure nella sinistra europea che associava questa lotta africana con la lotta contro il fascismo in Europa. Infatti morì in Etiopia, trasferitasi lì verso la fine della sua vita all’invito di Haile Selassie. Ha anche fondato il East London Federation of Suffragettes nella parte più povera di Londra, e in seguito fu espulsa dal WSPU, per volere di sua madre Emmeline e la sorella Cristabel, a causa del suo socialismo. Successivamente il East London Federation of Suffragettes divenne il Workers Socialist Federation nel 1918, il primo partito comunista in Inghilterra, affiliato brevemente alla 3a internazionale. Ma si allontanò da Lenin, criticando lo sviluppo della democrazia all’interno del comunismo, la riorganizzazione del lavoro domestico e la rappresentazione della figura della madre da parte della comunità sovietica – in breve una rivoluzione nella famiglia. Come molte delle suffragette lei si rifiutò di sposarsi e criticava il modo in cui il matrimonio sancisse la disuguaglianza tra i sessi nella legge. Difatti, ha avuto un figlio fuori dal matrimonio con il suo partner, un anarchico italiano di nome Silvio Corio.
Per me lei è una delle figure più interessanti di quel movimento perché lottava per l’uguaglianza in senso ampio, non solo collegando la classe con problemi di disuguaglianza di genere ma anche di razza, cosa che ritengo molto contemporanea. Il movimento delle suffragette nel suo complesso non era limitato alla lotta per il voto ed era in diversi modi molto più vario rispetto a come viene percepito oggi. Rivelando la complessità di quel momento storico e i collegamenti ad altri movimenti sociali, la sua rilevanza nelle lotte contemporanee diventa più chiara. Le donne avrebbero potuto vincere il voto in questa parte del mondo ma ancora non abbiamo ottenuto molto di ciò che sostenevano radicali come Sylvia Pankhurst o il gruppo collegato ad Urania. Hanno costituito una sfida per una vasta gamma di norme sociali che esistono ancora oggi, compreso il genere e l’istituzione della famiglia.
ATP: Come sei venuta a conoscenza della rivista Urania? Che cosa ti ha colpito di questa pubblicazione, così tanto che hai deciso di organizzare l’intera struttura della mostra su di essa?
Nell’archivio del Women’s Library mi sono imbattuta in molte foto di suffragette cross-dressing, donne mascoline e storie di gruppi di donne che vivevano insieme. Ho cominciato a riflettere su questo e ho scoperto che molte suffragette erano apertamente lesbiche o ‘gender non-conforming’. Compresa la compositrice Ethel Smyth, Vera ‘Jack’ Holme (una frequente cross-dresser e autista di Emmeline Pankhurst), così come Eva Gore-Booth ed Esther Roper (che certamente hanno vissuto in coppia e probabilmente anche in tre con Christabel Pankhurst, ad un certo punto). Attraverso il loro comportamento, i WSPU sfidavano le idee tradizionali della famiglia, così come le norme di genere, e costituivano ciò che ora riterremmo un movimento molto ‘queer’. Gran parte di ciò che esiste oggi di Urania è frammentario e nessuna edizione completa della rivista sembra sia stata conservata. Questo mi intriga, perché trasforma Urania in qualcosa di più simile ad un concetto, un’idea. Lascia spazio per l’immaginazione, che per un artista non è un ostacolo, infatti posso avere a che fare con materiale storico in modo diverso rispetto a uno storico. All’inizio di ogni volume che ho letto al Women’s Library, c’era un comunicato:
“Ai Nostri Amici – Urania rappresenta la moltitudine di coloro che sono fermamente determinati a ignorare la duplice organizzazione dell’umanità in tutte le sue manifestazioni. Convinti che questa dualità abbia provocato la formazione di due modelli alterati ed imperfetti. Convinti inoltre che al fine di liberarsi da questa situazione, non saranno sufficienti misure di “emancipazione” o “uguaglianza” che non abbiano come punto di partenza un assoluto rifiuto nel riconoscere o tollerare la dualità stessa. Qualora il mondo veda la dolcezza e l’indipendenza combinati nello stesso individuo, tutto il riconoscimento di tale dualità dovrà essere abbandonato. Poiché essa comporta inevitabilmente il suggerimento di quelle distorsioni convenzionali del carattere che sono basate su di essa. Non esistono “uomini” o “donne” in Urania.”
Mettendo in discussione l’idea stessa di un genere binario, esse vanno oltre il resto del movimento femminista di quel momento. Ho usato questo comunicato nella mostra, insieme a una serie di poster che ho fatto sulla base di alcuni degli articoli che si possono trovare in Urania: storie frammentarie di briganti in Pomerania che sfuggono alla legge facendosi passare per donne, un uomo a Buenos Aires che alla sua morte viene scoperto essere biologicamente una donna, piante che possono cambiare il loro genere e così via. Un altro dettaglio veramente affascinante per me riguardo la rivista è che erano chiaramente antifascisti e internazionalisti e contrariamente alle mie aspettative la rivista contiene informazioni su movimenti femministi nel mondo, in Giappone, Cina, India, Egitto e così via, così come in altre parti d’Europa.
ATP: Il titolo della mostra “Many Maids Make Much Noise” è un estratto di una serie di esercizi vocali che hai svolto giornalmente per un anno, per rieducare la tua voce dopo averla persa. Come hai intrecciato la tua storia personale con eventi politici legati a particolari eventi sociali?
OP: Gran parte del mio lavoro come artista si focalizza sull’idea simbolica della ‘voce’, che è e non è in grado di rivendicare il diritto di parlare in pubblico. Quando ho perso la capacità di parlare, per un anno intero dopo una malattia nel 2013, ho cambiato profondamente il mio modo di pensare riguardo a ciò. Essendo letteralmente senza voce, mi sentivo vulnerabile negli spazzi pubblici e nel corso della mia terapia sono stata esposta a un sacco d’impostazioni istituzionali, come gli ospedali, sui quali ho poi voluto riflettere. All’interno del pensiero femminista “ciò che è personale è politico”, dunque queste esperienze concrete che ho avuto come individuo puntano naturalmente a più ampi problemi strutturali. In una delle opere esposte, dal titolo ‘Learning to Speak Sense’, ho lavorato con un voice coach che mi ha aiutato a improvvisare su alcuni degli esercizi vocali che ho praticato in quel periodo. Molte delle parole, frasi ed espressioni che mi hanno dato come esercizi all’ospedale mi sembrano avere un qualche tipo di messaggio politico nascosto. Ad esempio, il titolo della mostra “Many Maids Make Much Noise” (molte cameriere fanno molto rumore), o di un’altra frase che ho dovuto ripetere “Militant Miners Means More Money” (minatori militanti vuol dire più soldi), entrambi sembrano parlare del potere della voce collettiva che vuole essere ascoltata, che richiede attenzione, che “fa rumore”. Nel contesto britannico, qualsiasi riferimento ai ‘militanti minatori’ richiama immediatamente lo sciopero dei minatori del 1980, in cui la National Union of Mineworkers s’imbatté con il governo Thatcher in uno degli scioperi più lunghi della storia britannica. Mi sono convinta del fatto che ci sia un autore anonimo, che lavora come assistente sociale all’interno del sistema ospedaliero, che distribuisce i loro messaggi clandestini attraverso le voci delle persone che stanno imparando a parlare. Trovo quest’idea molto poetica.
Tuttavia, volevo anche esplorare l’aspetto disciplinare della terapia per la voce; le sue origini sembrano risiedere nella formazione di lezioni di retorica e dizione nel XIX secolo, quando agli uomini veniva insegnato a parlare con autorità e alle donne con voci morbide e ‘piacevoli’. Ho una voce abbastanza bassa per una donna e quando ero in cura in ospedale sono stata incoraggiata a parlare con tono molto più alto. Quando sono tornata a quell’esperienza, mentre lavoravo su questa opera con il voice coach, entrambi abbiamo messo in discussione se ci fosse stato alcun motivo fisico reale per me di parlare con un tono più alto, o meglio se in realtà si trattasse di una convenzione. Pertanto nell’opera sonora facciamo molta esercitazione dove cerco di imparare a parlare con una voce maschile molto profonda, che è tradizionalmente quello che la gente associa con il modo di parlare autorevole.
ATP: Pensi che l’arte possa trovare la sua strada nella coscienza delle persone e cambiare le loro opinioni su pregiudizi e false ideologie?
OP: Mi chiedo che cosa intendi esattamente per ‘arte’, dato che può avere un significato elusivo da definire. Nel suo libro The Spectacle of Women, la storica dell’arte Lisa Tickner sostiene che “la divisione arte / propaganda è di per sé una sorta di propaganda per l’arte: essa stabilisce la categoria dell’arte come qualcosa di complesso, umano e ideologicamente puro, per mezzo di una categoria alternativa di propaganda, ovvero ciò che è grezzo, istituzionale e di parte.” Prendiamo ad esempio Sylvia Pankhurst, lei di solito viene vista come se avesse abbandonato l’arte per l’azione politica, tuttavia questo ribadisce la nozione conservatrice di arte come una sfera separata dalla politica; io direi piuttosto che ha sostituito una forma di rappresentazione con un’altra. Una volta diventata un’attivista politica a tempo pieno ha continuato a produrre propaganda visiva per il movimento, ha fondato una fabbrica cooperativa di giocattoli nell’East End di Londra con giocattoli disegnati da artisti, poi si è messa a scrivere opere teatrali politiche, narrativa e storia. Inoltre verso la fine della sua vita fu coinvolta nella scena artistica in Etiopia. Durante la lotta per il diritto di voto alle donne nel Regno Unito, tutte le organizzazioni di suffragio femminile coinvolte (comprese le organizzazioni non militanti) erano profondamente consapevoli del potere delle immagini, dei poster, del graphic design, dell’arte, degli spettacoli pubblici su larga scala e dell’importanza di cambiare il modo in cui le donne venivano rappresentate. Lo videro piuttosto come parte della lotta per il voto. Il giornale prodotto dalla National Union of Women’s Suffrage Societies, chiamato The Common Cause, invitò gli attivisti ad “agitare per mezzo di simboli”. Questo tipo di attività da parte degli artisti, insieme a lavori più riconosciuti all’interno delle definizioni tradizionali di arte, presentano chiari esempi di come l’arte possa giocare un ruolo all’interno dei movimenti politici; come la serie di dipinti del 1907 Women Workers of England di Sylvia Pankhurst che documentano le condizioni di lavoro delle donne.
ATP: A mio parere personale, onestamente, non credo che l’arte possa “fare rumore”. Ma credo che l’arte possa mettere in discussione le cose e aiutare ad annientare le certezze. Preferibilmente, che cosa spereresti di ottenere con le tue opere, a livello politico e sociale?
OP: Lavorare all’interno di ambienti istituzionali può essere un modo per sfidare le pratiche di musei e gallerie come parte della lotta alla rappresentazione e a come la storia viene scritta. La storia è una disciplina molto normativa. Quello che crediamo di sapere della nostra storia da forma al nostro mondo di oggi, all’idea di chi siamo, alle azioni dei nostri governi, alla politica estera e così via. L’arte non è un sostituto dell’attivismo ma la rappresentazione è importante; immagini e simboli hanno il potere di plasmare le nostre percezioni. Per me l’arte è la distribuzione di idee, richiamare l’attenzione su alcuni particolari storici trascurati, micro storie, rendendo la storia più complessa, contrariamente alla consueta versione semplificata e monolitica della storia che viene utilizzata per sostenere la cattiva politica.
Traduzione dall’inglese di Gabrio Micheli
Interview with Olivia Plender
With the first Italian solo exhibition by British artist Olivia Plender (b. 1977), ar/ge kunst concludes its 2015 programme reflecting on thirty years’ activity as Bolzano/Bozen’s Kunstverein and on the meaning of its own name (ar/ge kunst as Arbeitsgemeinschaft or working group).
We asked some questions to the artist.
ATP: Your exhibition is closing a series of events on the occasion of the thirty-year celebration of argekunst. The various artists who worked for that this year have been invited to reflect on the concept of “ar/ge kunst” as Arbeitsgemeinschaft or work group. Which are the considerations you came up to with the project that you recently opened in Bolzano?
Olivia Plender: I am drawn to the idea of the ‘work group’ because I often work collaboratively. This brings up interesting practical problems such as group dynamics, the distribution of power, collective decision making and so on, as well as ethical questions about representation and authorship. However, in this exhibition the idea of the ‘work group’ is present on more of a thematic level. Much of my work as an artist results from historical research into social movements from the past, and most recently I have been looking at the British suffragette movement (the militant wing of the early twentieth century campaign for votes for women). Lately I’ve been thinking about how the big collective public actions, such as the protests and manifestations of militancy, which that movement is famous for, were underpinned by private networks of friendship and care. Ways of working, living and being together that are less visible to history, but no less important in terms of the struggle to change opinions and practices, claim space and have ones voice heard.
The exhibition focuses in part on the magazine Urania, which existed between 1915 and 1940 and was established by Esther Roper and Eva Gore-Booth (both campaigners for votes for women) along with Thomas Baty. The title Urania refers to a utopian place where there is no such thing as gender; and at that time gays, lesbians and people who did not conform to gender norms often referred to themselves as Uranians. The magazine was distributed to ‘friends’ privately (presumably because of censorship laws) and has very little original content or editorial. Instead it comprises of newspaper cuttings sent in by subscribers from around the world, which creates a kind of global index of instances of gender non-comformity, cross dressing, transvestism, hermaphroditism, same sex marriages and so on, as well as feminist activity. The magazine was produced by collective effort and seems to attempt both to bring into being a new subjectivity, as well as create networks of support and solidarity amongst people who would otherwise be invisible to each other.
ATP: “Many Maids Make Much Noise” develops a research, that you started before this exhibition, on the history of the Women’ Social and Political Union (WSPU). Would you like to tell me where does your interest in this topic come from?
OP: I started researching the WSPU in 2010, when I was commissioned by The Women’s Library in London (in collaboration with Hester Reeve) to make a work in relation to their feminist history archive. We realised then that there is an incredible gap between the mainstream historical representation of the movement (as it exists in the media and what we were taught at school), and the complexity that we saw in the archival materials, letters, photos and so on. Along with the struggle for the vote, the WSPU advocated the opening up of education and professions to women and a large number of artists were among the members of the WSPU, the most prominent being Sylvia Pankhurst. Artists also played an important role within the wider women’s suffrage movement, for example in the Suffrage Atelier. This functioned as an alternative art school where people could learn how to work with printing processes, in order to produce visual propaganda for the cause. The artwork that Hester and I made as a response to the archival material was an ‘Open Letter to Tate Britain’ demanding that the Tate address those artists who were a part of the Suffragette movement, as they have largely been neglected by art historians (with the exception of Lisa Tickner in her book The Spectacle of Women). Subsequently we ended up curating an exhibition of Sylvia Pankhurst’s art works at Tate Britain, under the name of the Emily Davison Lodge. This project follows on from that and addresses other aspects of the movement.
ATP: Why do you think it is important, today, to deal with an historical issue dating back to a hundred years ago?
OP: Much of the work that I do as an artist is somehow both a part of and reflects on the struggle over how history is written. The exclusion of the suffragette artists from art history is a classic example of how female artists have rarely been considered important enough to be written about by art historians; which reflects societies attitudes to women as a whole. In the example of the exhibition of Sylvia Pankhurst’s art works at Tate Britain, we wanted to make a feminist intervention in the canon of art history and also to open up a dialogue about the lack of representation of female artists, in both the historical and contemporary collection and exhibitions.
One of the posters that I made for the exhibition at ar/ge kunst, in Bolzano, refers to Sylvia Pankhurst’s anti-fascist activism on behalf of Ethiopia. She is well recognized (especially in the British context) for her place in winning votes for women. However less well know is that she also fought against racism and imperialism. When Mussolini invaded Ethiopia in 1935 she was one of he few figures in the European left, who associated this African struggle with the fight against fascism in Europe. In fact she died in Ethiopia, having moved there towards the end of her life at the invitation of Haile Selassie. She also established the East London Federation of Suffragettes in the poorest part of London and was later expelled from the WSPU, by her mother Emmeline and sister Cristabel, because of her socialism. Subsequently the East London Federation of Suffragettes became the Workers Socialist Federation in 1918, the first communist party in England, briefly affiliated with the 3rd international. But she split from Lenin, arguing for the development of democracy within communism; and the reorganisation of domestic labour and representation of mother’s through community based soviets – in short a revolution in the family. Like many of the suffragettes she refused to marry and was critical of the manner in which marriage enshrined the inequality between the sexes in law. In fact she had a child out of wedlock with her partner, an Italian anarchist named Silvio Corio.
For me she is one of the most appealing figures in that movement, as she was fighting for equality in a broad sense, not only linking class with issues of gender inequality but also race, which feels very contemporary. The suffragette movement as a whole was not limited to the fight for the vote and was in many ways far more diverse than how it is perceived today. By revealing the complexity of that historical moment, and links to other social movements, its relevance to contemporary struggles becomes clearer. Women may have won the vote in this part of the world, but we still have not achieved much of what radicals like Sylvia Pankhurst or the group connected with Urania were advocating. They mounted a challenge to a wide range of social norms that still exist today, including gender and the institution of the family.
ATP: How did you get to know about the magazine Urania? What did strike you in this publication, so much that you decided to organise the entire structure of the show around it?
OP: In the Women’s Library archive I came across many photos of cross-dressing suffragettes, butch women, and stories of groups of women living together. I began to wonder about this and found out that many suffragettes were openly lesbian or gender non-conforming. They included the composer Ethel Smyth, Vera ‘Jack’ Holme (a frequent cross-dresser and chauffeur to Emmeline Pankhurst), as well as Eva Gore-Booth and Esther Roper (who certainly lived as a couple and were also possibly in a trio with Christabel Pankhurst at one point). Through their behaviour, the WSPU were challenging traditional ideas of the family, as well as gender norms and it was what we would now think of as a very queer movement.
Much of what exists today of Urania is fragmentary and no complete run of the magazine seems to have been preserved. This intrigues me, as it turns Urania into more of a concept, an idea. It leaves some space for the imagination, which as an artist is not an obstacle as I can deal with historical material in a different way than a historian. At the beginning of every issue that I read at the Women’s Library, there was a statement: ‘To Our Friends – Urania denotes the company of those who are firmly determined to ignore the dual organization of humanity in all its manifestations. They are convinced that this duality has resulted in the formation of two warped and imperfect types. They are further convinced that in order to get rid of this state of things no measures of “emancipation” or “equality” will suffice, which do not begin by a complete refusal to recognize or tolerate the duality itself. If the world is to see sweetness and independence combined in the same individual, all recognition of that duality must be given up. For it inevitably brings in its train the suggestion of the conventional distortions of character which are based on it. There are no “men” or “women” in Urania.’
By challenging the very idea of a gender binary, they go beyond the rest of the feminist movement at that time. I used this statement in the exhibition, along with a series of posters which I made, based on some of the articles that can be found in Urania; fragmentary stories about robbers in Pomerania who escape the law by disguising themselves as women, a man in Buenos Aires who upon his death is found to have been biologically a woman, plants which can change their gender and so on. Another detail that is really fascinating to me about the magazine is that they were clearly anti-fascists and internationalists, and contrary to my expectation the magazine contains information about feminist movements around the world, in Japan, China, India, Egypt and so on, as well as other parts of Europe.
ATP: The title of the show “Many Maids Make Much Noise” is an excerpt of a series of voice exercises that you carried out every day for a year to re-educate your voice after having lost it. How did you intertwine your personal history with political events tied to particular social events?
OP: Much of my work as an artist has been focussed on the symbolic idea of ‘the voice’, who is and isn’t able to claim the right to speak in public. When I lost my ability to speak for a whole year, after an illness in 2013, it profoundly changed the way that I thought about that subject. Being literally voiceless, I felt vulnerable in public space and over the course of my treatment I was exposed to a lot of institutional settings, such as hospitals, which I then wanted to reflect upon. Within feminist thinking the ‘personal is political’, so these embodied experiences that I had as an individual do of course point to wider structural problems.
In one of the works in the exhibition, titled ‘Learning to Speak Sense’, I worked with a voice coach who helped me to improvise around some of the voice exercises that I practiced during that period. Many of the words, phrases and sentences that I was given as exercises by the hospital appear to me to have some kind of hidden political message. For example, the title of the show ‘Many Maids Make Much Noise’, or another phrase that I had to repeat ‘Militant Miners Means More Money’, both seem to speak about the power of the collective voice to be heard, demand attention, to ‘make noise’. In the British context, any reference to ‘militant miners’ immediately seems to indicate the miner’s strike of the 1980s, in which the National Union of Mineworkers took on Margaret Thatcher’s government in one of the longest strikes in British history. I became convinced that there is an anonymous author working as a care worker within the hospital system, who distributes their clandestine messages through the voices of individuals who are learning to speak. I find this idea very poetic.
However, I also wanted to explore the disciplining aspect of voice therapy, as its origins seem to be found in the training in rhetoric and elocution lessons of the nineteenth century, when men were taught to speak with authority and women in soft ‘pleasing’ voices. I have quite a low voice for a woman and when I was being treated in hospital I was encouraged to speak much higher. When I returned to that experience whilst working on this piece with the voice coach, we both questioned whether there had been any real physical reason for me to speak higher, or rather whether it was actually about convention. Therefore in the sound piece we do a lot of work where I am trying to learn how to speak with a very deep male voice, which is traditionally what people associate with authoritative speech.
ATP: Do you think art can find its way into people’s conscience and change their minds about prejudices and false ideologies?
OP: I would question what you mean exactly by ‘art’, as it can be a slippery thing to define. In her book The Spectacle of Women, art historian Lisa Tickner argues that ‘The art/ propaganda divide is itself a kind of propaganda for art: it secures the category of art as something complex, humane and ideologically pure, through the operation of an alternative category of propaganda as that which is crude, institutional and partisan.’ To take the example of Sylvia Pankhurst, she is usually seen as having abandoned art for political action, however this re-iterates the conservative notion of art as a sphere separate from politics and I would rather argue that she substituted one form of representation for another. Once she had become a full time political campaigner she continued to produce visual propaganda for the movement, established a co-operative toy factory in London’s east end with toys designed by artists, turned to writing political plays, fiction and history and even towards the end of her life was involved in the art scene in Ethiopia.
During the struggle for votes for women in the UK, all the women’s suffrage organisations involved (including the non militant organisations) were profoundly aware of the power of images, posters, graphic design, art, large scale public spectacles and of the importance of changing the representation of women. They saw this very much as part of the struggle for the vote and the newspaper produced by the National Union of Women’s Suffrage Societies, called The Common Cause, called on activists to ‘agitate by symbol’. This kind of activity by artists, along with work more recognisable within traditional definitions of art – such as Sylvia Pankhurst’s Women Workers of England series of paintings from 1907 which document women’s working conditions – present clear examples of how art can play a role within political movements.
ATP: In my personal opinion – honestly – I don’t think art can “make noise”. But I think that art can question things and help crush certainties. Ideally, what do you wish to get with your works, on a political and social level?
OP: Working within institutional settings can be a way to challenge the practices of museums and galleries as part of the struggle over representation and how history is written. History is a very normative discipline. What we think we know of our history shapes our world today, our idea of who we are, the actions of our governments, foreign policy and so on. Art is no substitute for activism, but representation does matter, images and symbols do have some power to shape our perceptions. For me art is about distributing ideas, drawing attention to certain neglected historical details, micro histories, making the story more complex in opposition to the usual simplified and monolithic versions of history that are used to prop up bad politics.