Testo di Daniela Zangrando
Sono stata a vedere No Other Land qualche giorno prima della cerimonia di premiazione degli Oscar e della sua vincita come miglior documentario. Mi è rimasto immediatamente in testa. No Other Land è un film indipendente, ideato e diretto da quattro coetanei, due palestinesi – Basel Adra e Hamdan Ballal Al-Huraini – e due israeliani – Rachel Szor e Yuval Abraham – che hanno montato e elaborato materiali raccolti da loro tra il 2019 e il 2022 e filmini amatoriali girati dal padre di Basel Adra in un arco di trent’anni.
Di cosa parla? Difficile darvi una risposta unica. È un documentario squisitamente cinematografico, che racconta di amicizia, di dolore, di sradicamento, di patria, di casa. Di impossibilità di circolazione, di targhe che identificano popoli. Di coesistenza, di testimonianza. Di perdita e di dolore. Di terra. Di quanto sia tremendo e paradossale accettare che a farci del male sia qualcuno che abita a pochi chilometri da quella che sentiamo essere la nostra casa. Ma andiamo con ordine. Tutto si svolge a Masafer Yatta, zona brulla e collinare che si trova in Cisgiordania e comprende una serie di villaggi situati tra il deserto e le montagne. Tutta quest’area fa parte della cosiddetta zona C, che identifica i territori palestinesi rimasti sotto il controllo amministrativo e militare israeliano in seguito agli accordi di Oslo del 1993, ma che sarebbero dovuti diventare territorio dello Stato di Palestina entro cinque anni, circostanza mai avvenuta nella realtà dei fatti.
Al centro del racconto due trentenni, Basel e Yuval. Basel, palestinese, ha studiato legge e è figlio di attivisti – «Sono nato in una casa piena di attivisti: uno spiraglio nelle vite degli altri». Yuval è un giornalista israeliano. I due si conoscono nel momento in cui Yuval inizia a scrivere sulle demolizioni portate avanti sistematicamente dal regime del suo paese. «Ero interessato alle demolizioni. Sono cresciuto in un villaggio a Sud di Israele e ho sempre visto i bulldozer andare nei villaggi palestinesi vicini». E così viene a contatto con Basel, che in uno di quei villaggi abita, con il cellulare e la camera in mano, sempre pronto a filmare, a cercare di usare il video come strumento per documentare, a postare sui social media perché qualcosa della realtà che ferisce i suoi luoghi possa oltrepassare i confini e indignare il mondo.


«Abbiamo iniziato a lavorare insieme attraverso un senso di valori comuni e di opposizione condivisa alle ingiustizie del presente». Il ritmo del documentario cadenza le demolizioni operate dai coloni e dall’esercito di Israele. Una casa a settimana, col divieto di ricostruire. Nessun permesso per nuove edificazioni. Le ruspe arrivano con regolarità, l’esercito di occupazione è munito di ordini di demolizione firmati e controfirmati dall’amministrazione. Crollano bagni, cucine, pollai. Muoiono piccioni, le galline vengono disperse. «Perché? Perché ci portate via tutto? Cosa fate?» «Distruggiamo. Questa è la legge». Un ragazzo viene picchiato e rimane paralizzato. Un pozzo per l’approvvigionamento dell’acqua riempito di cemento. Gli attrezzi per le possibili ricostruzioni confiscati. I generatori sequestrati. Qualcuno se ne va, affitta un appartamento in città. I più restano, spostandosi a vivere nelle grotte. Yuval viene preso dalla frenesia di comunicare, vuole veder cambiare le cose in fretta. Ma Basel lo rimprovera affettuosamente «Sei esaltato. Ti preoccupi delle visualizzazioni. Ti aspetti che per un video cambi tutto? Va avanti così da decenni». Yuval non si perdona di scrivere troppo poco, di fare troppo poco, sente quasi il suo lavoro come un limite, perché in fondo il giornalismo «gratta solo un po’ la superficie, e un articolo non può dirti cosa senti mentre la tua casa viene distrutta o viene colpito tuo figlio». Basel prova ad allontanarsi dall’attivismo per proteggere la sua famiglia, ma non riesce a farlo e continua, a dispetto dell’arresto di suo padre e della paura.
Il documentario procede, e in un certo senso non succede niente. Una tortura della goccia senza climax, che però mette a nudo l’idea politica della perpetrazione di una violenza lenta e progressiva – una casa a settimana, che passa quasi come invisibile all’opinione pubblica internazionale – e espone qualcosa di altrettanto graduale e strenua: la resistenza di chi decide di filmare come testimonianza. E direi non solo di filmare, ma di girare e poi dare forma, dare linguaggio, dare struttura, ritmo, presenza narrativa, fotografia e musica a quanto gira, e facendolo mette in gioco il potere immaginifico e politico del cinema. Lo fa con una grande bellezza, aprendosi a tanti livelli, perché è «la realtà che ha tanti piani». Ci sono bambini che giocano – «lui è il figlio di mio fratello. Dice tante cose con un solo verso» – , che passano un dattero alla mamma o finiscono tra le braccia di un vicino. Ci sono momenti di profonda amicizia, di chiacchiere attorno al fuoco. Di speranza, in un mondo perduto. Io la sento, nel documentario e nelle parole dei registi: «È un lavoro che vogliamo continuare a fare, anche se magari non sarà in un altro film, e ha a che vedere con il futuro che immaginiamo.» Anzi, non solo la sento, ma mi viene da credere che, nonostante il disorientamento di questi tempi, il cinema possa. E, tutti noi, anche.
* Le parti virgolettate sono tratte liberamente dal documentario e da interviste a Basel Adra e Yuval Abraham.

