NO, NEON, NO CRY | MAMbo, Bologna —Intervista con Gino Gianuizzi

"Neon per me è stata una 'macchina desiderante' che aveva la funzione di aprire relazioni e che ha sviluppato connessioni rizomatiche e inattese." GG
20 Aprile 2022

Intervista di Aurelio Andrighetto —

NO, NEON, NO CRY è un progetto espositivo per la project room del MAMbo – Museo di arte Moderna di Bologna, dal 12 maggio al 4 ottobre 2022, dedicato all’attività svolta dalla galleria Neon. Gino Gianuizzi, direttore artistico della galleria, racconta la genesi del progetto espositivo nell’intervista rilasciata ad Aurelio Andrighetto.

Aurelio Andrighetto: Nel 1981 Neon apre all’insegna dell’imprevedibilità in un momento in cui l’arte italiana si chiude su prodotti prevedibili. Nel frattempo il progetto sociale e politico ha perso la sua creativa indeterminatezza, radicalizzandosi ideologicamente. L’indeterminatezza e l’imprevedibilità di Neon ha un rapporto con la spinta creativa che anni prima ha attraversato la società intera? “Ho qualcosa da dire ma non so cosa”, si leggeva sui muri di Parigi nel ’68. Ho l’impressione che nell’indecisione di Torno subito (espressione ambivalente del rifiuto e al tempo stesso del desiderio di aderire al sistema dell’arte), come in molte altre opere esposte a Neon, si celi la tensione tra l’aspirazione a qualcosa di aperto e indeterminato e la sua cristallizzazione in forme definite.

Gino Gianuizzi; Parto dal Torno subito che Maurizio, in un progetto espositivo articolato in tre diversi spazi (Biologia delle passioni, Galleria Fuxia di Verona, Galleria Neon di Bologna, Loggetta Lombardesca di Ravenna, Maggio 1989), decide di “esporre” proprio alla Neon. Sicuramente da parte sua non fu una scelta casuale, tuttavia al tempo non avevo riflettuto su questa scelta e non percepivo la relazione del lavoro di Maurizio con quel “qualcosa […] ma non so cosa” di cui dici. C’era una leggerezza reale, intendo dire che la leggerezza era uno stato di natura e che in quella condizione di leggerezza conviveva la determinazione esteriormente giocosa con la quale Maurizio perseguiva il suo programma di successo e il mio fare nutrito di situazionismo, dada, punk. Guardando poi con la distanza del tempo che cosa accadeva alla neon concordo con la tua lettura e nello stesso tempo la metto in crisi perché neon è stato un luogo anarchico e non se ne può dare una lettura univoca. Voglio dire che come avviene nel tramandare la storia vengono ricordati gli episodi salienti e che concordano e si inseriscono – sia pure per contrasto – in una narrazione complessiva; altri episodi vengono taciuti, dimenticati, messi da parte. Neon per me è stata una “macchina desiderante” (ancora Deleuze e Guattari) che aveva la funzione di aprire relazioni e che ha sviluppato connessioni rizomatiche e inattese. Quella di Neon è una storia anomala, naturalmente ogni situazione ha una sua propria storia ma non è a questo tipo di differenze che mi riferisco. Neon in qualche modo è una conseguenza del ’77, uno spazio di utopia nato quando le utopie rivoluzionarie si scioglievano; un residuo passatista che si illude consapevolmente di poter inceppare un sistema dall’interno e nell’agire questa missione catalizza energie ancora non addomesticate.

Maurizio Cattelan, Torno subito, Biologia delle passioni, 1989 – Foto Fausto Fabbri

AA: La convivenza della leggerezza di Torno subito con il tuo fare “nutrito di situazionismo, dada, punk”, mi fa tornare alla mente una dichiarazione di Malcolm McLaren, che contribuì alla nascita del punk britannico e fece sue le strategie utilizzate dal movimento situazionista. Intervistandolo a proposito di alcuni suoi brani, mi aveva colpito una sua precisazione: “Sono privi di significato, e significativi. Sono esperienze superficiali, eppure profonde come la vita stessa”. La leggerezza, l’apparente superficialità sposa il détournement situazionista, il caos programmatico e soprattutto l’anarchia. Anche se l’anarchia “in the U.K.” non è quella di Neon a Bologna, tutto ciò può aver favorito il verificarsi delle “connessioni rizomatiche e inattese” di cui dici? Mi pare di capire che l’aspetto rizomatico di Neon trovi corrispondenza con la mostra in programma. Come l’hai concepita? Quale sarà la sua forma?

GG – Tutto il mio fare non è mai stato nutrito consapevolmente di conoscenza e di teorie. Sono nato e cresciuto in un contesto come si diceva una volta piccolo borghese e ho incontrato le cose del mondo senza il filtro di guide e riferimenti certi. Malcom McLaren per me mescola insieme Plastic, Milano, Buffalo Gals e The Great Rock ‘n’ Roll Swindle (Julien Temple, 1980). Leggerezza come strategia di disturbo. In effetti, erano i primi anni ‘90, quando neon – e adesso tiro in ballo il termine serendipity – diventa la galleria dei giovani artisti e si trova ad essere al centro dell’attenzione. Ricordo, e c’è una fotografia che documenta questo momento, una riunione plenaria con gli artisti in cui ho tentato, senza successo evidentemente, di pianificare una strategia per entrare nel “sistema dell’arte” come dispositivo di disturbo e di disvelamento. Erano i felici anni di Tangentopoli e il mercato ha costruito la categoria merceologica denominata Giovane Artista.

Neon è andata avanti per la sua strada, meglio per le sue strade, che non ha mai avuto una strada spianata davanti, era sempre un percorso esplorativo, a saggiare terreni diversi, sabbia e sassi e polvere, raramente lastricato. Le connessioni rizomatiche forse sono soltanto una conseguenza di questo procedere ondivago?

NO, NEON, NO CRY è il progetto espositivo che tenta di raccontare la storia della galleria Neon nello spazio della project room del MAMbo. Il titolo è deciso da pochi giorni, dopo che Nico Dockx propone di realizzare una piccola scritta luminosa da installare sulla facciata del museo.
Un precedente: la mostra ospitata dalla galleria La Veronica a Modica (30 dicembre 2018 – 6 aprile 2019).
Il progetto ha avuto una genealogia complessa, attraversando in una prima fase l’idea di mostra documentaria – il format della mostra-archivio era una forte tentazione – poi la richiesta di Lorenzo Balbi di costruire un progetto in cui fossero presenti anche opere ha messo in crisi questa ipotesi. Ma ha messo in crisi l’idea stessa di mostra: come condensare un lavoro di trent’anni tramite una selezione di opere? Come restituire quello che Neon è stata nel bene e nel male? Quello che è stato un processo continuo (e discontinuo), consapevole e disorganizzato, confuso e tagliente, balbettante spesso e ingenuo anche, utopico e idealista e sorpreso sia dalle attenzioni inattese come dalle critiche. Poi uno slittamento, qualche mese di silenzio, i lavori in corso che costringono alla chiusura di alcune aree del museo. In questo intervallo l’idea, grazie alla richiesta di Lorenzo viene completamente stravolta. No a una mostra educata, fatta di materiali, documenti, fotografie, timeline, organizzazione, ricostruzione storica.

Neon [1983 graffiti1], foto Stefano Aspiranti

Indosso il costume da Gino/Neon (in realtà non mai messo in naftalina) e declino il progetto pensando a una wunderkammer: per tentare di restituire in un evento espositivo quello che Neon ha prodotto non sarebbe sincero e corrispondente operare una selezione di opere e di artisti, mi sembra che equivarrebbe a dire trenta anni di lavoro hanno distillato questo, il resto sono “effetti collaterali”.

Credo che Neon – nata senza un progetto, senza strategia, senza budget e senza obiettivi predeterminati – sia stata soprattutto una comunità di artisti e un luogo di formazione per tutte la persone che hanno collaborato all’attività, e che sia stata anche una comunità per tutti i critici e curatori che hanno frequentato Neon per vedere le mostre e per conoscere gli artisti e che spesso hanno poi curato dei progetti nello spazio della galleria.

Neon è stata un laboratorio permanente, in cui sono stati tentati esperimenti riusciti ed esperimenti meno riusciti. Lavorando sull’archivio risultano più di trecento mostre, senza contare tutte le attività collaterali e le collaborazioni e le iniziative esterne. E questo non è riducibile a una mostra best of. Dunque mi convinco che una wunderkammer sia la formula che può raccontare meglio questa storia piuttosto disordinata. Tante opere che affolleranno la project room fino a saturare lo spazio espositivo.
Ho delle immagini di riferimento cui guardo, non è una mostra che si possa pianificare e allestire sulla carta, si farà facendola.
Zabriskie Point, l’esplosione finale della villa nel deserto è una sequenza cinematografica che ho sempre sentito come un’opera a sé, e progenitrice di tanta videoarte; il Merzbau di Kurt Schwitters, costruzione e accumulo e riconoscimento di dada; un deposito, un magazzino, un solaio; When the Attitudes Become Form di Harald Szeeman, parentela non pensata scaturita da una conversazione telefonica con Ambra Stazzone.
Ecco, la visione che si è costruita è quella di uno spazio abitato da opere in proliferazione, visivamente un accumulo in cui inoltrarsi con circospezione tentando di decifrare i singoli lavori e di ricondurre i lavori agli artisti. Una sorta di organismo complesso, una comunità che continua a dialogare a discutere a mettere in dubbio e a rafforzarsi nella contaminazione.

Neon, via Avesella, un momento della riunione plenaria con gli artisti: da sinistra Marco Samorè, Alessandro Pessoli, Giancarlo Norese, Pedro Riz à Porta, Eva Marisaldi, Francesco Bernardi, Tommaso Tozzi, Massimo Cittadini, Leonardo Pivi, Antonella Mazzoni, Roberto Orlandi.

AA – Immagino un organismo in crescita, come uno di quelli descritti dalla teoria evolutivadegli equilibri punteggiati o intermittenti. Cambiamenti improvvisi che aprono voragini tra una specie e l’altra. Un processo discontinuo e imprevedibile, che mi piacerebbe vedere nel suo farsi. È già iniziato? 

GG – Anch’io immagino un organismo in crescita, immagino la mostra come una cenòsi (*), un ecosistema che comprende le opere in mostra, gli artisti autori delle opere, la memoria e il sedimento dei nostri incontri, i visitatori che si addentreranno in questo paesaggio mutante, le relazioni inattese e imprevedibili che si determineranno fra le opere, il “rumore” che verrà generato, il rapporto che questo superorganismo intratterrà con il sistema museo.
Divago, forse, ma questo progetto testimonia un divagare, una pratica della derive, della dèpense, un procedere per illuminazioni e per silenzi che era il procedere di Neon (e mio, o viceversa).
Entropy (1960) di Thomas Pynchon mi ha introdotto per vie letterarie allo studio (dico studio ma si tratta di conoscenza dilettantesca) dell’entropia, corollario della seconda legge della termodinamica, funzione di stato che misura il grado di disordine e di inefficienza in un sistema chiuso. E in questo organismo in crescita ci sono anche Thomas Pynchon, Don De Lillo, Tom Robbins, David Foster Wallace, Kurt Vonnegut e tutti gli autori che mi hanno nutrito in questi anni. E ci sono John Cage, Philip Glass, Robert Gordon, David Bowie, Nico e tutti i suoni ascoltati. C’è molto altro naturalmente.
Il processo è già iniziato nelle parole e nelle visualizzazioni ma inizierà a farsi nella project room dal MAMbo soltanto a partire dal 21 aprile. Sarò lì mentre il mondo dell’arte sarà autoconvocato a Venezia a scambiarsi convenevoli e sorrisi.

(*) cenòṡi s. f. [dal gr. κοίνωσις “unione”; cfr. ceno-3]. – In biologia, l’insieme delle specie vegetali (fitocenosi) e animali (zoocenosi) che vivono in un determinato ambiente. Sinon. di biocenosi.

Desk neon_campobase, Gino Gianuizzi prende appunti
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