New Photography | Conversazione con Paola De Pietri

"Misurare, rappresentare, disegnare il mondo e sapere dove si è. Queste misurazioni, che continuano in maniera diversa una analisi del qui e ora dei cicli precedenti, sono portatrici anche del loro fallimento. Le cose fotografate sono ‘cose da niente’, piccoli accadimenti collegati alla posizione esatta nello spazio attraverso il global positioning system."
8 Febbraio 2021
Paola De Pietri, Frammenti di spazi e storie, 1994
Paola De Pietri, Frammenti di spazi e storie, 1994

Sara Benaglia / Mauro Zanchi: La ricerca dei punti più interessanti del Parco fluviale della cassa d’espansione del Secchia Rubiera ti ha portato a volare sull’aerea. Come hai organizzato la visione per Fragments of space and stories (1994) in relazione a una mappa? E con quale mezzo e a quale altezza hai sorvolato lo spazio?

Paola De Pietri: Questo progetto del 1994 nasce da una collaborazione con Linea di Confine per la fotografia contemporanea, che in quegli anni invita a lavorare sul territorio emiliano molti importanti fotografi italiani e stranieri come Olivo Barbieri, Guido Guidi, Walter Niedermayr, Luis Baltz, Michael Schmidt, Stephen Shore  e tanti altri. Nello specifico è stato chiesto a me e a Walter Niedermayr di lavorare sulle Casse di espansione del fiume Secchia, un’area non molto grande, ma variegata, dove in alcune parti la natura è quasi selvaggia e in altre le attività produttive sono rilevanti. Da un sopralluogo mi sono ritrovata a immaginare, a desiderare di avere una visione dall’alto, quella degli uccelli, e, che non fosse troppo lontana dalle cose; un vedere meglio attraverso una prospettiva inconsueta (quella degli uccelli appunto) gli alberi, le persone, i campi, un piccolo orto…
La mongolfiera – per la lentezza e la possibilità di volare a poca distanza da terra – si è rivelata il mezzo più adatto.

SB / MZ: In Dittici (2012) le immagini hanno sensi di lettura diversi, da sinistra verso destra o da destra verso sinistra a seconda di come i soggetti fotografati si muovono nello spazio rispetto all’occhio della camera. Com’è nato questo progetto?

PDP: Nella serie Dittici ho lavorato con due macchine fotografiche contemporaneamente, registrando il passaggio di una o più persone all’interno di uno spazio definito dall’inquadratura scelta. Quindi le fotografie non sono solo sugli spazi o le persone, ma anche sul tempo breve o brevissimo che intercorre nel passaggio da A a B o viceversa.  I nostri percorsi nello spazio, sono sempre temporali e mi fanno pensare al concetto di possibilità, di accadimento. Per questo l’aspetto temporale legato allo spazio è molto importante. 

SB / MZ: Measurements (2000) riporta su alcuni tuoi scatti lungo la via Emilia la latitudine e la longitudine del luogo in cui lo scatto è stato realizzato. Hai volutamente escluso il fattore temporale se non lasciando intuire la stagione, non hai indicato data e ora in cui l’obiettivo ha effettuato la registrazione. Perché hai dato più importanza allo spazio rispetto al tempo?

PDP: Misurare, rappresentare, disegnare il mondo e sapere dove si è.  Queste misurazioni, che continuano in maniera diversa una analisi del qui e ora dei cicli precedenti, sono portatrici anche del loro fallimento. Le cose fotografate sono ‘cose da niente’, piccoli accadimenti collegati alla posizione esatta nello spazio attraverso il global positioning system. Mi piaceva il collegamento tra un dato così preciso proveniente dalla misurazione satellitare e il racconto di accadimenti effimeri e non misurabili.

SB / MZ: Quali condizioni di luce hai scelto perscattare Here again (2003) e perché? Come lo rapporti con le madri che tengono in braccio i loro figli nelle strade dei luoghi in cui vivono?

PDP: Questa serie di fotografie è stata realizzata in Francia, a Bourges, con l’utilizzo di luci diverse. Ho evitato nelle giornate di sole che le madri e i loro bambini avessero la luce negli occhi e ho fatto in modo che fossero a loro agio. Anche per questo ho cercato la loro collaborazione nell’individuazione del luogo per le riprese, un luogo che fosse per loro familiare.

SB / MZ: Come hai scelto i luoghi degli scatti in To Face (2008-2011), il cui soggetto è il paesaggio montano che fu teatro di battaglie tra italiani e austriaci durante la prima Guerra mondiale? Che rapporto c’è tra fotografia e indagine della storia? Nella tua ricerca c’è anche un rapporto tra fotografia e politica?

PDP: La parte ideativa e di progetto delle mie serie è molto importante e rilevante, ancorché nascosta. In questo caso lo è stata anche di più, sia per motivi logistici sia per la necessità di individuare i luoghi delle battaglie, non quelli musealizzati , ma quelli integrati o mimetizzati nella natura. Solo sapendo di quali sanguinosi avvenimenti sono stati teatro è possibile leggere che, per esempio, alcuni avvallamenti sono i crateri delle bombe e che le tracce più o meno nascoste dagli alberi sono resti di trincee.  Sono poi salita in montagna quando il tempo era nuvoloso, perché avevo bisogno di una luce che eliminasse l’orizzonte e mi aiutasse a riportare l’attenzione sul primo piano. È facile pensare alla politica in questo lavoro, perché si tratta di guerra, la grande guerra.  Inserirei però anche la parola etica.

SB / MZ: Improvvisamente/Out of the blue (2017-2018) è una serie fotografica realizzata un anno dopo il terremoto nelle Marche. Hai scelto di ritrarre Valle del Tronto e aree limitrofe, includendo gli abitanti di questi luoghi. Perché hai deciso di lavorare con il bianco e nero?

PDP: Il bianco e nero mi ha permesso di legare le immagini delle case crollate a quelle dei ritratti e degli oggetti. Mi sembrava anche che i toni del grigio fossero meno violenti del colore nei luoghi dove l’intimità e i punti di riferimento si erano totalmente persi.

SB / MZ: Un tuo scatto “senza titolo” dalla serie Improvvisamente è la fotografia di una diapositiva che ritrae due sposi durante un matrimonio cristiano in una chiesa. È un’immagine insolita, perché è la fotografia di un’immagine altrui. Qual è la sua storia? Qual è il tempo di questa immagine? Perché hai dato importanza a questo trasferimento che parrebbe anche aprire questioni concettuali?

PDP: La diapositiva ritrae una coppia di sposi davanti all’altare negli anni ‘60, credo. Nel post terremoto le rovine delle case sono state portate, separate per particella catastale, in grandi hangar dove è stata compiuta una pietosa e meticolosa operazione di recupero degli oggetti come le fotografie, i libri, i preziosi,  gli strumenti di lavoro, etc. Una volta recuperati, questi oggetti sono stati sistemati sugli scaffali in attesa di essere riconsegnati alle persone. Su uno di questi scaffali di metallo, appoggiata a una sciabola, ho trovato la diapositiva.

Paola De Pietri, Dittici, 1999
Paola De Pietri, Misurazioni, 2000

SB / MZ: Hai sviluppato negli anni una restituzione visiva, attraverso ritratti, dell’influenza che l’ambiente ha su chi lo attraversa. Come si è articolato nel tempo questo tuo lavoro?

PDP: Più che in questi termini, porrei la questione come una relazione tra noi e il nostro ambiente perché non solo ne siamo influenzati, ma soprattutto perché noi modifichiamo profondamente l’ambiente nel quale viviamo. In questo contesto, l’aspetto che ho sottolineato in alcuni progetti è quello generazionale, non in senso sociale, ma personale e biologico, delle generazioni come asse temporale. Due serie che si fondano su questo asse sono Here again e Portraits at Malpensa airport. Nel primo si tratta di un doppio ritratto di una madre con il suo bambino in braccio, un bambino di non ancora un anno e che ancora non cammina e in un certo senso non si separa da lei. Nel secondo ho fatto dei ritratti molto semplici, sullo sfondo dello stesso muro, di viaggiatori all’aeroporto della Malpensa. Ho chiesto loro di ricordare il proprio albero genealogico, che ho poi riportato nella fotografia in alto come una colonna. Mi piaceva il contrasto tra la nostra memoria così breve e quella biologica che si perde nell’infinito del passato.

SB / MZ: Sei nata a Reggio Emilia. L’Emilia ha dato i natali a molti maestri della fotografia, tra cui Ghirri, il cui lavoro ha dato luce a una stagione sul paesaggio italiano, che è stata anche mitizzata. Nel 1989 fu organizzata al Museo Pecci di Prato la mostra Un’altra obiettività, a cura di Jean-François Chevrier e James Lingwood. A chi hai guardato quando hai cominciato a fotografare e a editare le tue immagini?

PDP: È innegabile l’influenza di Ghirri su generazioni di fotografi. La ricchezza del suo lavoro e del suo sguardo, e, certo non solo sul paesaggio, lo rende sempre molto attuale. Le mostre, i libri e l’attenzione internazionale lo dimostrano.
La mia formazione al Dams Arte mi ha portato a guardare oltre che all’ambito della fotografia, più in generale alla storia dell’arte e poi alla letteratura; nei miei libri To Face e Istanbul New Stories ho pubblicato due brani di Mario Rigoni Stern e Pier Paolo Pasolini.

SB / MZ: Quanto influisce lavorare su committenza sulla tua pratica?

PDP: Premetto che la maggior parte delle mie serie non nasce dalle committenze, ma anche quando accade mi comporto allo stesso modo.  Per questo è necessario che ci sia molta libertà e affinità tra quello che è il mio lavoro e quello che viene proposto. Mi è capitato di dovere rinunciare ad alcuni progetti perché li sentivo troppo distanti da me.

SB / MZ: Che rapporto hai con la macchina fotografica? Che cosa non può tradurre della tua visione?

PDP: Le macchine fotografiche sono uno strumento che mi serve a costruire l’immagine che ho immaginato e vedo. Ho usato spesso il banco ottico perché mi permette un maggiore controllo, ma non è un dogma.

SB / MZ: Il femminismo è volgarmente identificato come un movimento della stagione degli anni ’70, non come qualcosa di vivo. Ha influito sul tuo lavoro e sulla tua carriera il fatto di essere donna?

PDP: Non saprei rispondere a questa domanda perché ho sempre lavorato senza pensare alle differenze di genere e per mia forma mentale, penso che la qualità del lavoro prevale su tutto.  Ma è anche ovvio che esiste un problema di pari opportunità nella società contemporanea ancora lontano dall’essere risolto. I posti di potere, al di là delle dichiarazioni ‘politically correct’ continuano spesso a essere occupati da uomini.

SB / MZ: A cosa stai lavorando al momento?

PDP: Da poco ho completato la preparazione del libro Questa Pianura, che sarà pubblicato da Steidl con il progetto grafico curato da Leonardo Sonnoli.
Da inverno a inverno è, invece, il titolo dell’ultima serie di fotografie alla quale ho lavorato continuativamente per un anno, da febbraio 2019 fino a gennaio 2020, da inverno a inverno. Nel progetto, nato da una committenza fortunata dell’Istituto Beni Culturali sulle campagne dell’Emilia Romagna, ci sono foto di campi, di case, di strade, di incroci, di animali, di coltivazioni. Il paesaggio è qui vivo e mobile nel succedersi delle stagioni, delle condizioni atmosferiche e delle lavorazioni dei campi. Gli unici ritratti che ho inserito in questa serie sono di animali, loro che erano un tempo i protagonisti delle campagne e compagni indispensabili alla vita dell’uomo. 
Questo lavoro, poi, per la sua continuità e per il peso che ha avuto anche nella mia vita, ha assunto la forma del diario e come tale sarà presentato in mostra e nel libro di prossima pubblicazione da Marsilio Editori.


Per leggere le altre interviste della rubrica NEW PHOTOGRAPHY

Paola De Pietri, Portraits At Malpensa Airport, 2002
Paola De Pietri, Qui di nuovo, 2003
Paola De Pietri, To Face, 2009
Paola Di Pietri, Questa Pianura, 2016
Paola Di Pietri, Improvvisamente, 2017
Paola Di Pietri, Improvvisamente, 2017
Paola De Pietri, da Inverno a Inverno, 2019
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