OD’A è un duo artistico formato da Ornella De Carlo (Taranto, 1991) e Federica Porro (Como, 1994)
Sara Benaglia e Mauro Zanchi: In OD’A l’immagine è decostruzione dei link che l’hanno determinata: esercizio di improvvisazione teatrale, scrittura, installazione. Come avete strutturato questo metodo?
Orecchie D’Asino: Un po’ per gioco e un po’ per caso è cominciato il nostro lavoro, senza una struttura e una preparazione precedentemente stabilita. Forse anche per questo sia il ludico che la casualità sono diventate le caratteristiche principali del nostro metodo. E così, condividendo la stessa camera e gli stessi studi, abbiamo cominciato presto la nostra ricerca. Il punto di partenza sono stati degli esercizi di improvvisazione teatrale: durante un viaggio in treno, una con in mano Sogni di sogni di Tabucchi e l’altra con Impro di Keith Johnston, abbiamo iniziato a creare un sogno condiviso. Una volta conclusa questa narrazione orale abbiamo deciso di scriverla e in seguito abbiamo sentito l’esigenza di darle una forma visiva. Cercammo i vari ingredienti: una palma, una parrucca da vecchia, un ombrello e un tappeto volante, una scala, una buccia di banana e un gelato, un video di una porta ad arco celestina, un fondale blu cobalto ed ecco Mi lecca come un gelato (2019). Ma state tranquilli era un cane. Dopo aver realizzato e fotografato l’installazione, abbiamo posizionato i vari elementi in un angolo della casa. Proprio in quello angolo, quegli oggetti, ormai liberi dal testo e dalla sua messa in scena, presero una nuova immagine, questa volta scultorea: Totem in atrio. Abbiamo poi installato gli ulteriori resti insieme a nuovi materiali e stampe della precedente installazione all’interno di una nuova installazione durante una mostra: Mi continua a leccare come un gelato (2019). Un’installazione dell’installazione del…
Il processo e le sue fasi assumono a mano a mano la forma di diverse archeologie che in base al luogo e al contesto ospitante continuano a trascinare elementi delle fasi passate e a modificarsi con nuove suggestioni: il metodo diventa la rielaborazione di un archivio di immagini e oggetti, il luogo un’occasione per continuare la ricerca attraverso diversi linguaggi e metodologie.
In altre parole, quelle di Cortazar, “partiamo in ogni occasione da qualcosa che abbiamo per le mani, una vecchia versione, un vecchio mondo, cui restiamo ben inchiodati, finché non abbiamo la determinazione per fabbricarne di nuovi.”
SB+MZ: Totem in atrio (2019), Totem in studio (2019), Totem in salotto (2019), Totem in camera (2020): che cos’è un totem per voi?
OD’A: Il totem è un ennesimo tassello del nostro metodo: gli oggetti e le loro immagini, ormai libere dal legame con il testo e dai vari significati, acquistano una nuova forma grazie al mezzo fotografico. L’idea di totem è nata proprio in relazione alla struttura architettonica aborigena a cui ci siamo ispirate: il totem rappresenta per molte tribù uno spazio e un oggetto in cui vengono racchiuse le storie e la memoria di una comunità. Allo stesso modo i nostri totem diventano dei contenitori delle diverse tracce e dei diversi sviluppi del lavoro.
Spesso anche il totem subisce poi una sua variazione nel momento dell’installazione: l’immagine viene nuovamente affiancata agli oggetti stessi che rappresenta o viceversa, o ancora non coincide, distaccandosi dal senso temporale e archeologico della pratica stessa. In questo modo, sebbene sono presenti delle ripetizioni, il tutto continua a opporsi alla riproducibilità dell’opera e mantenere una propria ed effimera unicità.
SB+MZ: Da Al bancone della macelleria (2019) a Mi lecca come un gelato (2019) pare esserci un passaggio dal teatro alla scenografia che investe l’immagine. Potreste approfondire questa transizione?
OD’A: L’esigenza che ci conduce alla realizzazione visiva del testo onirico segue una dimensione che tenta di simulare uno sfondo e un paesaggio del sogno nato durante lo scambio orale, un po’ come la scenografia in un teatro. Il profondo legame con il teatro sta dunque nella disposizione degli oggetti e degli elementi all’interno di uno spazio pronto per essere popolato da attori. Lo spettatore ha così la possibilità di sentirsi egli stesso un possibile attore che, in assenza di un copione, improvvisa e immagina la storia. In alcuni casi, in particolare in occasione di installazioni site-specific, il nostro intervento include nel lavoro anche la partecipazione attiva dei visitatori, come nel caso di Dei corpi bianchi vagare (2019).
SB+MZ: Succede che elementi di un totem, o di un’installazione, entrino nelle vostre fotografie e video con un differente allestimento, rendendo imprevedibile la ricollocazione di elementi che una fotografia tenderebbe a congelare. Come raccontereste questa riconfigurazione?
OD’A: L’imprevedibile ricollocazione degli elementi potrebbe essere riconfigurata come un déjà-vu, un falso ricordo o una sua alterazione. L’intento è infatti quello di provocare la sensazione di un’esperienza precedentemente vissuta, in modo da creare una riflessione o un’attesa sulla comune identificazione delle cose. Una simile percezione avviene quando sogniamo qualcosa che in seguito incontriamo nella realtà con nuovi contorni e significati.
SB+MZ: Il testo, l’elemento narrativo, la scrittura a quattro mani, sono il canovaccio iniziale, il dialogo che la vostra interpretazione e variazione porta all’immagine. C’è una chiusura che percepite nella immagine?
OD’A: Forse è proprio la ricerca di una possibile chiusura dell’immagine che ci porta in maniera quasi ossessiva alla creazione di nuove immagini, come nei progetti Un pezzo d’acqua (2020-21) o La rovescia al conto (2020-21).
Non avendo preferenze o gerarchie di linguaggio, il testo, insieme con l’immagine e l’oggetto, non è altro che un mezzo, una variabile e una possibilità di composizione e scomposizione di una narrazione in continuo definirsi: un tentativo di esaurimento della ricerca stessa, una pratica che porta alla luce sempre nuovi modi di pensare e sperimentare. Pertanto si cerca forse una chiusura nell’immagine, ma ciò che ne risulta non sono altro che diverse possibilità di immaginare un’immagine.
SB+MZ: Secondo voi la fotografia va oltre un ordine momentaneo, la documentazione della performance di oggetti, o che altro?
OD’A: La fotografia è una forma di scrittura anch’essa quindi, come per la stesura di un testo, talvolta serve a rappresentare ciò che ti passa per la mente o davanti, altre volte a informare, altre ancora a rendere chiaro aspetti che continuavano a sfuggirti o, nel migliore dei casi, a nasconderli per essere scoperti. Ciò che va oltre l’ordine momentaneo e la documentazione degli oggetti e fomenta la nostra ricerca è giocare con questo linguaggio e con l’atto stesso: una fotografia del fotografare. Infatti se mai ci fosse un risultato da raggiungere, esso non consisterebbe nella creazione di un’immagine, ma nel mostrare un’immagine del processo stesso che porta a crearla. Questi passaggi vengono spesso raggiunti grazie a un gioco continuo, una messa in dubbio, tra diverse realtà, per raccogliere storie, rappresentazioni e traduzioni del quotidiano.
SB+MZ: Come utilizzate l’approccio metafotografico nella vostra ricerca?
OD’A: Nella nostra ricerca e nell’uso dell’immagine possiamo dire che l’approccio metafotografico è presente nel tentativo di alterazione della realtà, in tensione verso la rappresentazione di una dimensione in bilico tra il quotidiano e l’onirico, la percezione presente e l’inconscio. Le nostre immagini sono pertanto tentativi di liberazione dell’immaginario e di coinvolgimento attivo dell’osservatore, che non ha davanti ha sé uno stato di cose fisso ma una continua messa in discussione della realtà e della fotografia intesa come rappresentazione veritiera della realtà.
SB+MZ: Che posizione assume il testo nel momento in cui un vostro lavoro è installato nello spazio? Rimane dietro le quinte?
OD’A: Il testo assume la stessa posizione degli elementi all’interno dell’installazione, non presentandosi come una spiegazione didascalica dell’opera, ma una sua ulteriore lettura. Spesso stampiamo il testo su flyer, così che possa essere portato a casa e letto prima di mettersi a dormire. In altri lavori, gli ultimi, il testo viene ripreso, frammentato e mescolato con altre letture e suggestioni esterne, per poi essere assemblato in un formato audio e accompagnato da immagini in movimento, come nei nostri “videologue”. Il termine e l’idea prendono spunto dai metaloghi di Gregory Bateson, metodi didattici usati dall’autore per chiarire significati e definizioni dei temi affrontati con alcune domande degli interlocutori. Allo stesso modo le questioni presenti all’interno del video cercano di decifrare o svelare i temi scelti e in fondo la pratica stessa. Il materiale audio visivo si presenta così come un “collage” di spezzoni, memorie di forme, frammenti culturalmente “alti” e “bassi”: una sorta di decostruzione e ricostruzione continua dei linguaggi e delle sue forme, proiettata verso un’interezza di esperienza che si afferra come se fosse qualcosa di riferito, di sentito dire e nello stesso tempo di cristallino ed evidente. Qualcosa che è finzione ma proprio come tale ha una sua verità, proprio come deve essere la verità dell’arte che cammina in parallelo alla vita senza congiungersi, ma allo stesso tempo la svela nell’inafferrabilità del senso.
SB+MZ: Che cos’è La rovescia al conto (2020-21)?
OD’A: La rovescia al conto è un progetto nato durante la prima quarantena attraverso la condivisione a distanza di due schermi: il documento condiviso diviene la finestra da cui partire a immaginare una narrazione improvvisata, un diario di appunti sul quotidiano e la sua distorsione. Anche in quest’ultimo lavoro il testo è il punto di inizio, ecco un estratto:
[…] È l’ora di andare. Mi raccolgo per prendere l’ambra in ombra nella speranza che non si sia rovinata. In fretta e furia la donna mi prende per il braccio e mi fa uscire, sembra quasi che il mio lento avvicinarmi a gattoni verso la pietra l’abbia preoccupata. Sono scalza. Non mi dà il tempo di mettermi le scarpe. È evidente. Vuole cacciarmi al più presto. Così la vicina mi allontana.
[ambulanza]
Siamo a 32. Forse però dovrei iniziare a fare la rovescia al conto.
A quasi un anno dal testo e dalla sua messa in scena, la rovescia prende una nuova forma grazie alla Mostra Abecedario d’Artista, presso il Palazzo del Governatore a Parma. Qui ritornando al testo originale abbiamo sviluppato un videologue, i cui temi riflettono sulla percezione del quotidiano durante la pandemia e sull’attività onirica: il limite tra realtà e sogno hanno assunto contorni sempre meno delineati al punto da renderne difficile la distinzione. Pertanto l’installazione del video simula la struttura architettonica presente in Il sogno di Costantino di Piero della Francesca. Ci sono altri riferimenti esterni da cui abbiamo tratto ispirazione come il testo “l’atto onirico” di Jodorowsky e l’album musicale Banga di Patty Smith. Insieme a questi autori le visioni si sono caricate di significati nuovi in rapporto a contesti diversi, attraverso l’uso di attraversamenti diacronici, analisi sincroniche e associazioni di immagini e di concetti. Insomma alla fine dei conti potremmo dire che i conti non tornano e l’immagine non parla. Di volta in volta le prestiamo una lingua, ma mai scioglierà il suo segreto.
SB+MZ: Che cos’è ZONA (2020?) oltre ad una narrazione improvvisata?
OD’A: ZONA è una narrazione improvvisata, ma anche una storia collettiva per vedere la contaminazione ancora come necessaria per la proliferazione di tessuti mentali e vitali. Nasce come pagina Instagram durante il primo lockdown della primavera del 2020 attraverso partecipazioni libere. A chiunque volesse prendere parte al progetto si proponeva uno spazio per artefatti di qualsiasi natura; l’unica regola da seguire era di mantenere una continuità con l’ultimo post pubblicato. Così ZONA è diventato un luogo in cui voci, azioni e desideri potevano confluire in un’unica narrazione composta da diversi linguaggi e metodi espressivi: un modo per ampliare i confini ristretti e assottigliare le distanze imposte dalla pandemia.
SB+MZ: Cosa significa lavorare in due?
OD’A: Lavorare in due significa non prendersi sul serio, significa mettersi alla prova e avere più coraggio per azzardare, significa avere un confronto continuo, non sentirsi soli e non chiudersi in se stessi, rischiando di fare qualcosa che rispecchi le proprie capacità tecniche o creative. Il rapporto lavorativo che si è creato e la sua continuazione non è neanche dipesa dalle somiglianze o dall’avere una stessa pratica e modalità di agire. Orecchie D’Asino infatti nascono a mille chilometri di distanza, in diversi paesaggi, una sul mare e una sui monti, e in differenti culture, ma anche con caratteri e studi discordanti… Ma è proprio il piacere che deriva dall’esistenza di queste differenze convenzionali a diventare il punto in comune e di incontro. Finora non ci siamo chieste il perché sia nato tutto ciò. Forse non siamo ancora in grado di definirlo, o forse semplicemente ci divertiamo e una ciliegia continua a tirare l’altra.
SB+MZ: Ci parlereste dei vostri lavori più recenti, Lezioni italiane (2020) e Quattrocchi (2020)?
OD’A: Entrambi questi lavori vedono un coinvolgimento meno artistico ma più partecipativo del processo di creazione: sono due laboratori aperti, due circostanze o eventi che hanno come punto di partenza il dialogo aperto e la collaborazione con l’altro. Quattrocchi nasce durante la residenza a Trieste per il progetto ‘Neuro_Revolution’ a cura di Francesca Lazzarini: qui siamo partite dalla riflessione sulla rete e l’avanzamento tecnologico e di quali siano le conseguenze all’interno della società. Noi ci siamo concentrate sull’influenza che la produzione capitalistica ha nelle dinamiche sociali: la vita media degli oggetti si accorcia sempre di più in maniera inversamente proporzionale all’aumento della fragilità della vita sociale e la friabilità dei legami che la compongono. Creando una finta corporate, Quattrocchi usava l’oggetto e lo scambio come momento di incontro tra sconosciuti che decidevano di partecipare. Il progetto è ancora aperto infatti, in collaborazione con la biblioteca degli oggetti gestita da Leila, si cercherà di portare il progetto nella città di Bologna.
Lezioni Italiane invece è un progetto che nasce per una residenza autogestita in una casa isolata sui monti di Gottro (CO): questo è stato il luogo perfetto per distaccarsi dal chiasso urbano e concentrarsi sui bisogni primari all’interno di una comunità. Qui insieme ad altri dieci ragazzi, artisti e non, abbiamo rovesciato le lezioni americane di Italo Calvino creando così i sei spropositi di questo millennio (pesantezza, lentezza, inesattezza, invisibilità, unicità e incoerenza). Ogni giorno era dedicato a uno sproposito in cui si susseguivano attività collettive e individuali, momenti di riflessione e discussione che spesso confluivano in tavole rotonde, cene e falò notturni. Questi momenti ci hanno dato la possibilità di pensare a una nuova autogestione in risposta ai cambiamenti avvenuti e all’incertezza che ne consegue: lo spettacolo di un dubbio sulla possibilità stessa di fare arte. Anche in questo caso Lezioni italiane rimane un progetto aperto: ha infatti visto una sua continuazione sotto forma di lezioni online durante la residenza presso UNIDEE curata da Andy Abbott. In questo contesto insieme agli altri 45 partecipanti internazionali si è avuta la possibilità di creare una nuova intimità nonostante il periodo pandemico che rendeva difficile la vicinanza.