La 18° incursione nei nuovi linguaggi della fotografia contemporanea ha come protagonista Matteo Pizzolante (1989, Tricase, Lecce).
Mauro Zanchi e Sara Benaglia, nell’intervista che segue, hanno indagato la relazione tra fotografia e sculture nella sua ricerca; il suo interesse per la tecnologia; le sue indagini sulla fotografia digitale e il suo pensiero sul concetto di ‘metafotografia’. Un’ultima domanda è dedicata al progetto Oscillum, sviluppato dall’artista in stretta collaborazione con il laboratorio MoNSTERS, guidato dall’Ecologo Pieter Beck.
Mauro Zanchi / Sara Benaglia: Nei lavori della serie Silent Sun(2019) è interessante l’affiorare delle immagini come fossero ricordi, immagini del quotidiano (e al contempo del mondo onirico?) stampate in modo artigianale e analogico attraverso la tecnica della cianotipia e sviluppate all’aperto esponendole al sole. Le stampe su pvc trasparente sono installate in strutture scultoree. Quale è il rapporto tra fotografia e scultura nelle tue opere? Come agiscono tra loro i due media e cosa innescano ulteriormente nella loro coazione?
Matteo Pizzolante: Ho sempre lavorato con le immagini installandole nello spazio e costruendo intorno ad esse quasi un impianto scenografico. Le opere, sia scultoree sia fotografiche, sono fin dall’inizio pensate come una storia di relazioni: per questa ragione non appaiono individualmente ma piuttosto in una disposizione spaziale, una costellazione di diversi elementi che si influenzano reciprocamente, così come si influenza e si accresce reciprocamente quel legame che si intreccia tra artista, spettatore e ambiente circostante. L’idea delle ultime installazioni nasce dalle mie influenze cinematografiche: mi viene in mente una delle scene salienti del film Seven di David Fincher nella quale i detective Mills (Pitt) e Somerset (Freeman) irrompono dopo lunghe ricerche nella casa del sospettato, scoprendo un luogo fatto di oggetti, libri, disegni, fotografie. Un viaggio ipnotico e ansiogeno all’interno di luoghi caratterizzati da una forte carica creativa. Allo stesso modo le mie immagini, risultato della ricostruzione di luoghi a me vicini, proiezioni mentali, diventano parte di una narrazione di cui le sculture fanno ugualmente parte. Oggetti caratterizzati da una propria autonomia e simultaneamente simili a props.
MZ / SB: In quale direzione ti stai spostando attraverso le tue sperimentazioni scultoree? Cosa lasci trasparire al di là dell’antinomia tra artificio e natura, anche attraverso la scelta dei materiali e il processo della traduzione formale di un’idea?
MP: Noli me tangere (2018) fa parte di una serie di sculture realizzate in vari materiali, quali alluminio, tessuto e cera. Questi lavori prevedono spesso tempi di produzione molto lunghi, fino ad arrivare a una forma razionale nella quale la soggettività scompare. Al contempo lascio tracce che attestano la mia relazione con il materiale, momenti di appropriazione. Se da un lato la forma razionale le fa assomigliare a oggetti creati per ottemperare a una funzione ben precisa, mentre in realtà tale funzionalità non sussiste all’interno di esse, dall’altro si rivelano entità sensibili, in tensione dialettica tra loro. Tale relazione ha l’intento di investigare concetti e percezioni contraddittorie: le qualità intrinseche dell’opera provocano conflitti e spostamenti tra caratteristiche opposte quali morbidezza e sensualità, femminile e maschile, solido e fluido. Cerco di porre l’attenzione su come i materiali e i fenomeni di trasformazione legati a essi sono approcciati in maniera concettuale e incorporati all’interno della struttura dell’opera, visti come corrispondenti al linguaggio o alle narrazioni culturali. Collaboro spesso con persone o aziende che si occupano della produzione di materiali per il design industriale, che utilizzano materiali fortemente connotati, dove la narrazione fluisce naturalmente.
MZ / SB: La tua ricerca è al confine tra varie discipline. Come ti approcci all’uso della tecnologia, in rapporto anche ad argomenti di carattere politico e sociale?
MP: A settembre dell’anno scorso ho partecipato al progetto Q-Rated promosso da La Quadriennale di Roma. Tra i tutor del workshop c’era l’artista Zach Blas, che durante la sua lecture ha illustrato uno dei suoi progetti più significativi Face cages (2013-2016). Il lavoro riflette sull’attuale sviluppo dell’industria biometrica, che promette nelle sue diverse applicazioni una immediata e oggettiva possibilità di scansione e riconoscimento del corpo umano. Questo tipo di tecnologia porta con sé riflessioni molto importanti riguardo alla società e ai suoi sistemi di controllo. Più di recente mi è capitato di riprendere queste tematiche lavorando per una videoinstallazione, parte della mise en scène del testo Fuga del dissidente politico Gao Xianjiang. Il testo narra la storia di tre persone appena scappate dal massacro di piazza Tienanmen, che si ritrovano a passare la notte in un magazzino abbandonato. Anche qui forte è la tematica legata ai sistemi di controllo alla quale Xianjiang propone come “soluzione” la fuga: fuggire non vuol dire scappare, ma agire in maniera attiva, preservando la propria possibilità di scrivere e parlare. Tra le varie strategie di azione, quella che mi è più affine è lavorare sottotraccia, undercover. Ciò significa infiltrarsi nelle cose, seguirne le regole, con il rischio di rimanerne intrappolato per poi fornire dei cues rivelatori.
MZ / SB: Una forma di pensiero “altro” può avere un’influenza sul reale e innescare un possibile cambiamento attraverso modalità artistiche?
MP: Delle molte istanze di cambiamento che vedo in atto ne condivido fino in fondo i fini, ma ho spesso dubbi riguardo alla questione di metodo. Mi trovo spesso a riflettere su come una forma di pensiero forte possa avere un’influenza sul reale e se un possibile cambiamento possa attuarsi attraverso strategie che non siano radicali, violente, ideologiche. La violenza si amplifica, attraverso chi la subisce, come una partita a ping pong. L’arte penso che abbia la possibilità di innescare un cambiamento rompendo questo meccanismo, ma per farlo deve ritornare a stabilire un rapporto forte e nuovo con il pubblico.
MZ / SB: Come lavori sullo statuto dell’immagine digitale, nella contaminazione tra la realtà e la rappresentazione virtuale?
MP: Provenendo dal campo dell’Ingegneria e dell’Architettura mi ha sempre interessato l’immagine digitale e i software associati a essa come mezzo di analisi, rappresentazione e descrizione dello spazio. Questo solitamente è il punto di partenza e successivamente, attraverso la contaminazione di diversi media, lavoro sulla pelle delle immagini, le rendo materiche, vissute, le investo di una temporalità. Considero la loro superficie altrettanto importante quanto quella di una scultura. In una delle prime opere, durante il periodo accademico, avevo realizzato un’installazione composta da due elementi, una scultura e un video strettamente collegati tra loro. L’oggetto scultoreo aveva una forma molto semplice ed era ricoperto da un vello in silicone. Il video mostrava la ricostruzione digitale di una parte di questa superficie che si deformava, come se una mano interagisse con essa. Le immagini aumentavano il desiderio dell’interazione tattile con l’opera e allo stesso tempo erano l’unico strumento di appagamento. L’opera, dal titolo Purity (2017), era il principio del mio percorso.
MZ / SB: Quando utilizzi la modellazione 3D per indagare anche le dinamiche legate al mondo del design e dell’architettura, che ruolo ha la fotografia nella progettualità?
MP: Utilizzo la fotografia come un taccuino atto ad annotare e fissare idee. Durante la fase di ideazione e progettazione tendo a eseguire molti schizzi delle sculture o installazioni e spesso realizzo anche dei modelli in 3D. Ad ogni medium corrisponde un tempo, ad ogni tempo una diversa velocità del pensiero e l’unione e sintesi di questo dinamismo mi aiuta molto nelle prime fasi del lavoro. Ciò, ovviamente, non vuol dire controllare l’opera che è imprevedibile; ma sono d’accordo con Louise Bourgeois, quando in una pagina di diario datata 1940 afferma: “Un’opera non deve essere un campo di battaglia, deve essere uno statement. Cominciare con qualcosa da dire e non col vago desiderio di dire qualcosa. Le cose non si semplificano mai, si complicano sempre nel passaggio dal cervello alla materia”.
MZ / SB: Di fronte alle tue opere della serie Silent Sunpare che stiano agendo in simultanea tempi diversi, come se stessimo assistendo a qualcosa che si trasforma tra condensazione di istanti unici e dilatazione in varie direzioni. Cosa evochi in quella sospensione?
MP: Le immagini dalla serie Silent Sun sono ottenute attraverso un lento processo di ricostruzione digitale, che mi permette di entrare con il ricordo in una lucida visione del passato, scoprendo dettagli e luoghi che mi appartengono, ma che hanno avuto importanza anche per altri. I software di modellazione 3D non raffreddano, quindi, il lato affettivo delle evocazioni, ma ne accentuano la dimensione collettiva e condivisibile. La luce che attraversa gli spazi, una luce metafisica, mediterranea, e il tempo dilatato mi riportano alla mente le atmosfere di un film a me molto caro del 1978 The idlers of the fertile valley di Nikos Panayotopoulos. Una famiglia, appartenente alla ricca borghesia greca, composta da un padre, dai suoi tre figli e da una domestica, decide di ritirarsi a vivere in una remota villa di campagna ereditata dallo zio defunto. Convinti dal padre della non necessità di applicarsi in “comuni”, attività umane come il lavoro o altre forme di distrazione, i quattro uomini spendono i loro giorni e notti a soddisfare i propri bisogni primari: mangiare, dormire, fare sesso (con la domestica) e più la natura cambia e si trasforma con il passare delle stagioni, più affondano in un sonno senza fine che li priva di qualsiasi consapevolezza del passare del tempo. Una sfiancante inerzia che mette chiaramente a nudo alcune debolezze della società occidentale. Se le mie immagini abitano questo tempo dilatato, dall’altro lato, come avete detto voi, vivono di condensazioni, di istanti unici: sto parlando di un’altra velocità temporale, che si riferisce all’eccessiva presenza e proliferazione di immagini fotografiche, che mette a dura prova i presupposti della memoria, creando disinteresse e confusione.
MZ / SB: Nelle tue opere che sono concepite come macchine che hanno una funzione, come utilizzi la metafotografia per creare un volume mentale, che può tradursi in struttura scultorea o in un’altra declinazione dello sguardo?
MP: Nel mio lavoro cerco di istituire un’ibridazione compositiva capace di far rivivere ogni elemento come parte autonoma di un tutto organico, dissonante ma allo stesso tempo coerente. Il linguaggio metafotografico, per la creazione di un volume mentale, mi aiuta a districarmi in questo continuo rimando tra spazio, realtà e rappresentazione. La possibilità di questa interrelazione spesse volte mi introduce in quel territorio caratterizzato dalla presenza di elementi normali e disturbanti; territori che amo esplorare.
MZ / SB: Memori degli studi di W.J.T. Mitchell e delle sottili differenze tra “image” e “picture”, cosa significa per te installare immagini nello spazio?
MP: Installare immagini nello spazio significa per me fornirle di un corpo che aggiunge un’ulteriore possibilità di senso. Mi interessa lo scontro che può creare uno spazio bidimensionale all’interno di uno spazio tridimensionale e questo è un conflitto che lascia sempre un po’ perplessi. Le immagini che creo non si lasciano prendere immediatamente, si mimetizzano, non rivelano subito la loro natura: la stampa, attraverso la tecnica della cianotipia, sporca l’immagine digitale di partenza, si perdono dettagli, si creano velature. L’artista, secondo Michaux, è colui che resiste con tutte le sue forze alla pulsione fondamentale di non lasciare tracce. Per questo mi affascina la possibilità di inserire dei segni, dei difetti quasi impercettibili, nella modellazione degli oggetti o nella sovrapposizione delle texture, che riportano alla natura dell’immagine. Tutto parte con un lento e maniacale lavoro di ricostruzione digitale di un luogo e, quando questo processo si rivela, l’incontro/scontro con lo spazio nel quale le immagini vengono installate assume ancora più rilevanza.
MZ / SB: Siamo interessati alla tua partecipazione al progetto Q-Rated. Come hai lavorato in collaborazione con il gruppo di ricercatori del centro JRC (Joint Research Centre) di Ispra? Cosa avete individuato rispetto alle trasformazioni causate dal batterio Xylella?
MP: Il progetto, dal titolo Oscillum,è stato sviluppato in stretta collaborazione al laboratorio MoNSTERS, guidato dall’Ecologo Pieter Beck. Il gruppo si occupa più nello specifico del monitoraggio dello stress negli alberi attraverso il sistema del telerilevamento, cioè tramite la raccolta e l’analisi di immagini iperspettrali e termiche ad alta risoluzione, scattate con l’utilizzo di droni e velivoli. In questo tipo di fotografie digitali ogni pixel è costituito non da un solo valore, o da una terna, come avviene per le immagini a colori RGB, ma da un interno spettro elettromagnetico associato a quel punto. È stato molto interessante confrontarmi con un tipo di immagine fotografica che non ha valore documentativo o di osservazione, ma è un dato scientifico che pretende di avere una sua oggettività. Attraverso questo progetto ho affrontato molte delle tematiche che sono state oggetto di confronto all’interno del workshop Q-Rated: lo studio e l’analisi di un problema complesso, che ha in sé implicazioni di carattere ambientale, politico, scientifico, economico. Poiché l’evento si è svolto a Lecce, ancora più stretto risultava il legame con il territorio. Centrale è l’indagine su quale contributo possa fornire l’arte su ricerche che appartengono solitamente ad altri ambiti, sia dal punto di vista espositivo che comunicativo. È emerso chiaramente come la perdita di biodiversità renda il territorio debole e sia spesso alla base di questo tipo di problematiche. Ho riflettuto molto sulla natura del territorio e del paesaggio e come ogni persona che vive e conosce l’ambiente salentino, ho vissuto questa trasformazione come una perdita. In fondo però quel territorio, caratterizzato da infinite distese di alberi di ulivi, frutto della coltivazione intensiva iniziata a cavallo tra gli anni 60′ e 70′, ha poco di originario. Non voglio sminuire la gravità del problema, ma semplicemente porre interrogativi sulla natura delle cose e sulla possibilità di individuare in un periodo di crisi, una visione più oggettiva.
New Photography è una nuova rubrica di approfondimenti dedicata alla fotografia contemporanea: una serie di interviste di Mauro Zanchi e Sara Benaglia realizzate nel contesto di ricerca riferito alla Metafotografia e alla New Photography, iniziata nel 2018 – approfondita con una mostra presso BACO_BaseArteContemporaneaOdierna (Baco Arte Contemporanea) e una pubblicazione edita da Skinnerboox nell’ottobre 2019 – e tuttora in divenire con ulteriori approfondimenti nelle pagine online di questo sito.
New Photography è un progetto che in una prima fase coinvolge l’avanguardia fotografica contemporanea italiana e in seguito la Nuova Fotografia internazionale. Si pone il quesito di quale sia la natura dell’immagine alla luce di un cambio di paradigma visuale combinato con i cambiamenti sociali e tecnologici che lo hanno accompagnato. Gli algoritmi di correzione dell’immagine, il deep web, l’apertura al non visuale, la codificazione con stringhe di numeri, l’archivio, le corruzioni e gli sviluppi dell’inconscio tecnologico, l’utilizzo delle telecamere di sorveglianza e dello scanner invece di un obiettivo sono solo alcuni dei metodi e delle modalità di ricerca adottati dagli artisti coinvolti.