Mauro Zanchi / Sara Benaglia: La fotografia è una trappola? Quando possiede un certo grado di ambiguità, l’immagine può diventare veicolo di intuizione e condurre chi la guarda dentro a un’idea? Come costruisci le immagini attraverso la fotografia per portare i fruitori all’interno di un tuo progetto?
Marina
Caneve: Questa affermazione ha naturalmente un carattere provocatorio; certo
che la fotografia è una trappola, lo è per gli artisti tanto quanto per il
pubblico. Auspico una fotografia non solo veicolo di momentanea eccitazione
quanto piuttosto contenitore di una stratificazione di significati, portatrice
di ambiguità – non una fotografia didascalica o che spieghi.
Nel 2015, per il progetto Calamita/à, curai un’intervista con Simon
Norfolk che, parlando di bellezza e fotografia, spiegò che a suo avviso il
potenziale valore estetico delle fotografie può essere usato da un autore come
una trappola per portare i visitatori, parafrasandolo, quelli che il sabato
pomeriggio potrebbero aver di meglio da fare che andare a vedere delle immagini
del genocidio in Rwanda, ad avvicinarsi alla sua idea. Simon, usando la
metafora del topo, la trappola e il formaggio, in quel momento mi stava dicendo
che la fotografia in realtà può essere un’arma per tramortire attraverso
una fascinazione estetica e poi risvegliare con un pensiero.
Naturalmente la questione è molto più complessa e meno univoca, la bellezza non
è l’unica via, ma trovo questo atteggiamento interessante, perché ci permette
di aprire una riflessione sulla relazione artista-pubblico.
MZ/SB: Come si può utilizzare il medium fotografico per partecipare a un processo di costruzione, di conoscenza?
MC: Lavorare a un’opera per me significa sviluppare un processo che si muove più o meno dalla fonte al poema, al ritmo, fino allo spettatore, non necessariamente in questo ordine. Quello che voglio dire è che pensare un’opera per me significa tenere presente una serie di variabili, in cui il risultato finale trovi un equilibrio/ritmo soprattutto tra ricerca e intuizione/poesia. Penso che la fotografia possa partecipare a un processo di costruzione di conoscenza quando si pone in atteggiamento di ascolto e apertura.
Partendo da questa idea, a questa domanda vorrei dare due risposte diverse, la prima che tiene conto del punto di vista dell’autore, ovvero di come io costruisco un progetto attraverso una costellazione di riferimenti, suggestioni e informazioni, che trovano forma a partire dal principio del buon vicinato. Warburg, che concepì la storia delle immagini come stratificazione di esperienze diverse, si definiva un sismografo: “lascio uscire da me i segni che ho ricevuto”. Il processo che questa esperienza ci propone è completamente sperimentale e decisamente atto a continua evoluzione e ampliamento. Mi interessano le interpretazioni scientifiche tanto quanto il vernacolare e cerco di guardare a distinti punti di vista senza gerarchizzarli, ma dando egual valore a entrambi. Lo scientifico non prevarica il magico secondo un pensiero tecnocentrico. Cerco di guardare mantenendo una distanza. Dal punto di vista dello spettatore, invece, quello che propongo con le mie installazioni o nei libri è un’esplorazione, guidata dalle immagini ed eventualmente dai testi, che tuttavia non servono mai a descrivere le immagini stesse o a spiegarle, ma corrono paralleli. Non si tratta di appendere fotografie ai muri o costruire una bella sequenza, quanto di generare cortocircuiti.
In ambedue i casi mi pongo nei confronti della fotografia in atteggiamento esplorativo, dove autore e spettatore possano compiere un’esplorazione con atteggiamento non dogmatico ma di apertura e scoperta.
MZ/SB: Nel tuo processo di ricerca interdisciplinare le immagini non sono necessariamente scattate con la macchina fotografica, ma sono elementi visivi connessi attraverso una sorta di rete concettuale?
MC: La fotografia per me è parte di un processo di scoperta a cavallo tra osservazione, intuizione, mito e scienza, dove una riflessione sulla storia delle immagini ci permette di affrontare il medium stesso, inclusi i suoi inganni, in maniera più conscia possibile. Tenendo conto di entrambe queste variabili vedo ogni opera come tassello di un mosaico, che forse non si potrà mai completare, e con cui mi confronto continuamente con punti di vista e direzioni diverse. Non a caso mi affascinano le digressioni che possono scaturire all’interno di un discorso lineare. Per esempio amo molto Sebald, per la sua modalità totalmente non lineare di organizzare i testi. Rispetto alla fotografia mi interessano molto i libri o le installazioni articolate, non per vezzo, ma perché mi permettono di mettere in atto un processo esplorativo, dove il valore delle immagini è equipollente e ci induce a uscire dal loro valore estetico e riflettere sull’utilizzo che ne viene fatto. Inoltre mi interessa l’uso di immagini (nel più esteso senso del termine) provenienti da vari contesti e nate per motivi utilitaristici, perché prima mi permettono di ampliare la mia riflessione sull’immagine e poi perché mi sono d’aiuto per individuare una strategia visiva specifica per ogni progetto. Nel caso di Are They Rocks or Clouds? una parte importante del progetto è costituita da immagini di catastrofi idrogeologiche d’archivio provenienti da archivi privati, realizzate con l’intento di avere una prova del fatto. Ho costituito un archivio di circa 4000 immagini, di cui però ne ho utilizzate solo una piccolissima selezione, riorganizzate in modo da diventare parte della mia idea, con una sequenza che introduce l’idea del rischio, che ha a che vedere non tanto con la frequentazione saltuaria ma con l’abitare stanziale dei luoghi.
Con
un’azione di appropriazione radicale Sherrie Levine, nel 1981, con l’opera After
Walker Evans, ci poneva già di fronte a un interrogativo riguardo a quali
siano le nostre immagini e come possiamo utilizzarle, fino a che punto siamo
autori e a che punto diventiamo spettatori. Penso che questo abbia molto a che
vedere con il significato che attribuiamo alle immagini e al modo con cui le
integriamo nel nostro discorso.
Sto da anni lavorando a un progetto sulla libertà di movimento in Europa, che
in realtà è una sorta di labirinto, in cui mi sono avventurata e in cui
subentrano continuamente variazioni e questioni etiche, ancora prima che
estetiche. Per poter approcciare questo tema ho ricercato un punto d’ingresso
che mi potesse aiutare a mettere sul piatto le mie riflessioni ma soprattutto
le mie perplessità. Questo ingresso l’ho trovato scoprendo, e in parte andando
ad attraversare, un’infrastruttura di libertà, ovvero un network di
ponti per gli animali, costruito per preservare la biodiversità in Europa. Cito
questo progetto perché fin dai primi tentativi di approcciare l’idea è stato
estremamente interdisciplinare nel cercare di fare una riflessione culturale su
una modalità organica di immaginare scenari per il futuro.
MZ/SB: Ci interessa la possibilità di utilizzare la fotografia come uno strumento per costruire quello che Allan Sekula definisce l’ideological meaning. Tu lavori seguendo questa modalità?
MC: La voce di Allan Sekula, influenzata dalla teoria post-strutturalista e postmoderna, contrasta con l’ipotesi naïve che la fotografia possa offrire “verità” miracolosamente prive di iscrizione ideologica e che il significato intrinseco delle fotografie sia determinabile al di fuori dei molteplici contesti di presentazione della fotografia, piuttosto che dai più diversi usi a cui può essere rivolta. In altre parole Sekula afferma che il significato di una fotografia o un’opera d’arte dovrebbe essere considerato come contingente piuttosto che immanente, universalmente dato o fisso. Sekula, che non era solo un’artista ma anche un teorico, in Dismantling Modernism, Reinventing Documentary (Notes on the Politics of Representation)[1] ci invita a riflettere sull’arte come pratica che rappresenta al tempo stesso sia uno scambio simbolico sia una presenza fisica, materiale. Il significato, come comprensione di questa presenza, deriva da un’azione interpretativa e l’interpretazione è condizionata da ideologie. Dell’approccio di Sekula mi affascina e incuriosisce la radicalità e la modalità di lavoro senza vittimizzazione o beatificazione alcuna, cosa che ammiro molto e che cerco di portare avanti anche con il mio lavoro. In generale non cerco immagini sceniche, che buchino, ma prediligo la costruzione di immagini e progetti ambigui, preferendo il sottile allo scenografico, alternando il lungo termine al rapido. Oltre a questo atteggiamento, mi interessa molto la modalità progettuale seria e programmatica dell’autore, che sfocia talvolta in un’ironia sottile. La fotografia in Sekula non decora il testo e non ne è ausiliaria, ha un forte valore icastico, anche in relazione al valore ideologico che porta in sé. In La foto di Moro (2008) Marco Belpoliti scrive “la natura di medium della fotografia è resa ancora più forte dall’uso ideologico che di essa di può fare, soprattutto là dove la si utilizza alla stregua di documento.” Con questo esempio viene molto bene espressa la problematica del valore ideologico dell’immagine documentaria e del suo grado di verità, sollevato anche da Sekula. Inoltre il caso delle immagini di Moro scattate dalle Brigate Rosse all’epoca del suo rapimento ci racconta del cambiamento del significato ideologico dell’immagine dell’uomo politico avvenuto tra il pre e il post Moro, dove si passa da immagini di uomini tutti d’un pezzo, schivi, ambigui ed enigmatici alle iper contemporanee immagini di uomini dove culmina il mostrare sé. Ritornando al punto di vista di Sekula, egli considerava la fotocamera uno strumento per l’impegno e l’azione sociale continui, guidati da quella che chiamava “la stessa mutabilità del paesaggio, il senso del suo incessante cambiamento e le sue false facciate”. In particolare in Fish Story ciò che mi affascina non è solo la riflessione sul tema della globalizzazione, ma soprattutto sulla circolazione delle idee in rapporto ai prodotti e alle persone e per questo introducono un grande interrogativo sulla questione di come le nostre idee e la nostra conoscenza delle cose venga strutturata.
MZ/SB: Come fai a scegliere la porzione di mondo che decidi di mostrare in una tua immagine? Cosa includi e cosa lasci fuori? Fai agire il tuo intuito per dare voce e valore a qualcosa di indeterminato che non comprendi o preferisci privilegiare un valore documentario che leghi la fotografia alla realtà?
MC: Le fotografie ci offrono un determinato frammento di un flusso temporale, lo assolutizzano e per questo, in virtù della loro natura discontinua, risultano ambigue. La porzione di mondo che decido di mostrare nelle mie immagini ha a che vedere con almeno due dimensioni, lo spazio e il tempo. Nello spazio mi posso muovere per costruire la mia inquadratura, dopodiché nel tempo posso per esempio attendere che accada qualcosa. Utilizzo il verbo accadere non tanto inteso in senso Cartier-Bressoniano, ma facendo riferimento al più ampio spettro delle sue possibilità, inteso banalmente dall’irruzione di qualcosa o qualcuno a un cambiamento di luce o un movimento determinato, o magari dal mio stesso intervento sulla scena. A volte l’indeterminatezza si manifesta per esclusione. Escludere una parte di mondo può amplificare il significato di ciò che è incluso, ne amplifica l’ambiguità e le possibilità. Uso il verbo escludere come contrario di spiegare, di fornire tutti gli elementi per comprendere la totalità.
MZ/SB: Come ti sei formata all’arte del saper attendere l’inaspettato?
MC: In Lo
Zen e il tiro con l’arco Eugen Herrigel[2],
un occidentale che vuole essere introdotto alla dottrina dello Zen, si
confronta con se stesso imparando che ciò che non funziona nel suo
atteggiamento nei confronti della disciplina che pratica sono proprio le cose
su cui fa affidamento e su cui si basa in parte il pensiero occidentale
contemporaneo, ovvero la volontà, la chiara distinzione tra mezzo e fine e il
desiderio di riuscire.
Ho letto questo libro nel 2014, prima di partire per una Summer School all’ISSP
in Lettonia, su consiglio del fotografo americano Mark Steinmetz. L’intento di
Mark credo volesse essere quello di invitarmi a una costante pratica dell’arte
fino a diventare tutt’uno con l’arte stessa, che non significa tanto
fotografare ogni giorno, quanto piuttosto espandere la propria ricerca con
costanza e serietà. L’inaspettato in questo senso si manifesta da solo, in
quanto non è altro che quello a cui, senza intenzionalità ma tuttavia con
persistenza e responsabilità, nel frattempo, ci stavamo preparando.
MZ/SB: Quali sono le immagini di paesaggio che ci presentano quelle che tu chiami “tre verità” (la verità geografica, quella autobiografica e quella metaforica)?
MC: Le tre verità nella fotografia di paesaggio sono un concetto esposto da Robert Adams in La Bellezza in Fotografia, un breve saggio pubblicato la prima volta nel 1981. Adams scrive: “Credo che le immagini di paesaggio possano presentarci tre verità: la verità geografica, quella autobiografica e quella metaforica. La geografia di per se stessa è a volte noiosa, l’autobiografia spesso banale, e la metafora può essere equivoca. Ma prese insieme, come nelle opere migliori di artisti quali Alfred Stieglitz e Edward Weston, questi tre tipi di informazione si rafforzano a vicenda e alimentano ciò che tutti cerchiamo di mantenere intatto: l’attaccamento alla vita.”[3]
Adams, trasmettendo questo pensiero, ci mette di fronte a una sorta di paradosso che trovo estremamente affascinante per quanto semplice, ovvero che la verità è multidimensionale e per questo sicuramente angolare (si potrebbe dire laterale). Quello che mi interessa di questa citazione è che ci induce ad avere dubbi, piuttosto che di stabilire dogmi. Adams ci spinge in maniera molto pacata verso un agnosticismo del pensiero. Ci chiede di avere dubbi nei confronti del nostro lavoro e di guardarlo con consapevolezza da più punti di vista. Io credo che ogni opera autentica porti in sé almeno questi tre gradi di verità, che implicano un completo grado di coinvolgimento dell’autore con il proprio lavoro. Non credo ai lavori che sono frutto di scelte strategiche fatte a tavolino, credo nella necessità dell’autore di realizzare la propria opera.
In queste molteplici verità esiste la consapevolezza che Pier Paolo Pasolini descriveva il 14 novembre 1974 nel suo famoso editoriale Io So, io so perché sono un intellettuale e la realtà è altro che un mosaico, la ricostruzione di una serie di frammenti che io metto insieme dal reale. Nella fotografia non dovremmo cercare verità ma una visione critica nei confronti del mondo. Adams in La Bellezza in Fotografia ci insegna anche che la fotografia è il luogo all’interno del quale una serie di frammenti, non importa quanto caotici, ritrovano un vero ordine.
MZ/SB: Cosa si cela nel titolo Are They Rocks or Clouds? Cosa sta in quel limine tra qualcosa di solido come la roccia e l’evanescenza simile a quella mutevole delle nubi?
MC: L’indeterminatezza, che sta alla base della relazione e del contrasto tra ricerca e poesia, o in altre parole tra natura e cultura. Poesia è sia la dura roccia indistruttibile della montagna sia la nuvola sospesa nel cielo. Ricerca è tutto l’apparato di conoscenza – di diversi tipi – con cui ci confrontiamo e che ha a che vedere con il calcolo di un rischio potenziale. Al tempo stesso le nuvole, in quanto elemento informe, introducono alla dimensione del mito, mentre le rocce, nella loro fisicità e materialità, fanno riferimento a una dimensione concreta e scientifica; in altre parole due anime sono in dialogo, incontro e scontro, all’interno del progetto.
Are They Rocks or Clouds? cita uno dei racconti sul mondo alpino di Dino Buzzati[4], in cui l’autore scrivendo “Sono pietre o sono nuvole? Sono vere oppure è un sogno?” sintetizza perfettamente la confusione tra reale e immaginario, nonché la difficoltà di fronte alla quale siamo posti quando ci dobbiamo confrontare con la decifrazione di un paesaggio, cercando un equilibrio tra sapere esperienziale e sapere esperto, e in questo caso nella ricerca della decifrazione dell’ambiente a rischio.
MZ/SB: Come lavori sul rapporto tra memoria (di cose accadute nel tempo passato) e previsione di ciò che potrebbe accadere in futuro? Ci riferiamo al tuo approccio con materiali d’archivio, con l’osservazione diretta, tra esperienza personale e cose imparate attraverso le esperienze della scienza.
MC: Agamben in una conferenza all’Università IUAV di Venezia disse che l’artista non è colui che vive perfettamente a suo agio nel suo tempo ma è colui che vive in un continuo senso di indeterminatezza, sempre un po’ “spostato” rispetto al tempo, in continua inquietudine tra il suo tempo e il futuro. Lavorare con linee temporali diverse che corrono parallele mi permette di utilizzare il più possibile un punto di vista senza pregiudizi – cercando di evitare la ricerca della verità/realtà, che ritengo un’invenzione generata dall’interpretazione individuale di eventi reali – e piuttosto giocando con l’idea che ogni immagine o sequenza possa aver a che vedere con il passato o rappresenti uno scenario futuro, in un tentativo di manifestarsi come una soluzione utopica.
MZ/SB: Come ti rapporti e confronti con un evento che è supposto accadere, a partire dalla teoria dei tempi di ritorno?
MC: Trovo
la teoria dei tempi di ritorno particolarmente affascinante, perché ci offre
l’opportunità di confrontarci con qualcosa che si suppone possa accadere in un
tempo dato ma che comunque non è matematico, è un’ipotesi e in quanto ipotesi
mi permette di immaginare un possibile scenario.
Confrontarmi con questa teoria, nel caso specifico di Are They Rocks or
Clouds?, mi ha permesso di guardare al paesaggio cercando di individuare
anomalie, ovvero elementi che potessero diventare una sorta di veicolo di
ambiguità e di indeterminatezza tra i tempi con cui mi stavo confrontando.
Quello che è particolarmente interessante di questa teoria è che è plausibile
ma non matematica.
Partendo da questa natura ambigua e duplice con il mio lavoro offro una sorta di opera ispirata alla fantascienza realistica, come quella di Ballard, dove ciò che mostro non ha la funzione di descrivere un mondo reale, quanto piuttosto di convincere lo spettatore della possibilità di quel mondo. Confrontarsi con questa teoria offre l’opportunità allo spettatore di immaginare a quel punto il suo mondo, attraverso un processo di spostamento.
MZ/SB: In una intervista precedente ci ha colpito che ti interessa una “fotografia empatica ma disincantata, veicolo di critica politica e sociale, pur mantenendo un valore altissimo in quanto immagine”. Vorremmo approfondire questa tua fascinazione.
MC: Questo pensiero fa riferimento a un ampio discorso esplorabile all’interno di un catalogo che è stato un punto di riferimento molto importante per la formazione del mio pensiero sulla fotografia. Si tratta di Cruel and Tender[5], catalogo della prima grande mostra dedicata alla fotografia alla Tate e che si interrogava sul posto della fotografia documentaria rispetto all’arte contemporanea. La fotografia empatica ma disincantata di cui parlavo è la fotografia di Walker Evans descritta da Lincoln Kirstein, che tiene dentro di sé un atteggiamento di tender cruelty, che mi risulta impossibile tradurre se non traslandolo in empatica ma non disincantata, dove regna un perfetto equilibrio tra engagement ed estrangement, di nuovo intraducibili per me. Non mi interessano la crudeltà in quanto tale e nemmeno la spassionata pietà, egualmente messe in scena in certe immagini a cui ormai siamo abituati. Mi interessa piuttosto esplorare le possibilità di utilizzare il potere documentario della fotografia, ragionando sull’ambiguità che sta a cavallo tra fatti concreti e il suo potenziale grado di enigmaticità. La fotografia, partendo da un’estetica vicina al “reale”, ha la potenzialità di diventare veicolo di critica sociale e politica, ma non perché lo scriviamo in una didascalia sotto alle immagini, quanto piuttosto perché le immagini ci investono con il loro valore. Tra le molte possibilità offerte da Cruel and Tender, per esempio i ritratti dei toreri di Rineke Dijkstra, tutt’altro che astratti, evocano ma non mostrano nulla, alludono attraverso un contesto scarno e disincantato, e al tempo stesso, mediante i singoli in qualche modo ci parlano della nostra condizione esistenziale vulnerabile in quanto esseri umani.
MZ/SB: Come lasci agire le tue ossessioni nella costruzione di un nuovo progetto?
MC: Credo
che tutto nasca da un’intensa curiosità, dall’impossibile ricerca di una
conoscenza onnicomprensiva e da una propensione, a tratti naïve, nello
stupirmi. Banalmente, una cosa che tendo a fare è collezionare materiali,
suggestioni e riferimenti, anche se devo ammettere che quello che amo di più è
lasciarmi trascinare dal flusso in cui mi dirigono le note a piè di pagina, le
bibliografie e gli indici. Sono ossessionata dalla complessità e dal dare
ordine alle cose. Penso che dare ordine sia una maniera per sopperire
all’impossibilità di avere una conoscenza totale e che vada oltre i dogmi
culturali a cui siamo assoggettati a causa della cultura da cui proveniamo e
dal tempo in cui siamo inscritti. Avevo intitolato la mia tesi di laurea
all’università Too big to be depicted. Con questo titolo alludevo alla
vastità dei temi complessi che influenzano la nostra esistenza e che ci rendono
vulnerabili, ma come poterla affrontare? Le ossessioni sono elementi di una
costellazione che collega epoche, culture, saperi e discipline. Ho, per
esempio, investito gran parte della mia ricerca nella duplice natura delle
catastrofi, in quanto eventi tragici ma anche fortemente attrattivi, come diceva
Don DeLillo: “purché accadano da un’altra parte”. Are They Rocks or Clouds?
fa chiaramente eco a quest’idea che si annida tuttavia in ognuno dei miei
lavori.
Il progetto Calamita/à, che curo insieme a Gianpaolo Arena dal 2013, e
il cui titolo è ovvio riferimento alla questione, affronta il tema della
catastrofe sia a livello site specific nell’area del Vajont con il lavoro di
artisti internazionali che lavorano con diverse pratiche e modalità, sia a
livello culturale con interviste, saggi e progetti educativi.
Le varie opzioni di interpretare le cose sono la mia ossessione, le plurime
verità possibili da esplorare, in cui ogni verità dogmatica perde di valore.
MZ/SB: Come lavori sulle piccole anomalie che rendono le immagini straordinarie e su quel grado di tensione che è quasi impalpabile?
MC: Lo scorso inverno – preparandomi ad affrontare una commissione molto stimolante, per cui sarei dovuta andare ad Atene e dove mi interessava affrontare il tema dell’origine della città in relazione all’evoluzione tecnologica apportata dalle nuove infrastrutture – ho deciso in maniera piuttosto intuitiva di leggere il saggio La salvezza del bello[6], scritto dal filosofo coreano Byung-Chul Han. Nel testo l’autoreci introduce la società della liscezza, attratta sempre di più da ciò che è liscio, in qualche modo perfetto fino a diventare a tratti pornografico. Le immagini levigate, prive di anomalie, consegnate al consumo, diventano quindi mera occasione di momentanea eccitazione. Le anomalie, invece, sono per me una sorta di scossa estetica che naturalmente si trasforma e si prolunga anche nella vita etica e come scelta politica. L’esattezza, la liscezza e la perfezione ci avvicinano a un’idea quasi di freddo prototipo, quando le anomalie ci confermano che ci stiamo confrontando con qualcosa di frammentario, multiplo e mutevole. Nel loro sorprenderci, le anomalie funzionano nel ricordarci di avere sempre dubbi e di non rassicurarci mai nelle nostre certezze.
MZ/SB: Che opera o progetto hai
realizzato per la mostra al Museo Nazionale della Montagna, a Torino?
MC: Ho realizzato un progetto dal titolo Entre chien et loup,
un’espressione accolta dalla lingua francese ma che esiste fin dal VII secolo
nella forma latina infra horam vespertinam, inter canem et lupum e
disegna quel momento in cui la luce declina e potremmo non essere in grado di
distinguere un cane da un lupo. Quest’idea mi è venuta a partire dal mio
interesse nelle strutture della conoscenza e dalla volontà di ridiscutere le
modalità con le quali costruiamo la memoria culturale della montagna e
confrontandomi, piuttosto che con un’univoca immagine stereotipata, con i
plurimi stereotipi dell’immagine della montagna. Il primo stereotipo è chiamato
in causa dal titolo della mostra: Qui c’è un mondo fantastico. Si tratta
dello stereotipo bucolico della montagna di Heidi, che tuttavia ben presto si
svela in contrapposizione con la moltitudine degli altri.
Definirei Entre chien et loup una stratificazione di esperienze diverse, dove ho costruito una sorta di percorso di ingressi, finestre, metaforici spioncini, che man mano portassero lo spettatore da uno stereotipo all’altro. L’installazione ci obbliga a muoverci con una modalità esplorativa attraverso equivoci, conferme ed epifanie[7] tessendo una trama di relazioni tra discipline e modi di guardare, a tratti invertendo e confondendo i ruoli tra archivio e paesaggio, costruzione e reperto, scientifico e immaginario.
Entre
chien et loup, inoltre,
è un progetto animato da un quesito sulle immagini attraverso cui costruiamo la
nostra idea di montagna, che non è montagna in sé ma è simbolo di qualcosa
estremamente stereotipato. Per affrontare la domanda ho voluto non solo
lavorare nell’archivio del Museo della Montagna, ma anche scegliere un luogo. Attraverso
una peregrinazione di ricerche ho individuato il monte Cervino come incubatore
di quasi la totalità degli stereotipi che avevo scoperto. Il Cervino è
diventato un monte simbolo di tutte le montagne e, ironicamente, a confermare
questa tesi la parte di installazione di immagini d’archivio, costruita insieme
a Veronica Lisino, conservatrice dell’archivio del Museo, che mostra un buon
numero di montagne nel mondo soprannominate il Cervino.
Il curatore Giangavino Pazzola scrive: “Muovendosi tra immagini di archivio e
sovrapposizioni di senso attraverso il suo lavoro racconta di una caduta della
conoscenza, di una catastrofe percettiva, che si sostanzia della dispersione
delle certezze.”[8]Ho
voluto, con uno sguardo il più possibile aperto, introdurre tematiche ed elementi
del discorso sulla montagna, talvolta tabù in determinati contesti:
l’ascensione, la caduta, il gioco, la morte, il bucolico, lo spopolamento, gli
eroi… “Il dentro e il fuori, il vero e il falso, l’artificiale e il naturale,
il vernacolare e lo scientifico, il culturale e il popolare, il reale e la
finzione vengono poi ridiscussi e risignificati in un’unica installazione
ambientale dal sapore tanto beffardo quanto sottile che, mescolando le varie
tipologie di materiali, ridefinisce una geografia non dichiarata abitata da una
nuova (alquanto improbabile, forse) etnografia, raccontandoci un mondo tanto
fantastico quanto ambiguo, nel quale siamo probabilmente stati ma che ci sembra
diverso da allora.”[9] Entre
chien et Loup è un lavoro di interferenze, volto a scardinare le nostre, le
mie, certezze nei confronti di un paesaggio tanto iconico da essere diventato
quasi immagine di se stesso.
[1] Allan Sekula, Photography Against the Grain, Essays and Photo Works 1973-1983, Mack, London 2016, p. 53.
[2] Eugen Herrigel, Lo zen e il tiro con l’arco, Adelphi, Milano 1975.
[3] Robert Adams, La bellezza in fotografia, Bollati Boringhieri, Torino 2021, p.8.
[4] Dino Buzzati, Le montagne di vetro, Vivalda, Torino 1989.
[5] Cruel and Tender. The Real in the Twentieth-Century Photograph, Tate Gallery Publishing, London 2003.
[6] Byung-Chul Han, La salvezza del bello, Nottetempo, 2019
[7] Giangavino Pazzola, Marina Caneve. Un mondo di fantasmi è quello in cui viviamo, in Qui c’è un mondo fantastico, catalogo del Museo Nazionale della Montagna, Torino 2020.
[8]Giangavino Pazzola, op. cit., Torino 2020.
[9] Giangavino Pazzola, op. cit., Torino 2020.
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