Sara Benaglia / Mauro Zanchi: Come strutturi le tue opere, che stanno al confine tra indagine giornalistica e science-fiction? A livello formale come fai interagire queste due possibilità?
MA: Credo che l’aspetto più importante da tenere in considerazione per arrivare al pubblico oggi sia la narrativa. In questo, l’arte ha la fortuna di poter sfruttare forme di storytelling anche molto distanti tra loro per creare interpolazioni insolite. Se da un lato mi sento particolarmente attratto dalla cronaca come denuncia e dalla divulgazione scientifica per via del mio percorso da ingegnere, dall’altro sono sempre stato appassionato di fantascienza, a partire dalla lettura di Isaac Asimov durante la mia adolescenza. L’incontro tra giornalismo e science-fiction avviene dimostrando come la realtà in cui ci troviamo sia già al di fuori del normale, ad esempio adattando al contemporaneo un testo di fantascienza del secolo scorso.
SB/MZ: Come si rapporta un artista della tua generazione con le questioni del post-colonialismo in un orizzonte post-tecnologico?
MA: Nella mia visione dell’arte, temi importanti come quello del post-colonialismo non possono essere affrontati solo da un punto di vista teorico, ma richiedono impegno politico e sociale. È per questo motivo che sono convinto che certe pratiche possano esistere solo se assecondate da forme concrete di attivismo, ed è sempre per lo stesso motivo che ritengo la costituzione di una tecnologia più etica un caposaldo delle agency dei prossimi anni, dai bias nel riconoscimento facciale allo smaltimento dei rifiuti elettronici nel Terzo Mondo.
SB/MZ: Perché la “sovranità dei dati è ciò che Achille Mbembe ha chiamato necropolitica”?
MA: Parlare di necropolitica non è mai stato tanto attuale quanto oggi, anche a seguito dell’epidemia dovuta al Covid-19. Essa non riguarda soltanto il modo in cui viene gestita la morte, ma il modo stesso in cui organizziamo le nostre vite e ci relazioniamo con gli altri. Il cloud non è soltanto uno strumento ma una vera e propria ideologia spinta da una fantasia culturale: la connessione totale di tutti i punti che compongono un sistema. Chi non fa parte del cloud non esiste, mentre chi possiede i bunker dell’informazione ha il potere di decidere se, quando e come chiudere i rubinetti di internet. Lo shutdown dei sistemi SMS e VOIP in Egitto del 2011, durante la primavera araba, ha fornito una grande lezione in merito.
SB/MZ: Com’è nato il titolo Teorie di Topi (2020)? E Crisopoli, Teklon, l’Undicesima Base: da dove sono tratti questi nomi?
MA: Il titolo del mio cortometraggio Teorie di Topi è la citazione di un passo del romanzo Dissipatio H.G. (1977) di Guido Morselli. Il romanzo è il diario di bordo dell’ultima persona rimasta sulla Terra a seguito della misteriosa sparizione del genere umano, la quale permette però alle macchine, alle piante e agli animali di assumere nuove sfumature: dei ratti stanno facendo avanti e indietro in una strada buia, il protagonista li illumina con i fari della sua auto, ma i topi non si curano di lui. “Teoria” in italiano, oltre a “Formulazione logicamente coerente”, può significare anche “Processione”. Mi piaceva questo doppio significato. Crisopoli, Teklon e l’Undicesima Base sono nomi tratti dai luoghi del romanzo di Morselli. Nel libro si riferiscono rispettivamente alla città di Zurigo, a un aeroporto e a una base militare; nel film li ho usati per codificare la città di Milano, il Centro di Permanenza per il Rimpatrio di via Corelli e il data center più grande del Sud Europa, in provincia di Pavia.
SB/MZ: Che cosa è cambiato oggi rispetto a ciò che viene narrato in Dissipatio H.G. di Guido Morselli? È impossibile immaginare un futuro non apocalittico?
MA: Morselli ha avuto il pregio di prevedere temi contemporanei come l’automazione e il post-umano. Dopo la stesura di questo romanzo si è suicidato, quindi la Dissipatio di cui parla lui, che sarebbe l’evaporazione della specie umana, credo si riferisse più che altro alla sua scomparsa già programmata. Potremmo considerarlo un Mark Fisher del XX Secolo.
Secondo me Morselli non era un pessimista, infatti in Dissipatio H.G. spiega di odiare la distopia. Il futuro, più che immaginarlo, dovremmo iniziare a costruirlo adottando strategie antagoniste, che riescano a rendere l’economia basata sul capitale obsoleta.
SB/MZ: Ci interessa approfondire come hai collegato i Centri di Permanenza per il Rimpatrio, dove sono “parcheggiati” i migranti, i data center e il cloud computing?
MA: L’idea per Teorie di Topi e Teorie di Topi Cycle è nata da una semplice riflessione sulla memoria digitale. Dove vanno a finire i nostri ricordi, le nostre foto e le nostre chat? Dov’è situata fisicamente la nuvola del cloud? E soprattutto, cosa succede quando ci viene impedito di registrare i ricordi? La risposta che mi sono dato è che tutto ciò consiste in un problema di archiviazione e circolazione dell’informazione. Volevo risolvere un problema pratico, ma mi sono trovato davanti a un ostacolo molto più grande di me: molto spesso accade che, quando i migranti entrano nei CPR, le forze dell’ordine distruggano le fotocamere o gli smartphone dei detenuti. Così non c’è modo di documentare le violenze e diffondere i materiali all’esterno. Non c’è ovviamente neanche il modo di immagazzinarle nel cloud, cosa assolutamente scontata per il cittadino regolare. Per andare alla radice del problema ho capito che dovevo scavare nell’infrastruttura di internet, ovvero i data center, che sono enormi architetture invisibili, situate solitamente in no-fly zones, le quali contengono tutti i nostri dati (dalle carte di credito al video del cane incontrato per strada) moltiplicati in vari edifici.
Si aggiunge inoltre il fatto che sia i CPR sia i data center rispondono agli attributi dei non-luoghi: sono zone di passaggio, al loro interno circolano identità e informazioni, sono impersonali, ma hanno l’ulteriore attributo di non essere accessibili per il cittadino comune.
SB/MZ: Come mai hai scelto proprio di utilizzare il formato verticale in Teoria di Topi? È solo un collegamento con il formato dei cellulari o c’è qualcos’altro a livello concettuale e formale dietro questa decisione?
MA: La scelta del formato verticale è legata in maniera più diretta al formato degli smartphone, con i quali scattiamo foto e registriamo video spesso in questo formato. Questo primo passaggio di produzione delle immagini è legato a doppio filo alla distribuzione delle immagini, in particolare delle immagini in movimento. Un primo riferimento può essere trovato nel modo in cui fruiamo le immagini sui social media come Instagram dove, oltre allo scorrimento verticale, il formato verticale è quello imposto dalle stories. Realizzando un film in verticale ho voluto prendere spunto dalla sperimentazione di un video musicale come you should see me in a crown di Billie Eilish, che conta più di duecento milioni di visualizzazioni su YouTube, per anticipare il futuro del cinema: non mi stupirei se l’anno prossimo un colosso come Netflix proponesse il suo primo film in verticale.
SB/MZ: Ci parleresti del rapporto uno-molti sintetizzato nel doppio triangolo che si vede in Teorie di Topi?
MA: In Teorie di Topi tutti gli esseri umani sono scomparsi tranne uno, il protagonista, il quale però non vuole farsene una ragione. Nel suo ripercorrere i luoghi ormai disabitati, si ricorda delle interviste fatte a un ingegnere informatico che lavorava come cloud architect, a un designer di interfacce e a un avvocato penalista che difendeva i migranti dei CPR. La doppia piramide del film rappresenta la presa di coscienza del protagonista nella storia dell’umanità che va dal primo uomo, passando per miliardi dei giorni nostri, fino all’ultimo uomo. Una fine dell’umanità interiore, più che fisica.
SB/MZ: Perché al personaggio di Speedy Gonzales, poi traslato in Teorie di Topi, hai associato un suono così drammatico, al confine tra un urlo e un suono elettronico stridente?
MA: L’urlo associato a Speedy Gonzales è stato utilizzato per scandire il tempo del film in atti, con l’intenzione di separare l’inizio e la fine della storia da moduli di contenuto, ognuno dei quali contiene sempre una parte di intervista all’ingegnere, al designer e all’avvocato.
SB/MZ: Come mai in no name no borders (2019) hai collegato Speedy Gonzales al blu della schermata d’errore Blue Screen of Death di Windows?
MA: Teorie di Topi fa parte di una serie di opere che ha avuto inizio con una bandiera, dal titolo no name no borders, in cui ho “glitchato” la prima versione di Speedy Gonzales per creare la bandiera di una nazione senza nome né confini. Il colore blu che lo caratterizza è lo stesso della Blue Screen of Death di Windows.
Se si pensa a Speedy Gonzales, è un immigrato messicano negli Stati Uniti che lotta ogni giorno per non essere mangiato. Nella prima puntata in cui appare, Cat-Tails for Two del 1953, Speedy è in una versione molto meno caricaturale, indossa una maglietta rossa, ha un dente d’oro, gli manca il sombrero. Dalla sua seconda apparizione in poi il personaggio ha subìto una trasformazione radicale. Ecco, io ho voluto rendere pre-ideologico il personaggio di Speedy Gonzales per dargli nuova vita. È sempre per questo motivo che lo uso come filtro Instagram, che censura i volti in Teorie di Topi e in Teorie di Topi Cycle.
SB/MZ: La tua ipotesi di un’estinzione dell’umanità pare coincidere con il momento in cui “la base è stata evacuata, non c’è un uomo a presidiarla”. Che relazione c’è tra testosterone e tecnologia?
MA: Nel film quella frase è sempre una citazione da Morselli, e per Uomo si intende la specie umana, piuttosto che il genere maschile. Al contempo credo che la tecnologia abbia una forte componente machista, basti pensare a progetti di personaggi pubblici del calibro di Elon Musk. Ma ci sono alcuni progetti molto interessanti di queer technology, come ad esempio Q, il primo assistente vocale gender neutral.
SB+MZ: Guardando le tue opere ci siamo chiesti che differenza ci sia tra il soggetto reale e la sua immagine.
MA: Per rispondere a questa domanda non posso non menzionare le innumerevoli conversazioni avute con il curatore Vincenzo Estremo. Estremo, che è stato anche il mio relatore di tesi, mi ha fatto notare come il tipo di operazione che attuo sulle immagini abbia la naturale inclinazione di recuperare e dimostrare quel rapporto di indessicalità che era stato dato per perso con l’avvento del digitale. Se nella fotografia analogica l’impressione della luce sulla pellicola faceva sì che ci fosse un rapporto diretto tra soggetto e immagine, le nuove tecnologie, con i loro modelli di elaborazione, hanno messo in dubbio questa corrispondenza biunivoca. In altre parole, nella mia pratica il soggetto reale non è più questa persona o quel particolare oggetto su cui punto l’occhio della fotocamera, ma è la produzione di immagini stessa, ovvero le immagini nel loro farsi e distribuirsi.
SB/MZ: A proposito di RTFM (Read the Fucking Manual) (2020) e della circolarità educazione/lavoro nel capitalismo delle piattaforme secondo te lo stesso principio è in qualche modo presente anche nel mondo dell’arte contemporanea?
MA: Con RTFM sto iniziando ad approfondire un nuovo campo di indagine, ovvero quello dell’istruzione corporativista: ho incorniciato l’email che contiene un certificato ricevuto da Amazon Web Services come se fosse un vero diploma di laurea. Si dice che gli utenti lavorino per le grandi imprese come Google, Facebook o Amazon già soltanto utilizzando queste piattaforme. Ma questo tipo di considerazione si ferma alle loro interfacce. La nuova frontiera in ambito di piattaforme è però l’istruzione, che consiste nel pagare per imparare a utilizzare le infrastrutture su cui si reggono le industrie digitali, con l’obiettivo di lavorare utilizzando le piattaforme stesse. Questo percorso mette all’angolo l’istruzione tradizionale e crea una circolarità educazione-lavoro che proietta coni d’ombra su cosa sia la conoscenza.
La differenza rispetto al mondo dell’arte contemporanea e al mondo dell’istruzione in generale sta nella produzione di conoscenza, che in epoca di capitalismo cognitivo equivale a dire produzione dei mezzi di produzione: la Coca-Cola non ti svelerà mai la sua ricetta segreta, ti insegnerà solo a vendere più Coca-Cola che tu stesso comprerai.
SB/MZ: Ci interessa approfondire come hai operato una deviazione semiotica con il detournement nella coperta isotermica su cui è stata apposta la scritta “LIBERTÀ DI PARTIRE. DIRITTO DI ARRIVARE. LIBERTÀ DI RESTARE”, prima di essere portata in corteo a Milano nel 2018, in una manifestazione contro i CPR. Perché hai scelto di usare proprio i versi di Ken Saro-Wiwa per raccontare questo scontro fra post-colonialità e nuovi razzismi nel Belpaese?
MA: Il banner isotermico Senza titolo in questione è stato realizzato per la mia prima collaborazione con la rete NO CPR di Milano. All’epoca non avevo ancora in progetto un lavoro più complesso come Teorie di Topi e la mia urgenza era di supportare in maniera artistica il movimento di protesta NO CPR, che il 1° dicembre 2018 ha riunito oltre quindicimila persone per le strade di Milano contro il ddl 840/2018, ovvero il primo Decreto Sicurezza. Oltre ad esibire il telo in testa al corteo, ho documentato la manifestazione. I materiali sono poi confluiti nel video chiamato Demigrare (che in latino significa “emigrare”, ma anche “mettere le ali”) in cui l’amarezza verso la deriva politica nazionalista viene comunicata con l’uso di un assistente vocale che recita la poesia La vera prigione di Ken Saro-Wiwa, attivista nigeriano impiccato nel 1995. Nell’uso della voce macchinica sono riposte le speranze del post-umano, nei versi di Saro-Wiwa il coraggio del dissenso.
SB/MZ: In Is this loss that I’m feelin’? (2019) affronti la scomparsa delle immagini a causa dei watermark nelle banche immagini digitali. È interessante quello che hai individuato a proposito delle foto d’archivio, “considerate come rovine nelle quali aggirarsi” e i meme “come nuove chiavi di lettura, mappe con le quali orientarsi per leggere le immagini”. La lecture performance che nuovi regimi di senso ha aperto?
MA: Partendo dal fatto che la cultura visiva di siti come Getty, Shutterstock e Adobe Stock soddisfa appieno le caratteristiche del capitalismo delle piattaforme, ho deciso di mettere questo tipo di produzione di immagini (e immaginari) dall’alto a confronto con la produzione di immagini dal basso dei meme. Per farlo, ho considerato il “meme migliore di sempre”, ovvero Loss e ne ho riproposto l’archetipo rivendicando la potenza sovversiva del corpo. La mia performance consiste nel riproporre lo schema segnico del meme, interponendomi tra la parete e la proiezione e diventando io stesso watermark delle sessanta immagini stock più famose del 2018. In questo modo le foto standardizzate assumono nuova vita sconfinando nel reale.
SB/MZ: Ci puoi parlare del rapporto tra meme e immagine, anche nella interazione tra passato e futuro? Come hai realizzato il meme partendo dal protagonista principale dell’Hypnerotomachia Poliphili? Nel tuo lavoro hai evocato una relazione di senso tra il viaggio onirico di Polifilo e il mondo virtuale di Internet che ci contiene in questo periodo storico?
MA: Mi piace molto questa definizione di viaggio onirico nell’internet, perché è proprio così che sono arrivato alla realizzazione di una versione di Loss fatta di illustrazioni dell’Hypnerotomachia Poliphili. In questo caso ho voluto dimostrare come il meme Loss inteso quale archetipo narrativo possa essere utilizzato per riassemblare anche storie antiche. Per questo scopo sono partito dal testo La «Tempesta» interpretata, di Salvatore Settis.
SB/MZ: Ci puoi parlare di Tutti i giorni (2018) e della sua relazione con il Whole Earth Catalog?
MA: Tutti i giorni, come Drum System, è una delle mie opere legate alla questione dell’antropocentrismo. Si tratta di un’immagine aliena del Sole, creata a partire dall’archivio dell’SDO, il Solar Dynamics Observatory della NASA. Questo osservatorio studia gli effetti del campo magnetico solare attraverso nove lunghezze d’onda, di fatto dissezionando la stella. Così ho voluto fare emergere un’analogia tra le fotografie fornite dall’SDO e la prima foto della Terra, scattata sempre dalla NASA e utilizzata per la copertina del Whole Earth Catalog negli anni ’60, nel quale erano raccolti tutti i migliori strumenti in vendita all’epoca. Visti dall’esterno nella loro interezza e posizionati su uno sfondo nero, sia la Terra che il Sole sembrano oggetti in vendita su un catalogo.
SB/MZ: Un paio di anni fa hai pubblicato il saggio Art & automation: for an apologia of leisure time. Come si sta evolvendo la relazione tra uomo e macchina? Come ridisegnare il “lavoro” alla luce di questo rapporto? Nel tuo testo citi Srnicek and Williams: non c’è una relazione razzista intrinseca nel progetto di un reddito di cittadinanza?
MA: Art & Automation è un saggio breve pubblicato su Droste Effect Magazine in cui spiego come il termine intelligenza artificiale non deve trarci in inganno. Più che di intelligenza artificiale dovremmo parlare di automazione. È così che ho tracciato il collegamento con la rivendicazione del tempo libero operata da Srnicek e Williams in Inventare il futuro. Anche se alcune loro argomentazioni sono risultate ambigue, trovo molto affascinanti intuizioni come il superamento di alcuni lavori poco gratificanti grazie all’automazione. Ciò che scopriremo nei prossimi anni è se effettivamente il passaggio all’industria 4.0 porterà ai miglioramenti delle condizioni lavorative auspicati. Per quanto riguarda il reddito di cittadinanza, quello di cui parlano Srnicek e Williams è un welfare di ordine mondiale, ovviamente in chiave utopica.