Mauro Zanchi / Sara Benaglia: Sono trascorsi sette anni da quando hai realizzato il lavoro Ho preso le distanze (2013), che era presente tre anni dopo nella mostra collettiva all’Osservatorio di Fondazione Prada. Ora, con le misure del tempo che sono trascorse e attraverso lo spazio che hai percorso, rispetto a quali distanze ti misuri o da cosa prendi le distanze? La domanda è riferita anche alla scelta concettuale di stampare gli autoritratti e di allestirli in uno spazio tenendo come unità di misura l’altezza del tuo corpo.
Irene Fenara: Ho preso le distanze è una serie di Polaroid che ho scattato nell’arco di cinque mesi, ritraendo parenti, amici e conoscenti, con l’intento di raccontare in modo istantaneo le mie relazioni di quel periodo. Misurando con un metro la distanza fisica che mi separava dalla persona fotografata ho cercato di rendere visibile il tentativo di una misurazione scientifica degli affetti, seguendo le teorie di alcuni studi sulla prossemica che tra l’altro acquisiscono oggi una luce completamente nuova. Il dato spaziale all’inizio era naturalmente più rilevante del dato temporale perché la maggior parte dei ritratti sono stati scattati una sola volta per ogni persona e molto spesso in modo sincronico, ovvero nell’arco di un tempo relativamente limitato. Il focus era sulla distanza nello spazio, il dato temporale è emerso in un secondo momento, quando ho formalizzato il lavoro sotto forma di installazione a distanza di tre anni. In Self Portrait from Surveillance Camera emerge in modo evidente invece la diacronia, ovvero come il mio corpo nel tempo si è legato a diversi spazi. Questi lavori hanno in comune un’attenzione verso la disposizione e la relazione dei soggetti e delle cose nello spazio, se prima ero interessata alla distanza che avevo con le persone, ora sono interessata a quello che si trova tra noi e i dispositivi con cui abitiamo. Tra un lavoro e l’altro si è verificato un ribaltamento di corpi e di visioni. La mia identità è prima contemporanea a quella dei soggetti per poi diventare elemento centrale e ripetuto che traccia gli spazi. Non si tratta in questo caso di un avvicinamento o di un allontanamento ma di un tentativo di descrivere quelle che sono le regole e le implicazioni che nascono nel complicato rapporto con un dispositivo di controllo. Negli autoritratti la questione della distanza prende importanza in fase di stampa poiché ho deciso di mantenere la dimensione della mia figura nelle immagini sempre della stessa grandezza, lasciando determinare alla vicinanza o alla lontananza dalla videocamera le dimensioni di stampa finali. La mia figura moltiplicata nel tempo e nello spazio diventa così un principio ordinatore che idealmente dispone in proporzione tutte le cose del mondo.
MZ / SB: Cosa hai individuato attraverso la tua ricerca a proposito della prossemica? Oltre gli studi di Edward Hall, cosa hai sentito nel complesso rapporto con gli altri, tra distanze e avvicinamenti, tra affetti e ricerca artistica?
IF: Si potrebbe dire, forse, che la mostra Give me Yesterday mi ha permesso di prendere finalmente le distanze da quel lavoro perché le coordinate che mi ero data non corrispondevano più a quelle del momento dell’esposizione, né tantomeno a quelle di adesso. Trovo, infatti, estremamente affascinante l’impossibilità di fissare i rapporti affettivi e il carattere volutamente fallimentare di quel progetto, nel tentativo di mappare e definire gli affetti, ne è una prova. Si tratta di un lavoro fortemente legato a una temporalità precisa. Le relazioni, infatti, mutano nel tempo e ora, a distanza di anni, è tutto diverso.
MZ / SB: Quale è il tuo rapporto con la fotografia-oggetto, con la polaroid per esempio, nelle implicazioni che collegano un gesto all’oggetto, il tatto all’immagine?
IF: Purtroppo o per fortuna non posso fare a meno della concretezza dell’immagine, anche quando lavoro esclusivamente in digitale. Sono abituata a vivere con le immagini, stampate su supporti casuali, di prova, o giusto per averle tutti i giorni sott’occhio nello studio. Spesso penso a quanto sia delicata la fotografia, a volte sento la necessità di maltrattare le superfici, toccarle, tagliarle, accartocciarle, buttarle in un angolo, per poi vedere cosa sopravvive. La Polaroid è stata naturalmente il mio primo approccio alla fotografia per il suo carattere oggettuale, che si lascia ben soffocare dal gesso, dai tentativi e dalle prove in forno e in frigorifero.
MZ / SB: Cosa significa per te dare corpo a un’immagine, ovvero trasformare una image in picture?
IF: Dare corpo a un’immagine significa per me portarla su un’altra dimensione, più vicina alla nostra. Rendere concreta un’immagine può fare in modo che essa viva assieme a noi, corpo tra i corpi, solo così possiamo comprenderla appieno, nella nostra esperienza. La corporeità dell’immagine è prerogativa minima affinché essa possa soddisfare il nostro desiderio di possessione, spingendo così per esempio qualcuno ad acquistare un’immagine.
MZ / SB: Mi interessa capire più in profondità la tua relazione con lo spazio, sia nel rapporto tra la tua vita con lo spazio sia del tuo lavoro con lo spazio.
IF: Può essere che la mia necessità di relazionarmi costantemente allo spazio sia qualcosa che nasce anche dal fatto di aver avuto la possibilità di lavorare all’interno di uno studio, di uno spazio personale adibito al lavoro, molto presto. Sono stata, infatti, residente per tanti anni presso la Fondazione Collegio Venturoli di Bologna, che offre spazi di lavoro ai giovani artisti. Nonostante possa sembrare bizzarra la necessità di avere uno studio, lavorando io spesso in remoto e in digitale, sento comunque l’urgenza di proiettare nel mondo fisico e tangibile le mie ricerche che si concretizzano spesso in allestimenti installativi.
MZ / SB: Le immagini che salvi dalla sparizione possono essere considerate una declinazione o uno sviluppo ulteriore delle photo trouvée. Rispetto agli artisti che hanno lavorato con l’intervento del fattore caso (incontrare o trovare fotografie in un mercatino delle pulci e da lì costruire o innescare nuovi collegamenti di senso) o con l’idea che parte da un archivio, tu come conduci il lavoro e la selezione delle immagini?
IF: Lavoro con immagini tratte da videocamere di sorveglianza, che sono uno degli innumerevoli dispositivi che operano per immagini e le cui immagini si possono trovare sul web. Il web di per sé non è, infatti, un archivio chiaro e ordinato: spesso è quasi impossibile ritrovare la fonte e quindi il dispositivo da cui un’immagine proviene. Non credo il web sia realmente un archivio perché un archivio è sempre una selezione, qualcosa ne rimane sempre fuori, mentre la rete che utilizzo ha confini molto ampi, è un accozzaglia di immagini che hanno origine da dispositivi diversi. Nel mio caso mi interessa lavorare con immagini che provengono da un dispositivo che conosco e di cui ho studiato le problematiche e i significati; non capito per caso sulle immagini di sorveglianza, le cerco. L’unico principio alla base di questo processo “salvifico” è il dato estetico di queste immagini che, inconsapevolmente, non sanno di possederlo.
MZ / SB: Uno dei tuoi lavori più intensi e interessanti a livello sia formale sia concettuale è Megagalattico (2017). Ci interessa approfondire ulteriormente il rapporto tra immagini (di uffici e di stanze con dei server), lucine proiettate al buio sulle pareti dello spazio espositivo e mappature di galassie delle pareti. Cosa si celava in questo lavoro?
IF: MEGAGALATTICO nasce dall’invito di Gelateria Sogni di Ghiaccio a fare parte del format Family Matters che prevede una mostra collettiva nel tempo anziché nello spazio, così da raccogliere nell’arco di un mese sette diverse mostre, un fare molto veloce e fresco, con una forte consapevolezza di quello che avviene prima e dopo in quello stesso luogo. Quando ho iniziato a pensare a cosa fare conoscevo già bene lo spazio e ho avuto il desiderio di aggrapparmici nella sua totalità. In quel momento stavo raccogliendo immagini e video da videocamere di sorveglianza poste in uffici e locali pieni di server e computer. La notte queste stanze assumevano caratteristiche completamente nuove, nel buio i bagliori delle apparecchiature elettroniche si trasformavano in luci di stelle lontane che diventano vicine, transitabili e schiacciate dalla ripresa di una videocamera. La video installazione era costituita da quattro brevi clip proiettate in loop nelle pareti del luogo espositivo, immergendo l’osservatore in un ambiente simulativo, una dimensione cosmica e dilatata, nella quale è creato un valore estetico a partire da riprese con ben altra funzione. Il rumore e lo sporco delle immagini provenienti da dispositivi con una molto bassa risoluzione amplificano inoltre la sensazione di osservare il cielo stellato in tutta la sua granulosità e complessità. In una delle sequenze ho lasciato intuire, per pochi secondi, quale sia l’effettiva origine del segnale, innescando nell’osservatore la percezione di diventare improvvisamente un inavvertibile infiltrato.
MZ / SB: Che valore dái al rapporto tra algoritmo e immagine? Come ti muovi in rete seguendo le piste, i collegamenti di senso, le connessioni relativi agli algoritmi?
IF: Trovo interessanti le teorizzazioni che cercano di comprendere come nascono le proposte che il web ci fa come quelle sull’esistenza o meno delle bolle di filtraggio nei motori di ricerca e nei social network che ci fanno proposte sull’analisi dei nostri movimenti in rete. Per esempio su Instagram mi diverto ad ingannare il locative media e geolocalizzando le immagini che pubblico faccio pensare all’applicazione di essere in un luogo, anche se non mi sono mai mossa dalla mia scrivania. Mi piace riflettere sulla rappresentazione della mobilità connessa a queste app, uno spazio ibrido tra reale e virtuale. Sulle connessioni, invece, mi affascina molto il fatto che gli algoritmi agiscano in parte in maniera inconsapevole su quello che possono rappresentare per noi questi link, cioè non connettono i significati profondi che noi attribuiamo ai collegamenti che gli algoritmi creano automaticamente.
MZ / SB: Cosa stai indagando con Three Thousand Tigers?
IF: Three Thousand Tigers è un lavoro iniziato esattamente un anno fa in occasione dell’ING Unseen Talent Award di Amsterdam. Si tratta di una serie di arazzi che indagano i modi in cui la tecnologia può influenzare la nostra percezione della realtà e della natura riflettendo sull’ecologia delle immagini. L’idea iniziale si basa sul fatto che esistano più immagini di tigri che vere e proprie tigri viventi, le tigri libere e in carne ed ossa sono infatti poco più di tremila mentre di immagini ne troviamo a milioni.
Questa sproporzione tra rappresentazione e soggetto reale è stata il motore del progetto. L’idea è quella di accrescere paradossalmente la fauna digitale di un animale in via di estinzione lavorando con la riproduzione della sua immagine. Il lavoro riflette infatti su dei parallelismi linguistici tra il mondo naturale e la produzione di immagini. Generare e riprodurre sono l’unico modo per salvare dall’estinzione naturale come da quella digitale, lavorando anche sulla riproduzione di file e a come perdano qualità col tempo e col progresso di computer e software. La scelta per la riproduzione digitale dell’animale è caduta quindi sull’utilizzo di un algoritmo generativo, un programma che allenato nella visione del soggetto proposto ne cerca di riprodurre l’immagine senza ricopiarla esattamente ma producendo figure verosimili.
Per imparare a riconoscere e riprodurre un algoritmo generativo avrebbe bisogno di milioni di immagini, proponendogliene un numero minore i risultati si allontanano dal reale. Offrendo un dataset di sole tremila immagini ciò che ne risulta sono nuove figure che mantengono alla fine solo alcune caratteristiche dell’animale originale. Ho deciso infine di tradurre queste immagini digitali in arazzi, e li ho fatti produrre in India, dove si trovano la maggior parte delle tigri viventi. Da un lato mi interessava l’analogia con le pelli di animali che vengono usate come tappeti, e dall’altro sottolineare che il modo in cui lavora la tessitura è simile al modo in cui lavora l’algoritmo. La trama e l’ordito del tessuto si costruiscono in maniera analoga alle stringhe di codice del programma. Sono molto interessata a come i dispositivi e le tecniche utilizzate nella realizzazione di un lavoro possano aggiungere ulteriori livelli di significato.
MZ / SB: Come mai hai scelto proprio l’immagine esotica di una tigre?
IF: Questa è un’ottima domanda perché l’idea che esistano più immagini di un soggetto che il soggetto stesso è un’idea che si può applicare in sostanza a tutto, tranne che forse agli oggetti a produzione industriale. Mi interessa la figura della tigre perché è un’immagine pervasiva nell’immaginario collettivo, si può trovare su tantissimi oggetti, in molti loghi, nei film, sui cereali e sulle magliette. Si tratta quasi dell’archetipo per eccellenza di animale e mondo naturale, un simbolo molto potente quanto sfruttato. Per questi motivi se si pensa il paradosso tra l’immagine e il soggetto diventa ancora più interessante e incisiva la sproporzione tra i suoi numeri.