Sara Benaglia / Mauro Zanchi: Parte della tua produzione fotografica è realizzata solo ed esclusivamente per la rete e i due profili instagram @mitikafe e @mitikafe_alternative ne sono esempio. Perché non stampi i tuoi scatti? Che valore aggiunto ha un supporto digitale rispetto ad una stampa tradizionale?
mitikafe: L’inizio della mia pratica fotografica è direttamente connessa ad internet e al suo utilizzo. Ho scoperto la fotografia in rete e ho iniziato il mio percorso a stretto contatto con il mondo digitale. Ci sono molti luoghi che indirettamente hanno fatto parte della mia ossessione fotografica: i blog, i codici html, le ricerche visive lunghissime su google, le cartelle infinite di raccolta di immagini varie, le discussioni tramite forum con persone sconosciute che, nonostante tutto, sentivo spesso molto vicine. Continuando le mie ricerche è poi sorto il dubbio riguardante lo stampare le fotografie. Sono nata a fine anni ’90 e il mio primo ricordo della fotografia era digitale. Ricordo vividamente il cambio tra macchine fotografiche analogiche e macchine digitali e l’emozione, lo scetticismo, la curiosità degli adulti attorno a me che ne parlavano. Ma in tutta la mia infanzia le macchine fotografiche analogiche non compaiono: semplicemente non fanno parte del mio universo. Le ricordo solo nel momento in cui stavano per essere sostituite dal digitale. Quando ho dovuto riflettere sullo stampare le foto ho deciso quindi di non farlo, perché mi sembrava la scelta più consona e autentica. Volevo che all’interno della mia pratica tutto avesse un senso e una direzione unica, diretta, decisa e sincera. Stampare le foto per me, vissuta da sempre a stretto contatto con il mondo digitale, sarebbe stato mentire in qualche modo. Le mie foto nascono grazie ad internet e nascono per e su internet. Non hanno mai avuto una fisicità e non aspirano ad averne una, non quella tradizionale perlomeno. Il valore delle foto digitali (e in generale di tutte le opere digitali) deve essere ancora creato ed esplorato ed è proprio questo ad affascinarmi. Il digitale dà l’occasione di rivalutare e modificare l’idea che abbiamo di valore, di fruizione, di collezionismo e più in generale di ciò che chiamiamo “opera d’arte”. La mia pratica si muove soprattutto verso questo senso: verso l’esplorazione e la creazione di un diverso tipo di valore più inclusivo, partecipativo ed aperto.
SB/MZ: Come realizzi i tuoi scatti fotografici? Qual è il metodo attraverso cui fai emergere il rapporto tra corpo e connessione?
m: Mi piace l’intimità, la ripetizione, l’ossessione e il rapporto che abbiamo con i nostri luoghi sicuri. È per questo che non ho uno studio e non aspiro ad averne uno ma scatto nella mia camera che vedo come una sorta di “nido”. Da quasi due anni ho deciso di lavorare solo con autoscatti e fotografo altre persone solo quando necessario o per progetti specifici (come in My dear old internet friends). È stato spontaneo per me concentrarmi sul corpo e sulla smaterializzazione e il digitale. Ultimamente ho frequentato il gruppo di lavoro online Desktop cinema group work e durante un artist talk che ho tenuto per loro – ma soprattutto insieme a loro – ho parlato delle tecnologie touch. Per quanto il digitale non abbia una vera e propria fisicità in realtà noi viviamo in un mondo in cui il nostro corpo tocca costantemente il corpo dei nostri dispositivi scambiando liquidi, batteri e via dicendo. Mi affascina questo rapporto tra qualcosa di estremamente fisico come il nostro corpo e il mondo di internet che si materializza (in parte) tramite dispositivi. Nel futuro il rapporto tra corpo umano e connessione diventerà estremamente più presente e più difficile da gestire. È esattamente per questo che credo sia fondamentale avviare ora una giusta collaborazione tra umani e non-umani digitali e formare una coalizione positiva della quale potremmo aver bisogno in un futuro distopico.
SB/MZ: Immagini un mercato alternativo per opere digitali. Programme (2020) è una tua proposta in questa direzione. Per ora consiste in un “abbonamento” che mensilmente consente di ricevere tuoi scritti, fotografie, video per poi restituirteli integrati. C’è una declinazione sessuale in questa partecipazione e pagamento?
m: Programme è un tentativo di creazione di un mercato alternativo vicino alle esigenze dell’arte digitale. Anche dal punto di vista del mercato e della vendita volevo restare fedele ai miei ideali e creare un mio modo personale di vendere che fosse parte integrante della mia poetica.
Programme prende ispirazione da un determinato modo di vendere nato negli ultimi anni proprio su internet tramite siti come https://www.patreon.com/ oppure https://onlyfans.com/. Sotto questo punto di vista il progetto è effettivamente vicino a molti nuovi modi di vendita elaborati di sex workers, metodi che puntano a “combattere” la pirateria vendendo materiali esclusivi e soprattutto intimi. Personalmente credo molto ad un internet libero, dove l’informazione non debba essere pagata e non sono totalmente contraria alla pirateria (TNTVillage, Torrent). È esattamente difendendo questo aspetto di internet che difenderemo la nostra libertà digitale o meno. Allo stesso modo, c’è necessità di riflettere sulle possibilità di vendita che internet offre. Se da un lato internet deve rimanere libero, accessibile e gratuito (sebbene una connessione sia sempre a pagamento), dall’altro offre l’opportunità di dimezzare di molto i prezzi di pressoché tutto. È in questo senso che si muove la mia ricerca. Una parte fondamentale del mio lavoro è libera e gratuita, sempre accessibile facilmente. Mentre Programme si propone come materiale extra, di approfondimento e di partecipazione a prezzi ridotti che possono essere adattati alle esigenze di molti. Questo per favorire anche piccoli collezionisti e piccoli galleristi o anche solo appassionati che vogliono avere la loro collezione di opere d’arti digitali.
La sfera sessuale è comunque sempre molto presente in tutta la mia pratica e anche Programme non fa eccezione. Ciò che più mi interessa è il rapporto che il sesso (e soprattutto la pornografia) intrattiene con internet. Sin dalla sua nascita una grandissima parte del web era occupata da materiali pornografici di varia natura e tutt’ora continua ad essere strettamente legato a tutta una serie di pratiche comuni o meno sessuali. L’incontro su siti specializzati riguardo determinate pratiche (come i siti per la community BDSM), la nascita direttamente in rete di alcune correnti o community principalmente a sfondo sessuale (il fandom dei Furry e di conseguenza il porno a tema) e ora la nascita di una nuova generazione di sex workers che utilizzano i social per abbattere la distanza fra loro e lo spettatore rendendolo sempre più partecipe. Finora “l’abbonamento” è ciò che sembra funzionare meglio: un pacchetto dentro al quale si acquistano determinati materiali che si sperano essere intimi, personali e che diano l’occasione di avvicinarsi di più a quella persona. Anche nel futuro di Programme è lì che spero di arrivare: portare lo “spettatore” a diventare parte attiva del processo di creazione dell’opera d’arte e abbattere la distanza fra l’artista e chi vuole supportare o seguire la crescita di quest’ultim*.
SB/MZ: In che cosa consisteva l’IG streaming performance Dinner Together (2017) con Thomas Alburquerque? Che tipo di emotività risveglia la rete?
m: Dinner together è una performance streaming su Instagram che ho tenuto con l’artista spagnolo Thomas Alburquerque. Io e Thomas ci siamo conosciuti online anni fa in occasione di un evento musicale organizzato da lui. Da allora bbiamo iniziato a parlare, discutere e confrontarci. Fin quando Thomas non ha deciso di venire da me a Torino. Come tutti gli incontri che da online passano offline c’era molta emozione, un po’ di imbarazzo e in generale un senso profondo di conoscersi già, nonostante si fosse sempre stati lontani fisicamente. Quando poi Thomas è andato via e abbiamo ripreso la nostra corrispondenza online la differenza fra il mondo digitale e non era particolarmente evidente. Tra le cose che più ci mancavano vi erano mangiare insieme e semplicemente parlare. È stato in quel momento che abbiamo deciso di tentare di cenare insieme tramite Instagram ed esplorare e sfidare i limiti del digitale. Un tentativo di costruire tramite digitale un rapporto vero e duraturo, per abbattere la sensazione sempre più presente del monologo e della solitudine digitale. In Dinner together abbiamo sperimentato insieme che un gesto semplicissimo come quello di cenare insieme e parlare del più e del meno diventa estremamente complesso e riduttivo nel digitale. Avevamo deciso di coinvolgere anche il pubblico, creando una situazione condivisa, un momento collettivo che, seppur nei suoi limiti, effettivamente ha creato riscontro. L’orario era esattamente quello della cena e sia durante che dopo la performance molta gente ci scriveva per dirci che aveva effettivamente cenato insieme a noi. “Together” eravamo quindi io e Thomas che tentavamo di mantenere vivo ciò che amavamo fare insieme ma erano anche gli altri – i followers – che hanno mangiato effettivamente con noi prendendo parte alla performance. L’esperienza si è rivelata ovviamente diversa e limitata rispetto a quella della realtà. Ma ha anche rivelato un certo tipo di potenziale: quello di creare collettività (spesso anche inconsapevole) e diversi livelli di partecipazione o fruizione.
SB/MZ: Ci parli di Akamanakakusamana – Act 0?
m: Akamanakakusamana è un progetto fotografico completato tra il 2017 e il 2018 interamente visibile su instagram all’hashtag: #mitikafe_akamanakakusamana . Il progetto era incentrato sull’idea di una identità costruita tramite l’uso di fotografia e digitale. Il personaggio era un essere informe, fluido, senza genere e senza una vera e propria identità. Era un modo per sparire (“travestendomi” da questo personaggio) e allo stesso tempo apparire (fotografandomi e pubblicando foto su internet). È stato mentre lavoravo a questo progetto che ho deciso di non stampare le mie fotografie e che ho iniziato un lungo periodo di riflessione su eventuali possibilità di fruizione delle mie opere in uno spazio fisico. Avevo incontrato in un workshop l’artista turca Aslı Çavuşoğlu e la sua determinazione e il suo supporto erano stati fondamentali nello spingermi a riflettere su delle possibili alternative d’installazione delle mie fotografie. Nel 2017 ho installato un mio lavoro per la prima volta, decisa nel dover esplorare diverse modalità di installazione. Il progetto di Akamanakakusamana era agli sgoccioli e sentivo di dover chiudere con un’azione che gli rendesse giustizia. Ho quindi tenuto una performance collegata ad una installazione costituita da quattro tablet: in essi vi erano parti della medesima immagine, porzioni impossibili da collegare fra loro. Ai visitatori era richiesto di toccare i tablet, spostare o ingrandire o cambiare le fotografie per creare la propria versione e punto di vista. Nella performance abbiamo invece ricreato in parte il mio studio fotografico e scattato degli autoritratti. Quest’ultimi venivano subito stampati (!) e strappati per poi tentare di ricomporli [fallendo].
SB/MZ: Da dove nasce la tua ossessione mimetica per il Giappone?
m: Frequentando internet tra il 2006 e il 2010 circa era molto facile imbattersi in alcuni tipi di fandom e tra questi c’era il fandom del Giappone che ha costituito una grande parte del web di allora. Tutta la community si stringeva attorno ai manga e alle anime (tra tutti nei miei ricordi spicca moltissimo Chobits che a quei tempi adornava internet di immagini, stickers, template etc.) per poi finire verso la musica jrock e jpop e in altri meandri di internet, tra cui nella pornografia giapponese (j-av ed hentai). Durante la mia infanzia e prima adolescenza sono cresciuta frequentando queste community, stringendo rapporti con le persone che ne facevano parte e colmando con questo fandom la mia incomprensione e solitudine dovuta ad un mondo fisico ostile. Per me il Giappone è la solitudine online, l’incomprensione che vivevo da piccola nel mio piccolo paese e la voglia di libertà ed espressione. Ricordo soprattutto le fotografie del quartiere di Harajuku e dei suoi particolari abitanti. È forse proprio da quella libertà, da quella necessità di esprimersi, di osare, portare il trucco e gli abiti all’esasperazione che nasce il mio fascino e il mio desiderio di emulazione, seppur sotto la lente dell’arte contemporanea. La passione per il Giappone – non saprei se si possa definire ossessione o meno – ha plasmato tutti i miei interessi, i miei incontri e le mie scelte. È all’interno di quel fandom e per puro caso che ho poi deciso che sarei diventata una fotografa e un’artista. Avevo da poco iniziato ad ascoltare Bjork di cui mi ero innamorata (soprattutto del video Bachelorette). Ero ossessionata dalla musica ed ero solita creare cartelle immense in cui raccoglievo immagini (fino anche a 1000 fotografie circa) delle band o dei cantanti che mi piacevano. Passavo ore a cercare immagini, a guardarle, a rimanerne affascinata. Nella mia mente non esisteva il concetto di fotografia prima di conoscere Bjork. Cercando il suo nome su internet le immagini erano nettamente di una qualità superiore a qualunque cosa io avessi mai visto. Tra tutte mi erano piaciute le foto allagate di blu che le aveva scattato Nobuyoshi Araki.
SB/MZ: Che emotività risveglia un fuori dal mondo reale?
m: Prima dell’avvento del “sempre online” bisognava entrare ed uscire da internet. Ora non lo facciamo più perché siamo sempre su internet. Quindi prima la distanza fra mondo virtuale e mondo reale era molto più netta: si doveva entrare e si avvertiva davvero di stare abbandonando il mondo reale per entrare in un altrove. Si usavano nickname e quasi mai condividevano le proprie fotografie. Nessuno sapeva davvero chi tu fossi. Provo nostalgia di quel momento. Ora il “sempre online” è estremamente comodo, ma ha una relazione complessa con privacy, ansia e sorveglianza. Credo che ridurre il concetto di “fuori dal mondo reale” solo alla fruizione classica online sia comunque riduttivo. Già l’arte ha il potere di creare un fuori dal mondo reale mantenendo con quest’ultimo un rapporto critico. Ma per quanto riguarda il mondo digitale, esso è in grado di per sé di creare mondi a parte con una facilità davvero affascinante. L’unione di questa capacità del mondo online con l’arte digitale è la direzione che mi piacerebbe esplorare nel futuro. La creazione di un fuori rispetto al mondo reale risveglia in me la necessità di creare uno spazio “neutro” in cui potersi sentire liberi o anonimi o qualcosa di diverso da sé stessi. Abbandonare la propria persona, e tutto quello che significa essere sé stessi, è molto vicino alla necessità di creare un mondo alternativo alla realtà, un mondo che ci permetta di aprirci davvero agli altri e di affrontare lati complicati e irrequieti di noi stessi. Creare un mondo fuori da quello che viviamo significa anche immaginare e creare un’altra possibilità di vita e di esistenza, fondamentale per la sopravvivenza umana e non-umana, digitale e non.
SB/MZ: Stai lavorando al film About Ayumi. Di cosa si tratta?
m: About Ayumi è un progetto a cui sto lavorando dal 2016 in cui esploro il mondo delle camgirl. Il progetto iniziale prevedeva la creazione di una zine, poi è diventato un film. Ayumi è un personaggio immaginario ma con un account -inattivo- su chaturbate. È una camgirl apprezzata sparita misteriosamente nel nulla. Ho deciso di indagare sulla sua scomparsa contattando suoi clienti, amici e colleghe. In Instagram ho trovato sei persone disposte a recitare per me. Ho dato loro pochissime informazioni su Ayumi. La trama è strutturata sulla base di queste poche e vaghe informazioni. Ayumi è un personaggio confuso, contraddittorio, irrequieto proprio perché sono le informazioni inventate da attori e attrici a crearla. Questo processo di creazione del personaggio simula quello di formazione di Internet: data una base gli utenti hanno arricchito il mondo digitale andando di fatto a costruire l’internet che conosciamo oggi. Il film è girato interamente utilizzando il desktop come base a cui vengono aggiunte chiamate Skype con attori e attrici, video, foto, siti web etc. Il film indaga la creazione e il futuro delle connessioni umane tramite dispositivi. La solitudine, la necessità di comprensione, il desiderio di essere accolti e capiti, i desideri sessuali e sentimentali, tutto questo mediato tramite il mondo distaccato del digitale.
SB/MZ: mitikafe più che un nome proprio sembrerebbe un alter ego. Questo fattore associato alla tua relazione privilegiata con la rete ci ha fatto ripensare a http://mouchette.org , un’opera di New Media Arte del 1996 che si presenta come il sito dall’estetica innocente e grottesca di una fantomatica 13enne di Amsterdam. mitikafe vuole rimanere sconosciuta? La tua estetica resisterà al tuo invecchiamento?
m: mitikafe non è un nome e nemmeno un vero e proprio alter ego: è un nickname. È stato il mio primo nickname nel 2006 e da quel momento in poi l’ho sempre mantenuto. Io mi sovrappongo a mitikafe, non ne sono separata: siamo due diversi aspetti della stessa persona. Creare spazi digitali e immateriali è per me una tensione verso un futuro utopico di me stessa e del mondo. mitikafe è la versione migliore possibile di me, nel futuro utopico che sogno. Questo nickname non nasconde un personaggio, dietro piuttosto c’è qualcuno che tenta di rivelarsi. Nel futuro credo che la mia estetica mi seguirà nell’invecchiamento, in quella tensione che io e mitikafe condividiamo verso la visualizzazione della nostra utopia digitale e immateriale.
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