ATP DIARY

New Photography | Intervista con Giulia Iacolutti

"Senza distruggere l’eredità del passato, anzi, consapevoli di essere le eredi di chi della militanza femminista ne ha fatto una missione di vita, forse il tempo della denuncia con l’arte, o della fotografia come strumento di testimonianza, è passato, forse più che mai oggi bisogna “stare” attraverso l’arte." Giulia Iacolutti

Per la rubrica New Photography, Sara Benaglia ha intervistato Giulia Iacolutti

Giulia Iacolutti è un’artista visuale, la cui pratica fotografica e partecipativa è vissuta come un progetto politico. L’arte e la fotografia relazionale non sono per lei solo forme di testimonianza e di denuncia che rispondono a degli ideali: attraverso un lavoro transdisciplinare l’artista prende una posizione politicamente responsabile e attiva nel mondo, cercando di decostruire anche la gerarchia tra fotografo e fotografato, in una dimensione che è dialogo e relazione orizzontale.

Sara Benaglia: Ciao Giulia, vorrei portare l3 lettor3 ad esplorare il tuo lavoro nella sua complessità e procederei “mimando” la conversazione che ha preceduto questa intervista. Ripartirei, dunque, da un lavoro che hai esposto al PAC di Milano qualche anno fa, cioè Casa Azul (2016-18). Si tratta di un’indagine sociovisiva sulle storie di vita di cinque donne trans imprigionate in uno dei penitenziari maschili di Città del Messico. Perché ti trovavi in Messico? Come mai la prigione è chiamata Casa Blu e da dove nasce l’idea di lavorare con la cianotipia in relazione con la biologia per riflettere sulle convenzioni del binarismo?

Giulia Iacolutti: Ciao Sara. Sono partita per il Messico nel 2014 con un servizio di volontariato europeo, un’esperienza che si è poi estesa a quattro anni e in cui ho affinato il mio approccio fotografico e partecipativo, focalizzandomi molto sulla narrazione della violenza. Casa Azul è nato dall’incontro con la sociologa Chloé Constant. Nel 2015 stava ultimando il suo post-dottorato sui percorsi di affermazione di genere MtoF all’interno delle carceri maschili della capitale messicana. Concordando sull’importanza di raccontare questa realtà, ci siamo interrogate su come rendere accessibili le sue ricerche, normalmente destinate a un ambito accademico; abbiamo deciso quindi di associare fotografie e registrazioni audio alle storie di vita, linguaggi più facilmente distribuibili attraverso i media. Dopo vari tentativi, siamo riuscite ad accedere al Penitenziario di Santa Martha Acatitla ed attivare, per la popolazione trans, un corso di scrittura e fotografia, articolato su dieci incontri. In quel contesto, abbiamo scoperto che le persone detenute, vivendo in un carcere maschile, erano obbligate a indossare abiti di color blu, e che per questo motivo le donne avevano soprannominato il carcere “la casa blu”, metaforizzando sottilmente la loro condizione di donne nate in un corpo maschile. Il colore blu ha subito acquisito un’importanza simbolica preponderante, diventando la forma attraverso cui esprimere questo significato. Ho stampato così le fotografie in cianotipia, un antico metodo di stampa fotografica a contatto, che si caratterizza per il colore blu di Prussia.
L’associazione delle cianotipie con le immagini rosa di cellule prostatiche sane, catturate al microscopio, nasce dal ritrovamento di un manuale di biologia degli anni ’90 nella stanza dove operavo. Questo ha suscitato in me una curiosità sull’origine cellulare che accomuna tutti gli esseri viventi, fino a scoprire il metodo di colorazione con ematossilina-eosina, una tecnica di base nello studio microscopico dei tessuti, che tinge i campioni di rosa. L’uso dei colori stereotipati di genere, ossia il blu e il rosa, codici visivi culturalmente connotati, ha innescato una riflessione più ampia sul concetto di uguaglianza e sul carcere come metafora di una società fondata sul binarismo uomo/donna, che inibisce la concezione di altri generi e il riconoscimento del diritto all’indeterminatezza di genere. Se il blu evoca l’esterno e l’identificazione passiva, il rosa, al contrario, parla dell’interno, del sé e dell’autodeterminazione. Casa Azul ha l’obiettivo di stimolare questa domanda: “Qual è il vero carcere? L’istituzione, il corpo in cui nasciamo o la società che discriminandoci ci toglie la libertà di essere?”. 

SB: Nel tuo lavoro porti avanti una ricerca, anche partecipativa. Spesso instauri dialoghi con diversi professionisti (psicologi, biologi…) e ti apri a derive laterali. Pensando ad I don’t care about football (2018-2021), un progetto in cui “io” è sempre Johan Cruijff, cosa implica riflettere su inquietudini non autobiografiche?

GI: Ogni mia ricerca sottintende inquietudini personali che analizzo e interpreto quasi sempre attraverso storie non biografiche. I don’t care (about football), è un progetto artistico-partecipativo, raccontato nel libro omonimo (bruno, 2023), che coinvolge le giocatrici e i giocatori della squadra di calcio Marangoni 105, nata all’interno di una residenza riabilitativa del Dipartimento di Salute Mentale di Udine. La squadra, composta dalle persone ospiti del centro, ma anche da operatori e amic3, è caratterizzata dalle magliette con il numero 14 di Johan Cruijff. Lo storico calciatore dell’Ajax è stato infatti il principale interprete del calcio totale, lo stile di gioco per cui ogni calciatrice o calciatore che si sposti dalla propria posizione viene sostituito, per non alterare la disposizione tattica.  Siamo tutt3 il numero 14, a questo allude la Marangoni 105. Il numero, nella ripetizione, scardina la definizione, perché è nella neutralità che si genera la sospensione tra il chi sei tu e il chi sono io, ricollocandoci nel comune ruolo di persone. Il 14 identifica il pensiero proprio del progetto e condiviso dall’intero team di lavoro, un pensiero critico rispetto alle identità rigide, che crede nella possibilità di cambiare il proprio ruolo nel campo come nella società, e che concede all’altr3 un margine di incertezza in cui far respirare la relazione. 

Giulia Iacolutti, Casa Azul, cianotipia 14×14 cm, su carta cotone Fabriano Rosaspina 21,6×27,9 cm, 2017
Giulia Iacolutti, Casa Azul, exhibition view, PAC Padiglione d’arte contemporanea – Project Room, Milano 2021 (foto di Claudia Capelli)

SB: Il nostro incontro è seguito a una mostra su fotografia e femminismo curata da Muzzarelli. Che relazione hai con la fotografia e in che modo il femminismo la sta cambiando? Possiamo cambiare il futuro senza sabotare il passato?

GI: Guardo la serie fotografica di Milli Gandini, Salario al lavoro domestico (1975), che rappresenta la performance in cui l’artista scrive sui mobili impolverati la parola “salario”, e mi chiedo: riusciamo ancora ad essere così incisive? Ironiche? Così radicali? Ma soprattutto, in questo magma di immagini, avrebbe ancora forza un gesto tale? Sposterebbe lo sguardo o solo verrebbe scorso velocemente senza capire l’intelligenza dell’azione? Ammetto di non poter fare a meno di desiderare di cogliere l’essenza nella sintesi, come ci sono riuscite artiste quali Tomaso Binga, Marcella Campagnano o Nicole Gravier. Eppure non posso scindere l’opera dall’attivazione di un dialogo inteso come fondamento della relazione: stabilire un sentire condiviso sul senso dell’esistere, fino a riconoscere e accogliere le infinite possibilità dell’esistere. C’è una frase che dice Maria Lai in un dialogo con Giuseppina Cuccu, in Le ragioni dell’arte. Cose tanto semplici che nessuno capisce (Electa, 2024): “L’arte non muore, resta sepolta. Ciò che muore sono i valori umani, la cultura”. Allora forse se siamo transfemministe, non dovremmo “limitarci” a fare arte, ma sperimentare l’espressività della creatività sociale per riportare le singole soggettività ad un sentire collettivo. Insomma, un fare arte con la valenza politica della lotta all’emarginazione. Nella mia pratica questo moto si manifesta nella collaborazione con i centri antiviolenza, nell’attivazione a scuola di laboratori sulla relazione, nel costruire spazi di alleanza insieme a3 dipendent3 delle imprese o con minori non accompagnati, nelle RSA o nei CPIA, nell’inserirmi in percorsi socio-educativi nell’area delle disabilità. Per me questi non sono solo luoghi di accoglienza, sono spazi in cui la presenza di un’artista è parte di un progetto politico, sono laboratori sociali in cui si sperimentano relazioni virtuose e che possono diventare il motore di cambiamento in una cultura capitalista patriarcale. Forse sono andata fuori tema e non ho risposto alla tua domanda, ma dietro alla produzione di una fotografia per me, oggi, ci deve essere più di un ideale: per quanto l’immagine fotografica possa diventarne simbolo, veicolo, un oggetto utile all’economia, l’impegno trascende l’immagine. Senza distruggere l’eredità del passato, anzi, consapevoli di essere le eredi di chi della militanza femminista ne ha fatto una missione di vita, forse il tempo della denuncia con l’arte, o della fotografia come strumento di testimonianza, è passato, forse più che mai oggi bisogna “stare” attraverso l’arte.

SB: Dal 2020 stai portando avanti una ricerca, uno studio visivo sugli ormoni dell’amore. In che modo hai lavorato sulla fotografia psichiatrica per proporre una narrazione diversa?

GI: Sebbene, come dice bell hooks in Tutto sull’amore (Il saggiatore 2022), “l’unico ambito che parla del nostro struggente desiderio d’amore è la cultura popolare”, nel 2020, a seguito di un’esperienza personale, ho deciso di convertire una domanda apparentemente stucchevole in ricerca: “Può l’amore guarire una persona?”. Da quel momento non ho più smesso di leggere, informarmi, seguire corsi intitolati Le leggi dell’attrazione, dialogare con neuroscienziati, il tutto per capire cosa accada al nostro corpo quando ci innamoriamo e se l’assenza di piacere possa portare una persona ad ammalarsi. È diventato così uno studio visivo focalizzato sugli ormoni e sui neurotrasmettitori presenti nei circuiti nervosi che determinano la sfera emotiva, uno studio che probabilmente non porterò mai a termine, poiché fonte di continue scoperte. E non è un caso se continua a prendere forma attraverso l’uso di molteplici media (fotografia, film in Super8 e 16mm, laboratori, momenti di arte partecipata, performance).  La prima restituzione, Dopamina (attualmente esposta presso la Galleria Civica di Trento del Mart, nella mostra Intelligenze emotive. Storie di connessioni empatiche a cura di Lisa Maturi, Ginevra Perruggini, Giuseppe Scalia – Officina Espositiva Università di Trento) è un lavoro fotografico che indaga l’ormone cardine nelle sensazioni di piacere e gratificazione, sperimentato nelle fasi iniziali di una relazione romantica. Era febbraio 2020, durante la residenza artistica “Liquida” a Palermo, presso l’allora studio Minimum, quando la neurologa Dott.ssa Marina Rizzo mi ha confermato che il Parkinson, disturbo degenerativo del sistema nervoso centrale, si manifesta in concomitanza con la perdita di neuroni che producono dopamina. Ho deciso così di partecipare insieme a3 suo3 pazienti ad alcune lezioni di tango-terapia presso Apis (Azione Parkinson in Sicilia), chiedendo loro di venire vestit3 nella miglior maniera, come se veramente ci trovassimo in una milonga di Buenos Aires. Alla ricerca di un’immagine che potesse divenire metafora di un piacere mancante, ho iniziato a ballare con le persone presenti, fino a guidarl3 in un tango solitario per fotografarl3 in pose prive dell’altra metà dell’abbraccio. Il piacere derivante dal ballo, agente attivatore di serotonina e dopamina, ne trovava però visibilità nella dignità delle pose e delle espressioni. Il set costruito per Dopamina prende spunto dall’immaginario che ci giunge dalla Iconographie photographique de la Salpêtrière, pubblicazione scientifica di Jean-Martin Charcot, e dall’Archivio Vincenzo Neri, che raccoglie i film di inizio ‘900 girati dal neurologo e pioniere del cinema scientifico italiano. Qui, la pretesa scientifica sui corpi era volta a rendere visibile ciò che essi celavano al loro interno: come sostiene Georges Didi-Huberman in L’invenzione dell’isteria (Marietti 1820, 2008), la fotografia acquisiva un valore probante (diagnostico, pedagogico) e di previsione (prognostico, scientifico). Eppure, le fotografie, che in virtù della loro “oggettività” avrebbero dovuto restituire l’immagine di un caso clinico, finiscono per offrire alla lettura contemporanea gesti di corpi indimenticabili. Ne è un esempio il fotolibro Révelations di Javier Vivier (RM, 2015). Così Dopamina, in cui i segni fatti con lo scotch nero a terra riconducono allo studio sull’equilibrio o alla capacità d’orientamento de3 pazienti, diventa allora immagine poetica della gestualità del piacere, destigmatizzando l’immaginario comune della persona malata, ed esaltandone invece la sua onorabilità. 

Giulia Iacolutti, The Golden Liquid #7, orotone (stampa ai sali d’argento su vetro trattato alla gelatina rivestito con pigmento metallico e polvere d’oro 22 Kt), 10×12,5 cm, 2024
Giulia Iacolutti, The Golden Liquid #5, orotone (stampa ai sali d’argento su vetro trattato alla gelatina rivestito con pigmento metallico e polvere d’oro 22 Kt), 10×12,5 cm, 2024

SB: La maternità è diventata l’aspetto più glorificato della condizione femminile, anche se la custodia dei figli non è mai diventato un sistema industrializzato. Perché l’allattamento, nonostante la glorificazione della maternità, da fastidio? Come hai lavorato su questa idea in The Golden Liquid (2024-in corso)?

GI: L’allattamento al seno è un tema controverso. Sebbene sia ancora considerato come l’unica opzione “corretta”, stigmatizzando così chi non può o non vuole allattare, sono tutt’oggi assenti politiche di supporto concrete, come congedi di maternità e paternità adeguati. Inoltre, è paradossale che un atto così naturale non sia esente da una visione sessualizzata del corpo, motivo per cui l’esposizione in pubblico del seno viene ancora contestata e inibita. Dal punto di vista economico, l’industria del latte artificiale non ha mai limitato una promozione fuorviante, imponendo il consumismo anche nella vulnerabilità del puerperio. Tutto ciò rende l’allattamento uno spazio su cui viene esercitato un rigido controllo socio-economico, limitando la scelta consapevole e dimenticando di considerare il benessere psicofisico della diade, dell’attante e dell’allattat3, come unica condizione ineludibile.
A partire da queste riflessioni, dallo studio sugli ormoni e dalla personale esperienza di allattamento prolungato, ho esplorato il tema del latte umano. In collaborazione con i biologi e psicologi del Dipartimento di Scienze della Vita dell’Università di Trieste, il CIMA (Centro Interdipartimentale di Microscopia Avanzata) e l’Istituto di Anatomia Patologica dell’Ospedale Santa Maria della Misericordia di Udine, ho studiato la composizione del mio latte, nonché gli effetti sulla sfera emotiva e ormonale. La ricerca multimedia in corso è al momento composta da: fotografie del liquido scattate al microscopio nel corso dei tre anni; dettagli di parti del corpo connesse alla pratica; un film super 8 (Last Milk, 2023), che ritrae, con una parvenza volutamente amatoriale, la spremitura manuale dell’ultimo latte; una reliquia del latte reso perla grazie a un processo di liofilizzazione; e la restituzione in forma grafica (china nera e oro su carta) del tracciato oculare, che ripercorre i micro-spostamenti della pupilla registrati durante il ricordo del primo attaccamento al seno di mia figlia. Caratteristica del progetto è la stampa in orotone, una tecnica di riproduzione – sperimentata grazie al prezioso supporto di Carlotta Valente dello Studio Bayard di Roma – che consente di ottenere positivi ai sali d’argento su vetri trattati alla gelatina, rivestiti con pigmento metallico e polvere d’oro 22 carati. Ho scelto questa tecnica per il risultato dorato e iridescente, che non solo richiama il latte umano, definito “oro liquido” dell’alimentazione nella prima infanzia per il colore del colostro, ma anche per l’uso del vetro, che rimanda all’analisi microscopica su vetrini del mio latte in fase di allattamento. Nel pigmento usato è stata aggiunta una polvere d’oro 22 carati: scelta discutibile, non incidendo sulla resa, ma per me necessaria per rimarcare il valore del tema. Come in altri progetti, la scelta della tecnica è ragionata e non estetica, diventando anch’essa vettore di messaggio. Le fotografie allora, appoggiate su mensole in ottone disegnate appositamente, assumono le sembianze di piccoli lingotti in oro zecchino. Tuttavia, il contrasto con la stampa in bianco e nero e la presenza di immagini di pianto, evocano la coercizione morale esercitata sul soggetto accudente, con l’intento di dissacrare l’opprimente idealizzazione del ruolo genitoriale.

SB: Fai parte del collettivo The Glorious Mothers. Che tipo di attività portate avanti e in che modo questo collettivo informa la tua ricerca?

GI: The Glorious Mothers è un collettivo composto da artiste residenti in Italia accomunate dall’essere madri di figl3 in età scolare o prescolare. Il gruppo attualmente è composto da Sara Basta, Cristina Cusani, Mariana Ferratto, il duo Grossi Maglioni (Francesca Grossi e Vera Maglioni), Giulia Iacolutti, Caterina Pecchioli, Lorena Peris, Dafne Salis e Miriam Secco. Nato informalmente durante il primo lockdown nel 2020 come supporto e confronto tra madri artiste a casa con l3 figl3, il collettivo affronta la questione della maternità e della genitorialità nell’ambito delle arti visive. Il collettivo dà voce alle madri artiste e a chi assume la responsabilità primaria della cura de3 figl3 in Italia, portando la questione della genitorialità nel campo delle arti per sollecitare migliori condizioni di lavoro e spazi più inclusivi e sostenibili. Attraverso un lavoro politico, linguistico e artistico, The Glorious Mothers riflette sulla decostruzione di un immaginario della maternità stereotipato, ancora legato all’istituzione familiare eteronormata, organizzando workshop, talks e la prima residenza italiana per artiste con figl3. Dal 2022, infatti, la residenza è un’opportunità di incontro e ricerca, che integra le attività creative con momenti dedicati a3 bambin3. Nel luglio 2024 la residenza è stata ospitata da Cittadellarte – Fondazione Pistoletto in collaborazione con il dipartimento educativo della fondazione “Ambienti di apprendimento”, dove è iniziato il mio percorso con le Gloriuos (come affettuosamente ci chiamiamo tra di noi).
Diventare parte del collettivo è stato un sospiro di sollievo: è uno spazio di dialogo empatico in cui l’essere madre e artista non è visto come una contraddizione, ma come una coesistenza naturale, che non annulla né compromette l’una o l’altra identità. Non diventa quindi problematico avere Piera, mia figlia, presente durante una riunione; al contrario, la sua compagnia diventa fonte di creatività in una residenza. Farne parte non accredita nessuno dei due ruoli, ma è naturale che il confronto con le altre artiste attivi una rete di supporto, tanto alla ricerca artistica individuale quanto alla propria esperienza di maternità. Uno degli obiettivi è costruire un immaginario che riconosca la genitorialità come parte integrante della vita artistica, eliminando così un grande ostacolo per chi si trova a dover scegliere tra la cura de3 figl3 e lo sviluppo della propria carriera. Offrire uno spazio in cui il lavoro artistico e il tempo per l3 bambin3 possano convivere, è un esempio di come sia possibile ripensare le strutture di supporto nell’ambito culturale. Sono convinta che il collettivo avrà la forza di trasformare un’esperienza condivisa in una piattaforma creativa e politica, e sono felice di apportare il mio piccolo contributo alla nascita di una solida comunità educante, fondata sul dialogo aperto con le istituzioni dell’arte.

SB: Perché la cianotipia è violenta?

GI: La cianotipia è una tecnica fotografica a contatto che prevede l’esposizione di una miscela fotosensibile, a base di sali di ferro, a una fonte di luce ultravioletta. La caratteristica distintiva di questa tecnica è l’immagine in color Blu di Prussia, che viene impressa su carta o su altri supporti. Quando ho iniziato a stampare Casa Azul, ho raggiunto il grado di blu desiderato solo dopo numerosi tentativi su vari tipi di carta, con l’uso di viraggi diversi. Da quel momento, ho trascorso dieci giorni nel laboratorio, chiusa a stampare centinaia di prove. L’impiego di un metodo chimico, l’azione fisica di applicare vari strati di emulsione, e la colorazione giallastra dell’acqua durante il lavaggio, mi davano l’impressione di aver scelto un procedimento che, oltre a essere poco ecologico, risultava anche aggressivo. La trasformazione netta della materia rendeva il processo intransigente e irreversibile; l’immagine era forzata ad imprimersi, a esistere. La cianotipia allora, oltre che per il suo colore, diventava perfetta applicata all’argomento trattato: un tema talmente intriso di violenza non necessitava di un apporto didascalico per avvertirla, erano sufficienti quelle sbavature, quei lividi cianotici che man mano si delineavano sulla carta. Da quel momento, ho iniziato a informarmi sulla tecnica, fino a scoprire che la chimica alla base della cianotipia è indirettamente legata agli stessi principi chimici usati nelle camere a gas naziste. Tanto che alcuni segni blu, attribuiti alla presenza di cianuro residuo, sono stati effettivamente rinvenuti sui muri delle stanze in cui venivano effettuate le esecuzioni. Probabilmente, come scrive Primo Levi proprio nel capitolo sul ferro, in Il sistema periodico (Einaudi,1975): “…comprendere la materia è necessario per comprendere l’universo e noi stessi”. 

SB: Come definiresti il tuo metodo di lavoro? 

GI: relazionale, orizzontale, collaborativo, verbale, transdisciplinare, comunitario, politico. Con una grande attenzione verso la forma, intesa come vettore rappresentativo di ciò che normalmente resta invisibile (una dinamica di gruppo, una situazione sociale, un accrescimento della consapevolezza, etc…). 

Cover: Giulia Iacolutti, I don’t care (about football), stampa fine art ai pigmenti di carbone su carta cotone Fotospeed Platinum Cotton, 2023

Giulia Iacolutti, I don’t care (about football), exhibition view, Studio Tommaseo, Trieste 2021
"Senza distruggere l’eredità del passato, anzi, consapevoli di essere le eredi di chi della militanza femminista ne ha fatto una missione di vita, forse il tempo della denuncia con l’arte, o della fotografia come strumento di testimonianza, è passato, forse più che mai oggi bisogna “stare” attraverso l’arte." Giulia Iacolutti
THE GLORIOUS MOTHERS , Dialogue Towards a Manifesto, residenza artistica con figli3 di The Glorious Mothers presso Cittadellarte Fondazione Pistoletto, Biella 2024