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New Photography | Intervista con Andrea Botto

“Una ecologia della fotografia non si attua attraverso la cancellazione delle immagini o di certe immagini perché le consideriamo troppe o dannose, ma può derivare solo dall’aumento della capacità di selezione e di immaginazione. E ogni mezzo può essere utile, se usato consapevolmente.” Andrea Botto

Per la rubrica New Photography, Sara Benaglia ha intervistato Andrea Botto

Sara Benaglia: In Italia non sono stati molti i produttori di pellicola fotografica. Tra di essi spicca, anche per la sua storia dei materiali, FILM Ferrania S.r.l. L’azienda nasce come Società Italiana Prodotti Esplodenti nel 1882 a Cengio, in Liguria. Anni dopo attua una riconversione industriale da produzione di materiale bellico a fotografico. Che cosa sai di questa storia?

Andrea Botto: Mi pare una storia perfetta per la rubrica “Forse non tutti sanno che…” della Settimana Enigmistica, con alcuni risvolti inaspettati. Il Dinamitificio Barbieri di Cengio, in Val Bormida, fu tra le prime aziende in Italia a sfruttare l’invenzione di Alfred Nobel per produrre dinamite, nitroglicerina e polvere pirica. Nel 1906 viene acquisita dalla S.I.P.E. Società Italiana Prodotti Esplodenti che vi produrrà TNT per il Regio Esercito Italiano, impiegato nella guerra coloniale in Libia. Con l’avvento della Prima Guerra Mondiale si apre un nuovo stabilimento a Ferrania, sempre in Val Bormida, dove si produce nitrocellulosa per l’Esercito Russo. Al termine del conflitto, lo stabilimento di Ferrania viene riconvertito alla fabbricazione di celluloide per pellicole cinematografiche, radiografiche e fotografiche, mentre a Cengio nasce ACNA che, pur continuando a fabbricare materiale bellico fino agli anni ‘40, diviene il luogo dove si produrranno coloranti e vernici per l’intero fabbisogno nazionale. Ciò porterà ad una delle più gravi storie di inquinamento ambientale del secondo dopoguerra, con la nascita della prima vera battaglia ambientalista italiana negli anni ’80 e la conseguente chiusura dell’impianto, con una lunga e difficile bonifica ad oggi ancora da completare. Aggiungo due coincidenze personali. La S.I.P.E. fu fondata da Ferdinando Quartieri, imprenditore e filantropo, promotore dell’industria chimica in Italia, originario di Bagnone, provincia di Massa-Carrara, in Lunigiana. Poco lontano, a Fivizzano, era nato Giovanni Gargiolli, fondatore del Gabinetto Fotografico Nazionale. Nelle stesse zone ha radici parte della mia famiglia e nel 2013 ho partecipato al progetto artistico Atlas Bormida.

SB: Materialmente parlando, che cosa hanno in comune dinamite e fotografia?

AB: A livello chimico, polvere da sparo, dinamite e fotografia hanno in comune un elemento fondamentale: il nitrato. La polvere contiene il nitrato di potassio, che fornisce l’ossigeno necessario alla combustione, la dinamite è basata sulla nitroglicerina, un composto esplosivo derivato dall’acido nitrico e nelle prime tecniche fotografiche veniva impiegato il nitrato d’argento per rendere fotosensibili le superfici. I nitrati sono quindi essenziali per tutti questi processi di combustione, esplosione e sensibilità alla luce. Inoltre, le ricerche di Nobel sulla nitroglicerina contribuirono anche allo sviluppo di sostanze chimiche impiegate in fotografia, come i composti a base di nitrati e nitrocellulosa. Possiamo inoltre dire che dinamite e fotografia sono entrambe figlie, quasi gemelle, della Rivoluzione Industriale e strumenti al servizio di tutte le ideologie che hanno attraversato la modernità.

SB: Ci saranno stati incidenti sul lavoro legati alla produzione di pellicole fotografiche?

AB: Certamente sì! La pellicola trasparente Kodak lanciata nel 1889 da George Eastman si basava sulla celluloide, un materiale ottenuto dalla nitrocellulosa derivata dalla pirossilina, una sostanza altamente infiammabile usata normalmente per la produzione degli esplosivi. Le prime pellicole erano molto instabili, tanto da prendere fuoco spontaneamente se conservate male. Questo provocò numerosi incendi in cinema e archivi, fino all’introduzione negli anni ’40 della pellicola di sicurezza in acetato di cellulosa. Durante alcune ricerche di archivio, ora non ricordo se proprio a Ferrania o altrove, mi ero imbattuto in un articolo di una rivista fotografica che con il titolo “Pellicole esplosive?” riportava la cronaca della morte di un chimico di Torino, credo negli anni ’60, per l’esplosione del suo laboratorio, fatto analogo ad un altro avvenuto precedentemente al Politecnico di Zurigo. Si diceva che questi tecnici stessero ricercando una valida alternativa al bromuro o alogenuro d’argento, veicolo insostituibile per la produzione dell’immagine fotografica. Sembra che i risultati migliori li avessero dati alcune sostanze altamente esplosive, forse i picrati, che però potevano avere controindicazioni letali.

SB: Non ci sarebbe stata storia della fotografia senza l’estrazione di minerali, argento e rame in primis, l’uso di petrolio etc. Mentre la fotografia di paesaggio ritrae questo “soggetto” la materia di cui è composta lo distrugge. Nel tuo lavoro hai mostrato questa contraddizione in maniera piuttosto esplicita.

AB: Hai ragione e penso che l’estrattivismo sia un altro punto in comune tra dinamite e fotografia, riferito a diversi aspetti: sfruttamento delle risorse, oggettivazione della Natura o dei soggetti, relazioni di potere. Entrambi i processi, minerario e fotografico, possono essere visti come forme di distruzione creativa e nel mio lavoro cerco di affrontarli in maniera non ideologica, ma rigenerativa. La distruzione indotta da un’esplosione, per quanto devastante, è plateale e riconoscibile. Più subdola e decisamente meno percepibile è quella che può avvenire attraverso le immagini, dalla loro sovrabbondanza che riduce proporzionalmente la nostra capacità immaginifica di produrne altre diverse, ma soprattutto dalla loro mancanza per alcuni soggetti, che in questo modo è come se non esistessero. Paradossalmente, al momento questa è la parte che mi interessa di più.

SB: Anche il flash delle macchine fotografiche usate fino agli anni ’60 era intriso di nitrocellulosa, la stessa usata per la produzione di pellicola fotografica…
AB: Nel caso dei primi sistemi di luce flash si trattava di una cosa diversa, un lampo prodotto da una miscela di polvere di magnesio, clorato di potassio e solfuro di ammonio. Prima della scoperta di questa formula i fotografi avevano mescolato senza successo diverse sostanze chimiche, compresa la polvere da sparo, con conseguenze pericolose e perfino mortali.Inoltre, alcune delle prime illuminazioni artificiali provenivano direttamente dall’ambito militare, come la luce di Drummond e il bengala.I primi risultati con il magnesio risalgono al 1863 a Manchester, dove il minerale veniva lavorato. Nel 1887, i tedeschi Gädicke e Miethe ottennero una miscela stabile e sicura, che brevettarono l’anno successivo pubblicando una guida pratica all’uso, che divenne molto popolare, anche grazie alla successiva disponibilità di nastri di magnesio venduti in comodi contenitori, alcuni a forma di pistola come “The Pistol Flashmeter”. Si dice che la prima fotografia realizzata con un lampo al magnesio sia stata fatta ad un minatore nella Blue John Mine in Derbyshire. Forse non è un caso…

Magnesium ribbon holder (The Pistol Flashmeter), 1910s, maker unknown. Purchased 1999 with New Zealand Lottery Grants Board funds. CC BY-NC-ND 4.0. Te Papa (GH007825)
Miner working inside the Comstock Mine, Virginia City, Nev. Taken by Timothy O’Sullivan using the glare of burning magnesium 1867-68 U.S. National Archives

SB: Il caso studio della FILM Ferrania S.r.l., ma anche quello delle scatole di nastro di magnesio vendute dalla Kodak, sono interessanti perché attraverso la loro storia possiamo guardare la fotografia non come ad un processo di rappresentazione, ma ad un processo materiale. La fotografia è stata, ed è ancora, il veicolo geologico dell’industria culturale. Kate Crawford lo ha mostrato in modo ineccepibile rispetto all’AI e ai nostri schermi onnipresenti. Ma minare la fotografia è un’operazione complessa e non ben voluta perché mette in luce i legami coloniali, estrattivisti alle fondamenta di un mezzo che trova forse ora il suo ingresso riconosciuto tra le forme d’arte collezionabili (sì, parliamo di musei e patrimoni). Perché stiamo alla larga da questa analisi e/o ricordi se nel corso della storia della fotografia ci sia stato qualcun3 ad addentrarsi in questo percorso?

AB: La fotografia è assolutamente un oggetto materiale e lo rimane tutt’oggi, forse a maggior ragione, anche quando l’immagine sembra perdere la sua fisicità per diventare virtuale. Da questo punto di vista, il filosofo Maurizio Ferraris nel suo libro Manifesto del nuovo realismo lo aveva evidenziato: “Ben lungi dall’essere fluida, la modernità è l’epoca in cui le parole sono pietre e in cui si attua l’incubo del ‘verba manent’. Abbiamo insomma, dal punto di vista ontologico, una moltiplicazione di oggetti sociali e dunque, esattamente al contrario di quello che ritenevano i postmoderni, un incremento di ‘realia’ piuttosto che una derealizzazione.” Inoltre, come ci ha insegnato Ando Gilardi, quella della fotografia è assolutamente una storia sociale, più che visuale. E lui è stato senz’altro uno di quelli che ha provato a minare il sistema fotografico dall’interno… Piuttosto che demolire la fotografia tout-court, credo sia però più intelligente agire in maniera selettiva e chirurgica nei confronti di certi usi che ne sono stati fatti, soprattutto nel Novecento, o certi atteggiamenti. Dico questo perché, come in altri campi, legittimi e necessari processi di studio, revisione o cambiamento non rischino di buttare, come si dice, il bambino con l’acqua sporca. Kate Crawford ha assolutamente ragione e aggiungo che il termine “mining”, riferito allo sfruttamento dei dati o alla produzione di criptovalute, mi sembra quantomai appropriato. Recentemente, c’è stata una interessantissima mostra prodotta dal museo MK&G di Amburgo, Kunst Haus Vienna e Gewerbemuseum Winterthur, curata da Boaz Levin e Hester Ruelfs, dal titolo Mining Photography. The Ecological Footprint of Image Production, con un bel catalogo edito da Spector Books. Attraverso un approfondito apparato storico-critico e i lavori di alcuni autori contemporanei, il progetto analizza la storia materiale del medium fotografico e le sue implicazioni/ricadute sull’attuale crisi climatica. Sono poi usciti diversi saggi che parlano apertamente di una ecologia della fotografia e ricordo un approfondimento tematico su Il Giornale dell’Arte nel 2023. Forse non c’è ancora abbastanza diffusione, ma non credo che si stia alla larga da questa analisi, anzi, e certamente vanno in questa direzione le molte citazioni di scritti o ricerche, come ad esempio quelli di Allan Sekula, Martha Rosler e altri che avevano evidenziato in passato alcune criticità del medium, seppur in modi e tempi diversi. Forse sbagliamo a guardare queste ed altre questioni da una prospettiva solo italiana, dove senza dubbio patiamo un congenito ritardo culturale e strutturale, ma non mi sento di essere pessimista.

SB: La pellicola fotografica è organica e deperibile. Prima scrivevi del fatto che la pellicola al nitrato di cellulosa correva il rischio di autocombustione. Per questo nel 1934 viene introdotta la safety film, mentre negli anni ’80 sono state introdotte le pellicole in poliestere. Le hai sperimentate tutte nel tuo lavoro? 

AB: Certamente ho sperimentato quelle in poliestere, ma ho un ricordo piuttosto nitido della scritta safety film impressa insieme al marchio Kodak sulle pellicole 8mm o su alcuni negativi più vecchi. Quelle al nitrato le ho conosciute solo attraverso certi film, come ad esempio Bastardi senza gloria di Quentin Tarantino, in cui le pellicole vengono usate per appiccare l’incendio finale.

SB: Se guardiamo, per esempio, alla fotografia di Ghirri e al viraggio rosaceo delle sue immagini, c’è una corsa per cercare di bloccare la loro mutazione, per salvarle. Se fosse possibile ci sarebbe chi le purificherebbe, per farle tornare a prima dell’uso di quel fissante da parte di Ghi… Ma, in fondo, salvare le immagini è anche salvare patrimoni. Potremmo, invece, pensare di inglobare il deterioramento materico come una forma estensiva dell’organicità fotografica? Quali conseguenze avrebbe tutto questo nella nostra concezione di immagini e autor3?  
AB: Il viraggio magenta di certe stampe a colori, soprattutto degli anni ’70 che appare via, via nel tempo, era dato normalmente dal deperimento o mancata rigenerazione dei bagni chimici dove venivano sviluppate le stampe, in particolare della sbianca che serve a fissare l’immagine. Accadeva spesso nei laboratori non professionali o industriali, dove si guardava più alla quantità e certamente non era il caso di Arrigo Ghi. Lui divenne famoso per un tipo di finitura, che anch’io ebbi modo di sperimentare sul finire degli anni ’90. Sulle stampe a colori su carta lucida veniva applicata una vernice a spruzzo opaca, permettendo di avere la brillantezza e l’incisione dei dettagli della carta lucida, ma con un bellissimo effetto opaco. In alcuni casi, questa patina poteva dare nel tempo una leggera dominante gialla, se le stampe non venivano conservate nella maniera corretta. Ed è proprio questo il punto. Ogni supporto o materiale subisce un inevitabile deterioramento che è parte dell’oggetto opera e che credo sia giusto accettare per quello che è. Pensiamo ad esempio all’arte antica, che abbiamo conosciuto attraverso le rovine, alle screpolature sulla superficie di certi dipinti o certe fotografie “rovinate” dall’umidità o dai segni del tempo divenute opere perché riconosciute e risemantizzate da qualche artista. Ma mi spingerei anche oltre, con le enormi differenze cromatiche, di scala o percettive nel momento che fruiamo un’opera su diversi schermi lcd. O cosa dire della conservazione di tutti quei supporti che materialmente contengono i dati di tutte le nostre immagini digitali e non solo, a rischio essi stessi di distruzione, cancellazione o perdita? Salvare le immagini non è solo salvare patrimoni, ma in qualche modo significa salvare il mondo, soprattutto se quello che è ritratto è irrimediabilmente perduto o sta per scomparire per sempre. Certo possono esserci controindicazioni e paradossi. A questo proposito, credo sia utile citare Olivier Lugon e il suo libro Lo stile documentario in fotografia: “La volontà di salvaguardare un patrimonio minacciato, per quanto profonda, non ha mai portato i fotografi a battersi per cercare di tutelare l’esistenza degli oggetti che mostrano oppure a concepire le proprie immagini come strumenti per convincere qualcuno di tale necessità. Le opere documentarie non sono pensate come stimoli a conservare, sono loro stesse questa conservazione.”

Archivio Italesplosivo dal libro KA-BOOM The Explosion of Landscape
Andrea Botto, Carburo di calcio, Museo IRE, Parma dal libro KA-BOOM The Explosion of Landscape

SB: Non è insolito che in un mondo digitale in cui c’è sovrapproduzione massiva di immagini diverse persone e student3 tornino all’analogico con un atteggiamento romantico e nostalgico. In realtà farlo somiglia a correre all’indietro nella tavola periodica, da elementi industrializzati oggi a materiali industrializzati ieri. Dal silicio all’argento. Dal titanio alle cartilagini nelle ossa di mucca. Questo “botox” fotografico è veramente ecologico?

AB: Sinceramente non so dirti se l’impronta ecologica della fotografia chimica sia maggiore o minore rispetto alle immagini digitali o di sintesi, ma è vero che assistiamo ciclicamente ad atteggiamenti nostalgici, per non dire reazionari, nei confronti delle nuove tecnologie. Non ho nessuna preclusione o preconcetto nei confronti sia del processo analogico, che peraltro in parte continuo ad usare, sia delle immagini generate da prompt. Sono mezzi e in quanto tali li uso per il risultato che voglio ottenere o che mi possono dare. E non mi interessa nemmeno la discussione se queste siano o meno ancora delle fotografie. Anzi, mi fa un po’ sorridere sentire colleghi o colleghe, anche recentemente, affannarsi in mille distinguo ontologici, che vorrebbero legittimare o definire una “vera fotografia” da altro che secondo loro non lo sarebbe, dimenticando che non solo non c’è nulla di più falso della fotografia analogica, ma direi anche che non c’è nulla di più falso della fotografia! La mia opinione a riguardo, allo stato attuale, è che anche le immagini generate, derivando da dataset di immagini varie comprese fotografie, conservino in qualche modo un precipitato di realtà, né più né meno di una cosiddetta vera fotografia. Cito ancora Ando Gilardi: “L’immagine di un’immagine è sempre immagine.” E, alla fine, tutte queste belle discussioni sembrano un po’ il gioco delle tre carte. Si dice che si ritornerebbe all’analogico in cerca della sua imperfezione, dell’errore, di una maggiore materialità. Probabilmente è vero, come negli anni ’90 (me lo ricordo, perché c’ero) si usava l’estetica low-fi delle ancora acerbe tecnologie digitali come reazione all’estrema perfezione di certe fotografie analogiche, a quello sguardo che già Ghirri aveva definito “onnivoro e anche un po’ pornografico”. Da quel che vedo, non mi sembra che le cosiddette sintografie siano così perfette o che sia così semplice ottenere risultati di livello, che vadano oltre la semplice resa estetico/pittorica spesso nostalgica. E non potrebbe essere altrimenti, visto che si pesca da un immaginario già passato, sedimentato e stereotipato. Una ecologia della fotografia non si attua attraverso la cancellazione delle immagini o di certe immagini perché le consideriamo troppe o dannose, ma può derivare solo dall’aumento della capacità di selezione e di immaginazione. E ogni mezzo può essere utile, se usato consapevolmente.

SB: Lavori ancora in camera oscura? E se sì, di quali materiali sono composti il bagno di sviluppo e di fissaggio che utilizzi oggi? Chi li produce? 

AB: Ho lavorato per molti anni in camera oscura, stampando in bianco e nero non solo per me, ma ho abbandonato quel processo ormai una ventina di anni fa e non mi sono più aggiornato sui materiali, pur conoscendo e immaginando la grande difficoltà di reperimento, visto che più o meno tutti i produttori storici sono scomparsi. Conservo ovviamente un bellissimo ricordo di quella esperienza che è stata assolutamente formativa, anche rispetto ai procedimenti digitali.

SB: Il processo di stampa di fotografie a getto d’inchiostro comporta l’uso di materiali diversi da quelli usati in camera oscura. In questo passaggio storico per cui la fotografia digitale somiglia sempre più alla grafica e diventa soft la chimica è davvero scomparsa? In che modo questa mutazione dell’ambiente di lavorazione dell’immagine impatta sull’idea di fotografia in sé?

AB: Pensare che la chimica sia scomparsa solo perché non si stampa più in camera oscura è assolutamente illusorio. Certamente si stampa molto meno che in passato, ma abbiamo già detto che l’apparente smaterializzazione delle immagini, ha una contropartita molto materiale altrove, nei processi di elaborazione e conservazione dei dati. Gli inchiostri ai pigmenti contengono varie sostanze solide polverizzate e disciolte nel liquido legante, con l’aggiunta di solventi, fissanti, eccipienti e resine. Esistono anche dei pigmenti a base di carbone, per la stampa di immagini bianco e nero di grande qualità. Le carte continuano ad essere a base di fibra naturale o politenate, proprio come in passato, anche se ne esistono di moltissime varietà e finiture. Quelle cosiddette fine-art sono di cotone o alfa-cellulosa e non contengono cloro, lignina o acidi. Nel caso delle baritate, viene applicato un sottile strato superficiale di solfuro di bario, lo stesso coating utilizzato nelle classiche carte all’alogenuro d’argento. Nelle politenate la base di carta è compressa tra due fogli di polietilene con una finitura microporosa sul lato di stampa. Anche qui vale quello che dicevo in precedenza sui prompt. Non è detto che all’estrema facilità di accesso ad un processo corrisponda sempre un’elevata qualità dei risultati. Anzi, aumenta piuttosto il rischio di cadere in una deriva pittorialista o vanamente estetica. Mi pare che Jeff Wall anni fa avesse sottolineato come dalla fotografia analogica a quella digitale avessimo perso tutta la parte liquida. Da questo punto di vista credo che la fotografia digitale sia tutt’altro che soft, ma risulti molto hard e dry.

Cover: Andrea Botto, Underground Blast #03, Brenner-Base-Tunnel, 2020, courtesy Cartacea Galleria e Ghella

Andrea Botto, Ferrania, 2014
Andrea-Botto, Experiment #02, 2019, courtesy Cartacea Galleria