Per la rubrica New Photography, Sara Benaglia e Mauro Zanchi hanno intervistato Alessandro Truffa —
Sara Benaglia +Mauro Zanchi: Nella tua pratica artistica la fotografia è uno strumento di ricerca privilegiato, ma non esclusivo. Quanto nei tuoi progetti interdisciplinari l’immagine fotografica è conoscenza e quanto residuo di una pratica che è indagine del reale? La fotografia contribuisce a far apparire nuove rivelazioni attraverso la ricerca per immagini o interferisce con un più complesso porsi rispetto al flusso della realtà?
AT: Il legame tra il mezzo fotografico e la conoscenza mi ha sempre affascinato profondamente e lo considero come la scintilla alla base della mia pratica artistica. Sebbene la fotografia sia il mio strumento privilegiato, il mio interesse si estende alle potenzialità conoscitive dell’immagine in senso lato, soprattutto rispetto e in relazione alla parola. Bataille, riflettendo sulle differenze epistemiche tra linguaggio verbale e visivo, affrontava la violenza insita nell’associare un attributo universale a un soggetto individuale. Se questa forma illusoria di conoscenza porta ad una perdita di somiglianza, le immagini, al contrario, possiedono invece una maggiore capacità di apertura dialettica. Nei miei progetti, la fotografia diventa un ponte per tradurre o mettere in dialogo varie forme di sapere, ma il risultato resta inevitabilmente aperto e ambiguo, poiché sempre frutto di un processo di prelievo e ricontestualizzazione. La ricerca è sempre il mio punto di partenza, ma concepisco la fotografia come un linguaggio autonomo, capace di produrre significati propri e di aprire varchi nelle nostre certezze. L’arte ha il potere di incuriosire e di affascinare ed è questo il suo fuoco. Si dice, infatti, ‘’subire il fascino’’ perché quando siamo affascinati da qualcosa smettiamo di avere il controllo, diveniamo più vulnerabili rispetto a quando proviamo un semplice interesse.
SB+MZ: 432 Hz (2023-in corso) è un progetto in cui i tuoi studi sugli impollinatori ti portano a considerare la relazione tra conoscenza e pregiudizi antropocentrici sul regno animale, in particolare delle api. In che modo simulazione e realtà, pseudoscientificità e fiction, ti hanno portato a spingere il limite fotografico verso il suono?
AT: Il progetto è nato da un incontro per certi versi epifanico, in cui mi sono imbattuto nell’esperimento di un ricercatore che stava scrivendo la sua tesi sul canto delle api regine. Aveva ricreato una situazione ad hoc, utilizzando un’arnia in cui la traccia audio della voce animale era mandata in loop. Il setting e l’effetto prodotto mi avevano affascinato molto e svolgendo delle ricerche avevo poi scoperto che alcuni blog di apiari olistici sostengono che la frequenza del canto delle api regine e il ronzio dell’alveare emettono una frequenza di 432 Hz, un valore che si ritiene potenzialmente in grado di influire sul benessere del corpo umano. Non si tratta, tuttavia, di una verità scientifica, in quanto le frequenze di questi suoni animali sono molto più instabili, sebbene non lontanissime da questo valore. Mi sono chiesto se il dato matematico fosse davvero importante e se non rischiasse di diventare un limite nell’immaginare nuove forme di coesistenza multispecie. Ho, quindi, deciso di orientare la mia ricerca nell’ambito del possibile, piuttosto che optare per il racconto del reale, per quanto, devo ammettere, la realtà si dimostri spesso non così lontana dalla fantasia.



SB+MZ: In 432 Hz c’è uno sforzo, una tensione, nel passare dal “pensare come le api” al “pensare con le api”. In che modo la fotografia può fare da ponte tra queste sfere? Quanto la fotografia può allontanarsi dall’umano?
AT: Il tema del linguaggio animale è qualcosa che mi affascina molto per la componente di mistero che possiede. Eva Meijer in Linguaggi animali riflette proprio sull’importanza di studiare le forme di comunicazione animale, considerando l’etologia come una disciplina in grado di aiutarci a immaginare nuove forme di comunità e relazione con il non umano. Mi piace l’idea di pensare alla fotografia come ad un linguaggio per provare a tradurre visivamente quanto sappiamo o possiamo immaginare di sapere sulla percezione animale del mondo. Sono, tuttavia, cauto nel ritenere che possiamo davvero imparare ad esperire la realtà allontanandoci in maniera significativa dalla nostra postazione umana di osservazione. In ogni caso, se da un lato le immagini sono sempre il frutto di forze ideologiche e istituzionali che plasmano la nostra visione, dall’altro la fotografia ha il potere di ridefinire il pensiero e l’agire umano, agendo in modi stratificati e sotterranei di cui spesso non siamo pienamente consapevoli. Le immagini cambiano le idee e la percezione che abbiamo del mondo e produrle è sempre un atto di forte responso-abilità (Donna Haraway, Chtulucene, NERO, Roma 2019). Oggi penso sia urgente iniziare un processo di decostruzione sui modi troppo umani con cui pensiamo e ci posizioniamo nel mondo, perché troppo a lungo nella storia abbiamo utilizzato la valenza di un solo punto di vista privilegiato per giustificare atti di violenza e oppressione.
SB+MZ: Prima di rivolgere i tuoi studi verso la coesistenza con altre forme di vita, hai dedicato la ricerca a tradizioni e forme rituali dei luoghi del Piemonte di cui sei originario. Fuoco contro fuoco (2020-22) ne è un esempio, in quanto traduce la pratica di cura del fuoco di Sant’Antonio da parte di una guaritrice. In che modo un rituale, con le segnature, entra in dialogo con il fotografico?
AT: In Fuoco contro fuoco ho indagato le tracce di un rituale di medicina omeopatica praticato da una guaritrice che ha il dono di aiutare le persone affette dal fuoco di Sant’Antonio, utilizzando solamente uno scopino di saggina scaldato sulla fiamma del camino. La fotografia, all’interno di questo progetto, si è rivelata essere lo strumento ideale per rendere visibile qualcosa di impalpabile, ma molto prezioso: le varie tipologie di segnature praticate dalla guaritrice per lenire il fuoco a seconda della sua morfologia cutanea. Mi riferisco, in particolare, alla tecnica della fotografia off-camera, praticata senza l’ausilio della macchina fotografica, ma solamente con la carta fotosensibile e i chimici da stampa. Un ritorno alla grammatica essenziale del medium. Sia il rituale in questione sia la fotografia stessa si basano, infatti, su un medesimo principio di fondo: quello dell’impronta e del contatto. Così come la carta o la pellicola fotografica reagiscono alla luce e ai chimici da stampa, la pelle infetta, nel rituale, reagisce ‘magicamente’ al contatto per sfregamento con lo scopino di saggina. La richiesta alla guaritrice è stata, quindi, quella di intingere lo scopino nei chimici fotografici, segnando la carta fotosensibile come se fosse pelle infetta. In questo processo la fotografia è stata per me come un ponte, uno strumento relazionale per entrare maggiormente in dialogo con la pratica rituale, introducendo la competenza specifica della guaritrice all’interno del progetto. Il fulcro del suo sapere, infatti, è proprio la capacità utilizzare il tipo di segnatura specifico in grado di curare quella tipologia di manifestazione cutanea della malattia. Non a caso alcuni antropologi definiscono le guaritrici ‘’donne dei segni’’.


SB+MZ: Come altri tuoi progetti anche Boja Fauss (2022-23) mostra un legame con la narrazione, la pseudo-storia e un interesse verso una verità che diventa finzione. In che modo la storia dell’ultimo boja di Torino si intreccia con quella del pancarré e come hai trattato le tracce di una leggenda popolare, per certi versi diventata anche bestemmia?
AT: Questo lavoro si è originato nel momento in cui mi sono imbattuto in una curiosa leggenda della città di Torino, facente riferimento alla genesi del pancarrè come prodotto di una protesta popolare dei panettieri cittadini. I fornai di Torino, secondo questa voce di corridoio, avrebbero iniziato a porgere il pane al contrario al boja quando lo ricevevano come loro cliente. Si tratta di un gesto che ha chiaramente a che fare con la superstizione popolare che vede nel pane al contrario una forma di malocchio. Successivamente, in seguito al divieto delle autorità di compiere questo atto discriminatorio, i panettieri avrebbero forgiato una tipologia di pane apposita per il boja: il pancarrè, appunto. Uguale sia sopra che sotto questo blocco quadrato di pane occultava il lato di cottura e poteva essere servito capovolto, esercitando così il suo potere esoterico. Il titolo del lavoro Boja Fauss riprende la tipica espressione della tradizione torinese che letteralmente si traduce come ‘Boja Falso’ e che incarna l’odio popolare verso questa figura. Se oggi è un’espressione molto pop, in realtà è probabilmente nata come sostitutivo della bestemmia, in tempi in cui nominare Dio invano era punito molto severamente. Allo stesso modo il pane, emblema di condivisione e di ospitalità, subisce, in questa leggenda, un ribaltamento concettuale che mi è sembrato sintomatico del trauma sedimentatosi nella memoria collettiva a causa dei rituali di giustizia.
SB+MZ: Nei tuoi progetti appaiono immagini prodotte non solo da te, ma anche da altri soggetti (comunità, persone). Come vivi questa pratica? Come una collaborazione o come un modo per non imporre la tua visione, anche staccandoti da una pretesa di “proprietà intellettuale” sulle idee?
AT: Per cercare di rispondere mi riecheggia in mente un dialogo tra Eduardo Khon e l’attivista e guaritore Sapara Manari Ushigua, dove quest’ultimo aveva affermato che: “I concetti non devono provenire dal punto di vista di un solo individuo, ma dai molti punti di vista che sorgono dall’insieme di più persone, di più culture e persino di più nazioni. L’importante è che la conoscenza nasca sempre dalla pluralità” (Eduardo Khon, Come pensano le foreste, nottetempo, Milano 2021, p.33.). L’inclusione di immagini d’archivio o prodotte da terzi è qualcosa che intendo non come semplice inserimento, ma come parte integrante della ricerca e della sua stratificazione. Ho sempre considerato la conoscenza come qualcosa di più simile ad un processo in continuo divenire che ad un risultato finito e definito. Quanto più questo processo riesce a rendersi stratificato e contaminato, tanto più in profondità può arrivare. Credo che, in qualche modo, il mio lavoro sia sempre volto a cercare connessioni tra più linguaggi, intrecci tra più tematiche, dialoghi tra più sguardi. Le immagini non nascono mai in isolamento, ma da processi di ricerca condivisi, e la fotografia – sebbene nasconda un limite retinico poiché è sempre il frutto della visione soggettiva di un autore – offre la possibilità di costruire dei dialoghi per immagini.
SB+MZ: Sia Fuoco contro fuoco sia Boja Fauss (2022-23) mostrano una tua relazione privilegiata con il libro. Quali potenziali trovi in questo mezzo?
AT: Sia il libro sia la fotografia sono per me dispositivi dotati di una propria grammatica e di una serie di possibilità di sperimentazione che mi incuriosisce esplorare. Entrambi i lavori in questione sono stati pensati fin da subito per avere la forma editoriale, ma gli esiti sono stati molto diversi. In Fuoco contro fuoco, incuriosito dalla questione dell’instabilità della memoria e del tramonto delle forme rituali, avevo posto delle domande alla guaritrice per capire meglio come si relazionasse all’eredità e alla memoria del rituale. Il formato del libro era venuto in mio aiuto per fissare su carta, quindi su un supporto stabile e duraturo nel tempo, i racconti che avevo sentito dalla guaritrice e la ricerca visiva prodotta. In Boja fauss ho esplorato una dimensione più scultorea dell’oggetto libro, in cui il lettore, per vedere le immagini fotografiche, è costretto a compiere un taglio sulle pagine, un gesto al tempo stesso violento e rischioso. L’aspetto scultoreo era, del resto, centrale nel progetto, perché il pane è sempre il risultato di un processo di modellazione intenzionale che gli conferisce una forma e la forma è sempre qualcosa che veicola significati.


SB+MZ: Qual è il ruolo dell’estetica artistica in un mondo sempre più dominato dagli algoritmi e dalle AI generative? Come muta il medium fotografico alla luce di questi cambiamenti innescati da un dispositivo tecnologico rivoluzionario? Questa sfera intercetta la tua ricerca o no?
AT: Le AI generative, sebbene non ancora infallibili sul piano mimetico, sono in grado di produrre immagini fotorealistiche in tempi estremamente rapidi. Dal punto di vista semiotico sono, a mio avviso, più vicine alla pittura che alla fotografia. Non necessitano, infatti, di un referente reale, quindi di quella presenza fisica che permette il principio di impronta alla base del fotografico. Per generare immagini alle AI basta attingere ai dataset digitali già esistenti. Il loro legame con questo gigantesco inconscio visuale consente alle AI di estrapolare pixel e creare forme. Se già la pittura aveva dato prova, con il movimento del fotorealismo, di una capacità puramente mimetica del reale, ciò che, secondo me, determina oggi il successo delle AI sono le caratteristiche di: facilità di uso, accessibilità a più user e rapidità di produzione. Il ruolo dell’estetica artistica penso rimarrà invariato, continuerà ad essere quello di scardinare convinzioni, suscitare domande e mettere in discussione credenze. Soprattutto riguardo a quello che oggi è l’inconscio tecnologico di dataset utilizzato come riferimento dalle AI: nuovamente frutto di un punto di vista specifico e privilegiato, ma – ancora una volta e inevitabilmente – non esaustivo. Si tratta di un aspetto che finora non è ancora entrato nella mia ricerca, ma non escludo possa introdursi in futuro.
SB+MZ: Come cambiano i concetti di originalità e autenticità nell’era dell’intelligenza artificiale?
AT: Se ci riferiamo ai termini benjaminiani di originalità e autenticità io credo siano caduti appunto già con l’avvento dell’epoca della riproducibilità tecnica. Per questo fatico a vedere oggi le AI come un vero e proprio punto di rottura. Se oggi temiamo gli effetti della tecnologia che abbiamo prodotto è perché viviamo in tempi in cui il cambiamento sembra più rapido del nostro modo di percepirlo. Riferendosi ad alcuni video deepfake – generati tramite AI nel 2017 e apparsi per la prima volta su Reddit – David Levi Strauss aveva riflettuto su come, di fronte ad nuova tecnologia che comporta la manipolazione di immagini tecniche, si scatenino sempre reazioni legate all’avvento di un orizzonte di postverità in cui non è più possibile credere ai nostri stessi occhi: “la verità è che le fotografie sono sempre state manipolate e falsificate, cambiano solo i metodi. […] Credere è un’azione transitiva, presuppone una volontà” (David Levi Strauss, Perché crediamo alle immagini fotografiche, Johan & Levi, Milano 2021, p. 63). Culturalmente abbiamo un disperato bisogno di “credere a quello che vediamo” e di “vedere per credere”, ma probabilmente ci troviamo, già da tempo, dentro la caverna di Platone.
SB+MZ: In questo periodo stai lavorando a un nuovo progetto?
AT: A breve partirò per una residenza artistica nella Dalby Forest e spero sia l’occasione per scoprire di più sulle pratiche ecologiche e ambientali portate avanti in quell’area da Forestry England. Si tratta di un progetto molto bello che ho ricevuto come premio, l’anno scorso, per la mia partecipazione come finalista a Giovane Fotografia Italiana – Premio Luigi Ghirri e che è reso possibile grazie ad una rete di partner tra cui Photoworks e l’Istituto Italiano di Cultura di Londra.
Cover: Alessandro Truffa, 432 Hz, 2023 – ongoing

