Testo di Lorenzo Madaro —
Osservando le opere di Nero/Alessandro Neretti (Faenza, 1980) nella sua personale Busted bonds and broken bones in corso a Palazzo Baccin di Nove fino al 30 settembre (a cura di Nena Agosti), affiora una specifica attitudine che appartiene intrinsecamente alla sua pratica: Nero è un osservatore famelico, in grado di guardarsi tenacemente attorno con un fare plurale, che include rapporti simbiotici con gli spazi in cui agisce, palesando storie e congiunzioni con forme e luoghi. Osserva e preleva, ingloba in un possibile archivio interno, sempre in divenire.
Nero difatti è un catalogatore seriale di visioni e spazi, di grammatiche visuali e di intimi corpo a corpo con la materia (anzi, con le materie) ed oggi che ha alle spalle ormai un lungo esercizio nel campo della produzione artistica e delle mostre, tutto questo processo appare non solo concentrato e sistematico, ma anche coeso nella sua pur sfacciata e intenzionale disuguaglianza. Nero è tanti artisti insieme, e questa sua ossessiva pluralità, a ben guardare da una torre di avvistamento ravvicinata e quindi privilegiata, si pronuncia con cicliche visioni, programmatica lucidità e un andamento oramai collaudato anche se sempre mutante, perché il site-specific è un altro dei punti cardinali della sua metodologia di lavoro. Anzi, di azione vera e propria. Una metodologia, quella dell’artista faentino, che privilegia fino in fondo il display espositivo, trasformando frammenti, utilizzando materiali legati al mondo dell’edilizia, come in questo caso, posizionando brandelli di materie. I piedi e altri brandelli di vecchi tavoli costituiscono l’ossatura di installazioni mixate con neon e altri elementi: emerge così un percorso sfaccettato di tracce e reliquie di un possibile mondo distrutto che Nero ricostruisce con rigore assoluto.
Nero quindi non è un purista – né della ceramica, che ha esplorato sin da giovanissimo nella sua città, Faenza, ben prima che diventasse un linguaggio estremamente abusato nella contemporaneità, e neppure della forma –, perciò ha spesso collaudato l’associazione con oggetti di recupero, mediante interventi da beffardo bricoleur, qual è, anche se fedele al rapporto con la (sua) forma della scultura e l’immagine. La poetica dello scarto contrassegna da sempre il suo fare –, come è accaduto nel 2017 nel museo Beelden aan Zee di Scheveningen, nei Paesi Bassi, dove l’artista è stato in grado di lavorare sulla collezione, inglobandola senza alterarla, anzi valorizzandola con il suo intervento installativo diffuso. La propensione all’accumulo, alla defunzionalizzazione (ci sono copertoni di ruote e altri oggetti d’uso rimodulati nei lavori degli ultimi anni) e una passione per la seconda vita delle forme e della materia: in Nero c’è tutto questo, è un rapinatore intenzionale di fisionomie e strati tangibili di storia dell’arte e dell’artigianato, che egli ricompone in un alfabeto proprio sempre riconoscibile, sempre in divenire. Perché per Nero l’arte è una forma di ricerca che si esprime nella metamorfosi.
Le opere, realizzate nell’orbita della residenza del progetto Comunità/Cultura/Patrimonio sostenuto da Fondazione Cariverona, e promosso dal Comune di Nove e dal Comune di Bassano del Grappa, stimolano così una riflessione sulla disgregazione dello spazio domestico, in cui tutti noi abbiamo obbligatoriamente vissuto durante il lockdown, ma anche delle convenzioni legate alle ritualità quotidiane, visto che il tavolo, da sempre, è simbolo – e sintomo – di casa e convivialità.