Mancano pochi giorno all’apertura della 22° edizione della fiera internazionale d’arte moderna e contemporanea di Milano, miart. Come sottolinea il direttore Alessandro Rabottini, è una fiera che si caratterizza per il fitto dialogo che si instaura tra arte moderna, arte contemporanea e design in edizione limitata. In questa edizione – che si svolge dal 31 marzo al 2 aprile alla Fieramilanocity in Viale Scarampo – Gate 5 – forse più delle precedenti dirette da Vincenzo De Bellis, si fa più cogente la necessità di riflettere sulla continuità fra passato e presente, ma anche sulle possibilità-necessità di stringere collaborazioni con enti pubblici e privati, per sperimentare, come si legge nella presentazione della fiera, “strategie istituzionali alternative a quelle consuete. L’obiettivo è quello di iniziare un percorso che porti miart ad essere attiva nella produzione moderna e contemporanea durante tutto l’anno e non solo nei tre giorni dell’evento fieristico. ”
Ricordiamo un po’ di numeri: 175 le gallerie internazionali presenti, provenienti da 14 paesi; 6 premi e un fondo acquisizioni da 100.000 euro; oltre 60 i curatori, direttori di Museo e personalità da tutto il mondo coinvolte.
Alcune domande al direttore del miart Alessandro Rabottini —
ATP: Nella presentazione della fiera lo scorso gennaio, hai sottolineato che questa edizione sarà di “consolidamento ed espansione”. Ti poni, dunque, in linea di continuità con quella che era l’identità delle scorse edizioni curate da Vincenzo De Bellis. Mi racconti quali sono le parti che hai ritenuto necessario consolidare?
Alessandro Rabottini: Per me l’idea di consolidamento legata a miart è un modo di esprime il legame che sento verso questa manifestazione nella sua formula attuale, avendo affiancato Vincenzo De Bellis per quattro edizioni in differenti ruoli. Quella di miart è una struttura che sento mia per aver contribuito a svilupparne le linee guida sin dall’edizione del 2013. Sin dall’inizio del mio nuovo mandato, quindi, ho sentito la responsabilità di continuare sulla strada che abbiamo intrapreso, cercando di coniugare l’aspetto commerciale a quello culturale. Per espansione, invece, non bisogna intendere solamente la crescita numerica degli espositori, che pure c’è stata con 20 gallerie in più rispetto all’anno scorso, ma anche una forma di un’espansione “verticale”, ovvero un livello di approfondimento sempre maggiore dei contenuti. E di questo sono davvero grato agli espositori, che vedono in miart un luogo dove presentare progetti molto precisi ed ambiziosi. A loro che sono i nostri protagonisti va la mia riconoscenza.
ATP: In merito all’espansione, invece, partiamo dai numeri. Le gallerie sono 174, 20 in più rispetto all’anno scorso. Quali nuove presenze possono considerarsi un ottimo risultato, soprattutto in merito al prestigio che procurano alla fiera?
AR: Sono molto orgoglioso di tante nuove partecipazioni che si sommano alle tante gallerie internazionali che ci accompagnano da anni. In questa nuova edizione avere gallerie come Barbara Gladstone, Zeno X, Marianne Boesky, Alison Jacques, Stuart Shave/Modern Art, Nathalie Obadia, Gregor Podnar, Deweer e Jocelyn Wolff mi riempie di orgoglio. Oltre a loro c’è una generazione di gallerie più recenti che stanno facendo un lavoro estremamente propositivo e che saranno a miart per la prima volta offrendo una prospettiva internazionale e avanzata, penso a 47 Canal, ChertLüdde, A Gentil Carioca, The Approach, Art:Concept, Canada, Hollybush Gardens, Antoine Levi, Meliksetian Briggs, oltre all’ultima nata della dinastia Nahmad ovvero Nahmad Project, con un progetto sorprendente all’interno della sezione Established Masters.
ATP: Rispetto a molte altre fiere a livello internazionale, anziché puntare sull’avanguardia e lo ‘stretto’ contemporaneo, abbracciate invece uno degli elementi cardine del miart, il suo sguardo – e la sua tradizione – rivolta al passato, al moderno. Hai descritto il miart come “una sorta di ritratto amplificato di Milano”. In particolare, a cosa ti riferisci?
AR: Mi riferisco alla coesistenza in uno stesso luogo di arte moderna, arte contemporanea e design in edizione limitata, posti in dialogo reciproco. Questa triade si riflette anche nell’ampiezza cronologica che miart presenta, perché ormai copriamo un arco di tempo che va primissimi anni del Novecento – anche attraverso gli ottimi progetti della sezione Decades che introduce la più ampia Established Masters – fino al contemporaneo più recente con la sezione Emergent. Nella percezione internazionale, Milano è una città moderna, perché il nostro passato è un passato moderno, che intreccia Futurismo, Spazialismo, Piero Manzoni e Luciano Fabro. Ma Milano è anche una città che ha sempre sviluppato un’attitudine alla contemporaneità, è una città la cui cultura visiva è palpitante, è la città delle gallerie e delle nuove fondazioni, della moda, del design e dell’editoria. E questa non è una frase fatta ma una realtà: Milano è una città visivamente avanzata e le sue differenti anime si ritrovano nel modo in cui abbiamo concepito le molte sezioni di miart.
ATP: La struttura generale della fiera non è sostanzialmente cambiata. Le sezioni, a grandi linee, rimangono invariate, a parte alcune novità. Quali sono e perché avete avuto l’esigenza di creare Generations?
AR: Nelle scorse edizioni, attraverso la sezione THENNow, abbiamo esplorato la possibilità di creare un ponte tra moderno e contemporaneo facendo incontrare un artista storico e uno emergente. Volevamo conservare una zona che mettesse in comunicazione queste due anime di miart, ma ci siamo chiesti se gli artisti percepiscono o meno la storia dell’arte come successione cronologica. Da qui è nata l’idea di allargare le maglie di questa sezione e chiamarla Generations, dove due gallerie collaborano a creare un dialogo tra due artisti di due generazioni diverse, con la possibilità di averli vicini o agli antipodi dello spettro temporale. Ho la sensazione che il divario tra le generazioni si stai sempre più accorciando, e che i cambiamenti di linguaggio avvengano in pochissimi anni fino a creare una contrazione del concetto stesso di “generazione”. Ci interessava esplorare questo spazio e interrogarci su che cosa sia effettivamente una generazione, e se sia un concetto ancora valido.
ATP: Una delle novità della fiera è la sezione On Demand: dedicata a tutte quelle opere che esistono pienamente solamente quando l’acquirente le attiva. Perché l’esigenza di proporre un’iniziativa di questo tipo? A livello commerciale non è rischioso?
AR: Non c’è nulla in miart che non nasca dall’osservazione di quella che è la programmazione delle gallerie, che è appunto la base del nostro lavoro. Le opere che troverete all’interno della sezione trasversale On Demand, infatti, sono opere di artisti che lavorano oggi con i linguaggi dell’installazione o dell’oggetto relazionale, artisti rappresentati dalle gallerie partecipanti. Quello che abbiamo fatto noi è stato pensare a un contesto per quelle pratiche che, in un certo senso, esplorano il collezionismo come relazione vitale con l’opera, opere che spesso implicano una metodologia o una narrazione che i ritmi di una fiera possono rendere più difficili da comprendere a pieno. On Demand vede la coesistenza di linguaggi tra loro diversi e di generazioni differenti: troveremo opere di Lawrence Weiner e Daniel Buren – tra i padri putativi della site-specificity – insieme con artisti molto più giovani.
ATP: In merito al coinvolgimento di istituzioni, gallerie private, musei ecc. di Milano, sei soddisfatto del programma esterno? Qual è la tua opinione sui progetti esterni che, in alcuni casi, sottraggono ‘energia’ alla fiera, anziché accrescerla?
AR: Sono più che grato per il lavoro di tutte le istituzioni pubbliche e private di Milano, un lavoro che, grazie al coordinamento e al supporto dell’Assessorato alla Cultura del Comune di Milano, ancora una volta ha generato un fitto calendario di mostre, inaugurazioni, eventi, performance, concerti, proiezioni, aperture speciali e visite guidate. La Milano Art Week quest’anno partirà addirittura da lunedì 27 marzo data la ricchezza del calendario, e molte delle mostre che stanno inaugurando in questi giorni creeranno un ponte tra la settimana di miart e quella del Salone del Mobile.
Non credo affatto che questa ricchezza di offerta espositiva sottragga energia alla fiera, tutt’altro. Una fiera come miart funziona anche perchè il contesto che la ospita è ricco di energie e di proposte, e molto del lavoro che svolgiamo consiste nella ricerca di un equilibrio tra la natura commerciale dell’evento in sé e l’autorevolezza culturale della città che ne è il contesto. È questa sinergia che fa sì che collezionisti e addetti ai lavori decidano di viaggiare verso una città in occasione di una fiera.
ATP: Uno dei sintomi che una fiera funziona, tra gli altri, è il proliferare, nello stesso weekend di altre iniziative fieristiche. Cito i casi esemplari di Liste e Volta a Basilea. Tutto sommato trovi che sia un bene per miart non avere competitor di questo tipo? Qual è il tuo pensiero in merito alle fiere satellite?
AR: Le fiere satellite possono esistere soltanto quando c’è una struttura principale, come Fiera Milano, che investe sia dal punto di vista economico che strutturale. Quando diciamo che miart riflette intimamente la natura di Milano è perché ha dimensioni relativamente contenute ma punta sulla diversità e la qualità dei contenuti. Detto questo credo che non basti “appoggiarsi” a un evento fieristico principale per riuscire nei propri intenti, tutto dipende invece dalla progettualità che si riesce ad esprimere.