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Testo di Paola Gallio
Devo ammettere che dopo una lunga serie di tentativi, non ho l’indole del pioniere.
Negli anni 2000 ho scoperto la magia di Berlino quando ormai era già un centro commerciale. Sono arrivata a New York nella prima decade del nuovo millennio quando Patty Smith implorava la fuga delle menti creative dalla Grande Mela in balia del real estate Industry. La settimana scorsa sono stata per la prima volta in Mexico City per le fiere di arte contemporanea al quindicesimo anniversario di Zona Maco!
Sopravvivere con 3 lavori, per sostenere i bisogni primari a New York, deve avermi distratta dai movimenti migratori dell’arte verso lidi più esotici.
Domenico Zindato ci ha invitati a raggiungerlo per le fiere in Mexico City. Lui invece è un vero pioniere. Domenico è un artista, Italiano, che ha studiato teatro a Roma per poi partire per Berlino all’inizio degli anni 90, soggetto dei ritratti di Wolfgang Tillmans e militante nella scena underground della città. Da Berlino si trasferisce a New York per lavorare con gallerie oltreoceano. Agli inizi degli anni 2000, dopo essersi affermato nella sfera dei self taught artist, passa a Messico City. Ora, rappresentato da Andrew Edlin Gallery, e primo Oustider artist venduto alle aste di Christie’s, vive a qualche ora dalla città, scampando anche questa volta il “rinascimento” portato dalla gentrificazione. Domenico ed io ci siamo incontrati a New York tramite un amico comune e abbiamo legato sulle nostre origini e sul fatto di essere outsiders dell’arte, lui ufficialmente riconosciuto, ed io autoproclamata.
Mexico City sembra la Los Angeles immaginata da Hampton Fancher and David Peoples in Blade Runner: i mercati con i polli allineati sul banco e i festoni di carta al soffitto accanto ai grattacieli sedi delle multinazionali; i chioschi dei Taco davanti alle ville in stile Liberty Francese del tardo Ottocento, con porte ad arco e vetri fatti a mano; i coffee shop dove godersi degustazioni di caffè della Williamsburg di Mexico City, accanto ai venditori di tessuti tipici allineati sul marciapiede. Tutto è un paradosso. In qualche modo mi ricorda New York ma con un twist politico, e Chavela Vergas al microfono.
Tutto ha un aspetto decadente e sembra essere in balia delle forze della natura. I palazzi sono polverosi e lasciati all’erosione degli agenti atmosferici. La vegetazione cresce inesorabile e rigogliosa in mezzo al cemento.
Zona Maco è stata la prima tappa appena arrivati.
Il Convention Center, progettato da Michael Edmonds e costruito nel 2002, è enorme: due sale convezioni, Ippodromo, Casinò, parco a tema per bambini, soffitti a 30 metri, pilastri di cemento e tappeti con pattern anni 70 nei corridoi. Zona Maco è un’affermata fiera internazionale.
Tutti i collezionisti e i direttori delle istituzioni museali più importanti al mondo sono presenti. La struttura è molto simile a tutte le altre: Blu Chip Gallery al centro, lungo corridoio di gallerie emergenti a sinistra, pubblicazioni verso l’uscita, progetti solo show di giovani artisti a destra, ala del Moderno, per un totale di 170 espositori.
La parte dedicata al design Diseno evidenzia una la comunicazione molto forte fra tradizione e design.
Nella sezione del contemporaneo la scuola di Kuri/Orozco domina, basti vedere il lavoro premiato di Damián Ortega (1967) Torch lamp, 2017, con l’Artz Pedregal Acquisition Award (che ho mancato perché appeso a un soffitto notevolmente troppo alto per la mia soglia di attenzione). Il premio Jsa Arquitectura Acquisition Award For Emerging Artists ha avuto un outcome migliore, svelando la controtendenza delle gallerie giovani alla scoperta della pittura, con i lavori di Osvaldo González Aguiar.
Nella zona delle gallerie emergenti ho potuto riconfermare la mia passione per la galleria di Mariane Ibrahim, sempre bella, elegante con un’installazione accattivante, e forte identità politica, in tendenza con il clima statunitense ma certamente meno nell’atmosfera a-politicizzata dell’arte contemporanea di Mexico City.
Ho avuto il piacere di parlare con alcuni giovani galleristi (e di andarle a visitare in un secondo tempo fuori dalla fiera): la Galeria Mascota, Mexico City, di Javier Estevez, la galleria Galería Karen Huber. In alternativa ai più, entrambi promuovono artisti che lavorano con la pittura. Sono giovani e pieni di energie con spazi alternativi spettacolari, e tutti i numeri per aprire una nuova tendenza in città.
I galleristi di Città del Messico mi hanno stupito per la cordialità e la disponibilità, mi è sembrato un lavoro piacevole visto da quella prospettiva. Ovviamente l’aspetto commerciale è vitale, ma sembra che si applichi meno l’equazione: dollaro al centimetro quadrato-diviso tempo-uguale non ti saluto nemmeno.
Qui sembra che chi lavora per l’arte ami parlarne, persino a me, un improvvisato turista dell’arte, senza aspettative.
Usciti dal labirinto della fiera, abbiamo fatto tappa al ristorante Rosetta, cenando nel cortile interno di una Villa Liberty meravigliosa in febbraio (un lusso assoluto per chi vive nell’interminabile inverno Newyorkse), aspettando l’after party della fiera. Domenico ha un debole per i dance floors.
Il giorno seguente siamo andati a Material.
La fiera è stata creata da un gallerista di Mexico City è alla quinta edizione. Nella natura assomiglia molto a Nada, una fiera indipendente gestita da art dealers, ideata da Brett Schultz, Galeria BWSMX, e Daniela Elbahara, curatrice, che insieme erano la Yautepec gallery.
Per la quinta edizione Material è stata ospitata in un palazzo storico della città, raro esempio di Art Deco datato 1929, riaperto al pubblico dopo un lungo restauro durato oltre 20 anni, Frontón México. Lo studio di architettura APRDELESP ha curato la struttura della fiera, e parlo letteralmente di tre piani alzati con tubi innocenti nell’anfiteatro del Fronton. Il risultato e stato spettacolare.
La struttura ha ospitato 78 gallerie e progetti indipendenti.
Alle fondamenta del castello di tubi troviamo i booth di ampia metratura. Molte delle gallerie presenti in questa sezione le conoscevo da NADA; Roberto Paradise, San Juan, con un progetto di José Lerma; Project Pangee, Montral, con un booth istallato con i lavori di Vanessa Brown, Danielle Orchard, Anjuli Rathod, su pareti argento e gocce di pioggia dipinte: Catinca Tabacaru Gallery, NY, che ha annunciato la sua pionieristica apertura a Harare, Zimbawe mettendo sulla mappa dell’arte contemporanea una nuova meta.
Salendo una lunga rampa si arriva al secondo piano, dove la struttura si ristringe con booth di dimensioni medie. Per citarne alcuni, Damien & The Love Guru uno spazio curatoriale per sperimentazione di Brussels che lavora sull’interazione tra arte contemporanea e antropologia: Galeria Alegria, Madrid, con un solo booth di Jorge Diezma, miniature di pitture a olio che con Domenico abbiamo convenuto essere una diretta discendenza dall’immaginario visionario di Charlie Kaufman in Synecdoche New York; Galería Agustina Ferreyra, vincitrice del premio NADA NY 2017, ristabilita a Mexico City dopo il terremoto a Puerto Rico, ospitata nel booth del patron Brett Schultz, Galeria BWSMX.
Salendo un’ultima rampa di scale al terzo piano il castello di tubi termina con booth low coast di una sola parete. Qui si trovano progetti indipendenti e gallerie giovanissime. I miei preferiti: i vicini di casa di Motel, Brooklyn, No Conformism, l’unica presenza Italiana ma con bandiera Svizzera, di Emanuele Mercuccio e Wil Aballe, Vancouver. Un’area del terzo piano era dedicata alla sezione Immaterial, uno spazio per la danza e la performance con i progetti di Maria Hassabi and Mårten Spångberg.Galleristi, artisti e visitatori erano elettrizzati dall’impatto architettonico della struttura della fiera. Material ha commissionato inoltre degli arredi e della zona lounge con un progetto di Fabien Cappello, e la ristorazione al Newyorkese Art Bar Beverly’s.
Dopo l’opening abbiamo fatto tappa al ristorante (senza nome) accanto al Bósforo Mezcaleria degustando cucina tipica in ambientazione hipster. A seguire abbiamo raggiunto all’afterparty di Material in un basemnet di un palazzo nel centro, dove NAFI, un collettivo di Dj di Città del Messico ha suonato la musica più cool che abbia sentito dai tempi del Panorama Bar di Berlino negli anni 2000.
Il giorno dopo, sfiniti da ore sul dance floor, abbiamo visitato Salón Acme No. 6. Il Salon è un’art book fair e una mostra che ha ospita le opere di 60 artisti senza galleria di rappresentanza in vendita al prezzo 1000 dollari al pezzo. La location è nel palazzo di un governatore del Partido Nacional Revolucionario in rovina ma consolidato e trasformato in un centro d’arte e di design, con un enorme un Mescal Bar nel cortile interno.
Questo posto mi ricorda in modo più diretto Berlino. Anche il minimalismo eccessivo delle opere esposte mi riporta alla mente la Germania degli anni 2000. La curiosità intorno al Salon Acme è molto alta, le opere sono centinaia in questo spazio meraviglioso deturpato dal tempo, i terremoti e le intemperie. Lo spettro di Orozco grava impunemente sulle nuove generazioni. L’importanza dei maestri…
L’ultimo giorno siamo andati in giro per gallerie e per musei. Le gallerie sono o i palazzi sontuosissimi in stile francese in quartieri riqualificati con la gentirficazione oppure nascosti in posti inaspettati e inaccessibili.
Ci siamo diretti verso lo spazio di Karen Huber, un loft in un palazzo industriale con un ufficio arredamento modernista con un’enorme finestra che si apre su un rooftop con vista sulla citta’. In mostra è l’artista portoricano, recentemente trasferito in Mexico City da New York, Héctor Madera. Karen e Andrea stanno facendo un grosso sforzo per portare la pittura nel mercato di Mexico City e lavorano in prevalenza con pittori locali e internazionali.
Stessa mission per la galleria Mascota, che dopo tre anni in uno spazio di 10 metri quadri, ha inaugurato la nuova sede in un garage la sera prima dell’apertura di Zona Maco, nel quartiere più Hip di Città del Messico: Roma. Davanti a un building devastato dal terremoto, pericolante e circondato da transenne, c’e’ una fila di garage prefabbricati usati in precedenza come esercizi commerciali. Dietro la saracinesca di uno di questi si nasconde la nuovissima galleria del giovane e talentuoso Javier Estevez con la mostra personale delle pitture di Jean-Baptiste Bernadet.
Mi ricorda i tempi della Fabbrica del Vapore.
Siamo stati a visitare la mostra collettiva curata da Daniel Garza-Usabiaga e Paulina Ascencio da Anonymous gallery. Anche in questo caso lo spazio è insolito. Varcando la soglia di una porta ritagliata in una saracinesca sulla strada, si entra in uno spazio con pareti in cartongesso immacolato alte 15 metri illuminate da luce bianchissima al neon, sotto una tettoia di laminato, nel cortile di casa del gallerista recentemente migrato da New York, Joseph Ian Henrikson.
Infine siamo stati allo spazio non commerciale gestito nel suo meraviglioso appartamento nei pressi del Centro, by appointment only di John Thompson, professore al Parson Institute ritirato in pensione tra Città del Messico e i Caribi. Due volte l’anno organizza mostre in una delle stanze della sua casa, esponendo i lavori di giovani artisti con oggetti di design, tessuti, e opere della sua collezione privata. Il suo è un progetto del tutto estemporaneo e indipendente che di recente ha attirando l’attenzione della scena artistica della Città e della stampa. Magie della megalopoli che, nella sua immensità, sembra non lasciarsi sfuggire niente.
Infine abbiamo attraversato il fitto boschetto del parco all’ingresso del Museo Tamayo, per poi l’ultima tappa con cena al ristorante Carlotta e stop al Taxonomia, concept store di prodotti di designer messicani manufatti in Messico, per un po’ di shopping da brivido.
Dopo i saluti alla mia guida e caro amico Domenico, con promessa di rivederci New York in marzo, nella corsa in taxi per prendere un red-eye flght (volo notturno) e ritornare a casa in tempo per presentarmi al lavoro in mattinata, penso che trasferirmi a Citta’ del Messico potrebbe non farmi sentire troppo la mancanza della ormai invivibile Grande Mela, ma nella mia testa risuona la frase che ogni mattina mi dà la forza di prendere la metropolitana insieme a milioni di altri alienati esseri umani: New York it’s my change, New York it’s my home!
And you stick to it…