ATP DIARY

Maybe your lens is scratched? | Slate Projects, London

[nemus_slider id=”58041″] — Slate Projects, progetto curatoriale itinerante fondato nel 2013 a Londra da Alex Meurice, propone “Maybe your lens is scratched?” quinta mostra consecutiva nella medesima sede dell’Averard Hotel: suggestiva location situata nel cuore di West London e affacciato su Hyde Park. Averard Hotel ha ospitato la mostra fino al 24 Luglio e ci sono […]

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Slate Projects, progetto curatoriale itinerante fondato nel 2013 a Londra da Alex Meurice, propone “Maybe your lens is scratched?” quinta mostra consecutiva nella medesima sede dell’Averard Hotel: suggestiva location situata nel cuore di West London e affacciato su Hyde Park. Averard Hotel ha ospitato la mostra fino al 24 Luglio e ci sono in programma una serie di altri progetti fino ad ottobre 2016.  Inizialmente concepito come complesso abitativo durante l’epoca vittoriana e in seguito convertito in albergo, L’Averard è ora uno spazio vacante in attesa di essere ristrutturato; la mostra ha riportato alla luce gli infiniti strati della sua evoluzione estetica e storica, un esempio di archeologia urbana definito da Bianca Baroni, co-curatrice del progetto, uno spazio “potenziale”.

Alcune domande a Bianca Baroni —

ATP: L’Hotel è un sovrapporsi di stili, di textures, di cromie, la cosa che colpisce immediatamente è come i lavori acquistino un tono nuovo, inaspettato, infinitamente più ricco di quando installati in un ambiente più convenzionale…

Bianca Baroni: Sí, la cosa più interessante dell’albergo é che sembra sospeso tra la propria radice vittoriana e il numero di interventi più recenti che si sovrappongono e si mischiano per sottrazione trasformando questo edificio in una sorta di rovina ibrida di se stesso. Dopo la chiusura dell’Hotel nel 2010 la maggior parte delle sale e delle stanze è stata letteralmente sventrata, decorticata, mettendo a nudo i numerosi capitoli della sua storia. Questo provoca una reazione di meraviglia in chiunque abbia visitato la location: un senso di fascino e allo stesso tempo un capriccio contemporaneo che porta la maggior parte delle persone ad idealizzare quest’edificio, ad immaginarne un trascorso glorioso così come un futuro incerto nel delirante mercato immobiliare londinese. In questo senso lo spazio si presenta come una sorta di limbo, una dimensione sospesa che lo rende prima di tutto lo spazio in potenziale. Gli artisti hanno lavorato in modo attivo, rispondendo a particolari aspetti dello spazio e abbracciandone letture differenti all’interno di ciascun lavoro.

ATP: Credo sia interessante considerare la reciprocità con la quale le opere e lo spazio si informano e come questo porti a risultati nuovi e diversi, partendo da un’esperienza più o meno diretta, producendo interventi più o meno viscerali.

BB: Becky Beasley, ad esempio, occupando un’intera stanza accanto all’ingresso principale riconfigura un’installazione presentata alla South London Gallery nel 2014. Per il progetto dell’Averard Hotel Becky crea un’ambiente punteggiato da una serie di porta-ceneri in ottone, lavori confluiti da mostre antecedenti, oggetti personali e interventi pittorici che trasformano lo spazio in un lounge dal gusto glamour. Una smoking room, una sala pensata come luogo di transito, ma soprattutto di incontro esclusivo tra coloro che ne adempiono la sua funzione affettiva.

L’hotel concorre certamente a definire la struttura fisica e concettuale della mostra, tuttavia ciascun lavoro/intervento sviluppa caratteristiche differenti dello spazio dando corpo alla gestualità peculiare di ciascun artista. May Hands ad esempio approccia lo spazio come un organismo vulnerabile ed esposto; la sua istallazione entra nelle viscere dell’edificio stesso, penetrandone una parete già squarciata, come per colmare le cavità di una cassa toracica. In questo caso l’edificio si rivela come corpo: denudato delle sue tappezzerie in seguito alla chiusura dell’Hotel e abbandonato a se stesso per più di cinque anni, si presenta come un’entità camaleontica che ha assecondato varie idee di gusto e bellezza, in questo senso la sua storia riaffiora in superficie come processo di sviluppo organico. In linea con tale definizione anche il lavoro di Jonathan Baldock contribuisce a delineare la visione dell’Hotel come organismo: il lavoro presente in mostra, cosi come una serie di altri pezzi di Jonathan, nasce come un costume, estensione della fisicità stessa dell’artista e oggetto creato per essere attivato, per confluire in un’azione performativa.

In altri casi le opere hanno risposto agli attributi architettonici dello spazio: Il lavoro di Thomas Hutton si costituisce in parte di una parete che separava i due edifici portanti della struttura prima che questa diventasse un hotel. Attraverso tale intervento non solo l’artista ha voluto recuperare l’articolazione originaria del complesso ma ha voluto proiettare lo spazio verso la sua ristrutturazione imminente, che molto probabilmente propenderà per il recupero di tale divisione. Soprattutto Thomas ha permeato questa parete con stucchi di diverse cromie e consistenze, accentuando l’effetto di luce-ombra prodotto dall’illuminazione naturale della sala e simulando quindi la profondità/consistenza della parete stessa. Un’operazione che si lega all’interesse dell’artista verso diversi paradigmi architettonici e al modo in cui questi posizionano/concepiscono il soggetto nello spazio.

Anche gli interventi istallativi di Amy & Oliver Thomas-Irvine sono pensati appositamente per le sale dell’Hotel, e anch’essi hanno a che fare con la rielaborazione di determinati complementi architettonici. Il duo di artisti sviluppa una struttura metallica che si rifà agli interni di un complesso industriale dismesso nelle periferie della Cornovaglia, l’intreccio strutturale di tale location remota viene riposizionato nello spazio espositivo, un’operazione che non solo ridefinisce lo status dell’oggetto come opera d’arte ma soprattutto che riflette sul sistema di aspettative che costituiscono la nostra esperienza di un determinato progetto artistico.

Matt Ager,   Michael Iveson - Maybe your lens is scratched? The Averard Hotel,   10 Lancaster Gate,   London - installation view
Matt Ager, Michael Iveson – Maybe your lens is scratched? The Averard Hotel, 10 Lancaster Gate, London – installation view

ATP: Parlando della creazione di immagini sembra impossibile non affrontare il discorso sul virtuale e digitale, che infatti emerge in maniera evidente soprattutto in alcune pratiche: In che modo pensi questa mostra – che sembra prima di tutto un immersione nel passato – tratti anche questo aspetto?

BB: La mostra non è stata concepita come una riflessione retrospettiva rispetto al trascorso storico dell’albergo, al contrario prende spunto dalla natura stratificata e molteplice dell’edificio e della sua identità estetica e storica. Le infinite sfaccettature che caratterizzano questo luogo si prestano a linee di ricerca completamente differenti: il digitale è sicuramente una componente cruciale in particolare quando si pensa alla progettazione ed esperienza di un determinato spazio attraverso immagini. Lawrence Lek con la sua opera “Memory Palace” (2014) ne è sicuramente l’esempio più diretto: attraverso un software per la realizzazione di videogames l’artista ricostruisce lo spazio del Tabularium, immaginando che al suo interno fossero archiviati testi relativi a pratiche artistiche post-internet. L’opera è concepita in due versioni: un videogame e una navigazione simulata. Attraverso un approccio diverso Marco Strappato in “Untitled (Sunset in Utopia)” propone una stampa digitale su vetro di un tramonto perfetto. In particolare si tratta di una rielaborazione in digitale di un’immagine che appare qualora si ricerchi su Google il fenomeno del “Rayleigh Scattering”, la teoria che spiega la percezione dell’azzurro del cielo dal punto di vista della terra. In questo senso il lavoro guarda alla disseminazione di immagini attraverso un territorio virtuale e a come questa stessa distribuzione influenzi il nostro immaginario collettivo.

ATP: Guardando quest’opera di Strappato ci sono alcune cose che mi colpiscono: innanzitutto come la scelta di collocare il lavoro su questa parete graffiata ne amplifichi l’impatto visivo, rendendo ancora più ipnotica la linea d’ombra che rappresenta. In secondo luogo è interessante come la sua prossimità rispetto ad un lavoro installativo come quello di Amy & Oliver metta in evidenza la permeabilità della sua superficie riflettente rispetto allo spazio circostante. In questo senso ne viene accentuata la sua natura oggettuale, il suo status come portale, black mirror che richiama gli schermi con cui ci interfacciamo quotidianamente.

BB: Altri artisti hanno proposto dei lavori che giocano con tale natura oggettuale e il confine labile che li separa da un territorio più intimo/domestico. Laureen Keeley porta con mio entusiasmo un corpo di lavori che sancisce una transizione importante nella sua ricerca. Infatti Lauren sta spostando progressivamente il proprio focus dalla rappresentazione di ambientazioni e spazi vissuti verso immagini di oggetti completamente decontestualizzati. In particolare, nei lavori presenti in mostra, l’artista si rifà alla tecnica del Trompe L’oeil per innescare una compenetrazione tra immagine e oggetto scultoreo. Matt Ager attraverso accostamenti improbabili di oggetti trovati online, carta da parati, insoliti accessori e complementi d’arredo crea assemblaggi che intersecano diversi concetti di gusto. L’artista, sin dal suo percorso all’interno della Royal Accademy, ha sempre voluto esplorare come lo status di determinati oggetti si trasformi slittando tra diversi canoni estetici e di costume, un fenomeno che di fatto sfocia nella nostra idea di kitch. Anche il lavoro di Neil Haas gioca con una certa forma di ibridazione tra format pittorico e oggetto domestico; l’usa della tenda come membrana labile che separa una sfera intima dallo spazio esterno in un certo senso trova terreno fertile nello spazio dell’hotel, luogo di transizione e crocevia tra pubblico e privato. Inoltre l’incontro osmotico tra spazi diversi si lega anche all’atteggiamento velatamente voyeuristico che emerge dal lavoro di Neil.

ATP: Da come descrivi la mostra sembra che questa non abbia seguito un tracciato prestabilito o prevedibile, ma che sia quasi stata il frutto di un lavoro in progressione ancora non concluso. La sua origine è stata altrettanto imprevista?

BB: Ciò che più ho trovato appagante di questo progetto è come sia maturato in maniera organica, nutrito da un dialogo/scambio continuo con gli artisti.

Il fulcro concettuale della mostra di fatto emerge da una serie di conversazioni che Alex Meurice – co-curatore della mostra – aveva sviluppato con artisti come Thomas, Amy & Oliver, Michael Iveson e We are Visual, ancora prima che lui ed io iniziassimo a collaborare. In un certo senso ciascuno di questi artisti sembrava affrontare in maniera diversa una certa reciprocità tra immagine e spazio. Basti pensare a come uno spazio architettonico sia concepito, costruito ed esperito attraverso immagini e come, viceversa, un luogo – esempio per eccellenza l’Averard Hotel – inneschi un processo generativo di immagini, producendo un immaginario di se stesso che influisce sul modo in cui questo viene percepito e attivato.

Maybe your lens is scratched? The Averard Hotel,   10 Lancaster Gate,   London - installation view
Maybe your lens is scratched? The Averard Hotel, 10 Lancaster Gate, London – installation view
Maybe your lens is scratched? The Averard Hotel,   10 Lancaster Gate,   London - installation view
Maybe your lens is scratched? The Averard Hotel, 10 Lancaster Gate, London – installation view
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