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Curiosamente, questa differenza si vede ribaltando i termini, per dir così, in controluce: data la risposta a un indovinello, e non la domanda, potremo sforzarci di ricostruire quale quest’ultima fosse. Nel romanzo Guida galattica per autostoppisti, al contrario, Douglas Adams immagina una civiltà che, dopo lungo cercare, trovi la risposta alla grande domanda sul senso della vita. Quella risposta, calcolata da un computer potentissimo lungo decine di migliaia di anni, è 42. Nel romanzo, nessun computer sarà mai in grado di calcolare la formulazione della domanda. Il problema, ovviamente, è che a partire da una risposta è impossibile dire se risolva un indovinello o un enigma: e si può solo sperare che sia il primo. ‘Di ogni domanda che può essere formulata’, scrive Ludwig Wittgenstein, ‘può formularsi anche la risposta. L’enigma non v’è.’ Wittgenstein sta consapevolmente confondendo le acque, con questa asserzione. Certo, certo, la risposta si trova sempre, prima o poi; ma la domanda? “
J. L. Borges, In Memoriam J.F.K.
Il lavoro di Mauro Vignando sottolinea il rapporto, a volte doloroso, che lega un oggetto al suo passato, alla storia che ha attraversato, alla traiettoria che lo ha condotto dove è. Di questo passato si serbano tracce. Che queste siano o meno visibili è un dettaglio in fondo trascurabile: ci sono, sono lì. Frank Stella, in una frase famosa, ha detto dell’arte minimalista (anch’essa, certo, composta da oggetti) che “ciò che vedi è ciò che vedi”. Non c’è nient’altro, sembrava dire Stella: non c’è passato, non c’è storia, non c’è nulla che sia quasi invisibile. Naturalmente, Frank Stella si sbagliava.
Forse è il desiderio di riscattare questa negazione dell’invisibile che porta Mauro Vignando a confrontarsi proprio con le forme del minimalismo. Un piccolo parallelepipedo di ebano lucidato, una scultura in pietra sottilissima e quasi quadrata, una disposizione geometrica di rettangoli in legno su una parete, una griglia di riquadri neri con alcune strisce bianche: dalla loro descrizione, questi sembrerebbero proprio gli oggetti specifici di cui scriveva Donald Judd, che offrono allo spettatore la loro muta geometria come pura coordinata spaziale. Ma nel lavoro di Vignando queste geometrie sono tutt’altro che mute: al contrario, si raccontano, e raccontandosi mettono in crisi la presunzione di autonomia che le caratterizzava, l’idea, sottolineata da Stella, che non ci sia altro che ciò che si vede.
Questo è ciò che c’è: l’ebano è ricavato dalla levigazione di una statua religiosa; la pietra era una scultura di forte valenza politica; i rettangoli sono le ante di un armadio costruito su misura per la casa della propria famiglia; i riquadri neri sono le foto di un rullino scattato chissà quando, dimenticato chissà dove, chissà quanto tempo fa. Queste informazioni e queste storie non sono denunciate immediatamente allo sguardo del pubblico: se ne trova, in certi casi, qualche traccia nascosta, come nel piccolo parallelepipedo specchiante che pare proprio una scultura di Judd in miniatura, finché non si notano le incisioni di una dedica cancellata con forza, ma ancora visibile sul fondo dell’objet trouvé.
Soprattutto quando sono invisibili, e rivelate tramite altri canali (un testo, una didascalia, il telefono senza fili di commenti e mezze ipotesi su cui si basa tanta parte della trasmissione di informazioni circa questi lavori), le storie legate ad ognuno di questi oggetti assumono tutta la loro valenza: il punto è proprio che non è necessario averle di fronte per immaginarne l’esistenza; che anche se il percorso mentale che da un oggetto neutro e geometrico conduce a un fondo esperienziale carico di significati è implicito, tortuoso, solo accennato da ciò che si ha di fronte, ciononostante è quello l’unico percorso che può condurre all’attribuzione di un senso.
Un principio della tassonomia museale distingue fra gli oggetti artistici “in sé” e i resti, o le tracce, o i prop di una performance, che non “sono” l’opera dell’artista (che consisteva, appunto, nella performance) ma la rappresentano, o la rimpiazzano, nella necessaria assenza del dopo. L’opera di Mauro Vignando, in fondo, sembra mettere in crisi la fondatezza di questa distinzione. Ogni oggetto, pare sottolineare la sua pratica, è la traccia di una performance, o di una serie di azioni, o di una sequenza di eventi. È da qui che vengono i cubi.