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La mostra “performativa” Material Self a Centrale Fies

Il secondo capitolo della trilogia di mostre performative dedicate al pensiero della teorica Stacy Alaimo riflette sul concetto di sé materiale e sul legame inscindibile tra i corpi e il mondo circostante.
Material Self, Centrale Fies, installation view | Foto di Alessandro Sala. Courtesy Centrale Fies

In concomitanza con il programma di performance LIVE WORKS SUMMIT 2024, presso il Centro di ricerca per le pratiche performative contemporanee di Centrale Fies nell’ex centrale idroelettrica di Dro (Tn), ha inaugurato la mostra Material Self, seconda tappa di una trilogia di mostre performative a cura di Barbara Boninsegna e Simone Frangi, che ha l’obbiettivo di sviscerare ed estrinsecare alcuni concetti cardinali della teoria femminista neo-materialista della pensatrice Stacy Alaimo. Lo scorso anno la mostra inaugurale aveva preso le mosse dall’espressione “Naked word”, che riflette sull’impiego politico del corpo nudo come strumento di protesta. Quest’anno invece lo spunto è offerto dal saggio Bodily Natures: Science, Environment, and the Material Self (2010), in cui Alaimo mette in discussione la centralità dell’essere umano in funzione del fatto che il “sé materiale” è intrinsecamente influenzato e plasmato da tutto ciò che lo circonda, dal contesto fisico in cui è immerso. Ne risulta che nello scenario attuale la distanza tra i corpi umani e il “corpo” dell’ambiente in senso lato si è così ridotta che non è più possibile distinguerli. La mostra intende pertanto rendere manifeste nuove forme di interrelazione tra corpi umani e non-umani, anche mediante attivazioni performative che interpretano le forze materiali che li agiscono. Due creature vegetali adornate di rami, foglie e fiori si muovono lentamente, mano nella mano, nel giardino della Centrale, poi si abbracciano, si accarezzano, si (con)fondono nel verde; i loro nomi sono Babau & Brouny (2016), e la mente che le ha partorite è quella di Benni Bosetto (Milano, 1987), attingendo all’immaginario fiabesco europeo e ai propri ricordi d’infanzia, quando le fronde degli alberi fuori dalla finestra della sua cameretta si muovevano di notte come splendidi mostri. E Babau e Brouny sono vestiti proprio delle frasche delle stesse piante. Per due creature ibride tra umano e vegetale, il reciproco atto di cura in un contesto a sua volta naturale incarna l’utopia dell’armonia interspecie.

Benni Bosetto, Babau & Brouny, Material Self, Centrale Fies | Foto di Alessandro Sala. Courtesy Centrale Fies
Material Self, Centrale Fies, installation view | Foto di Alessandro Sala. Courtesy Centrale Fies

Nella sala che fa da anticamera alla Galleria Trasformatori in cui è allestita la mostra, altre creature uscite dai sogni osservano e controllano silenti: si tratta di tre sculture di Sandra Mujinga (Repubblica Democratica del Congo-Norvegia, 1989), dal titolo Touch Face 1-3 (2018), consistenti in ossature scheletriche vestite da felpe con cappuccio, che vogliono richiamare ambivalentemente l’impiego discriminatorio di questi elementi di vestiario da parte della polizia per la profilazione razziale e il fatto che vengano utilizzate per le proteste nelle strade. I volti delle sculture sono oscurati, a rappresentare un anonimato resistente alle dinamiche di controllo da parte di chi esercita il potere; ma le estremità oblunghe e il titolo richiamano allo stesso tempo anche il gesto degli elefanti di toccarsi a vicenda il muso con la proboscide, per procurarsi piacere tattile e sedimentare i rapporti sociali. Ne risulta un invito alla relazione, alla dedizione nei confronti del prossimo, per fondare su solide basi il cambiamento. Entrati nella Galleria Trasformatori, si incontrano subito al centro dell’ambiente due strutture rudimentali composte da sequenze di canne sostenute in verticale da basi in argilla compattata. Il lavoro, A home for you I will create with exit pathways (2023) di Rehema Chachage (Tanzania, 1987), riflette sul senso di appartenenza, e dunque anche di intima connessione, al luogo che sentiamo di poter definire la nostra “casa”. Nel corso dell’inaugurazione, l’artista ha proceduto a rinforzare le due strutture con nuovo bambù, corde e blocchetti di argilla, che hanno accolto in sé anche le impronte delle mani del pubblico, perché il concetto di “casa” è una responsabilità collettiva. L’argilla è stata nutrita di ricordi di storie, canti, rituali, tradizioni trasmessi nella famiglia di Chachage per via matrilineare, che l’artista ha rievocato durante la performance. L’atto di rinsaldare la costruzione si rifà ai racconti della nonna Bibi Mkunde riguardo alle dinamiche che strutturano i villaggi Asu, negli altopiani settentrionali della Tanzania: le case formano una rete di conoscenza collettiva che si arricchisce per ogni nuova casa costruita, per ogni racconto orale condiviso, e gli individui restano inscindibilmente legati al loro territorio mediante l’atto simbolico del seppellimento del cordone ombelicale. Sulla parete più lunga della galleria, a fare da cornice alla performance di Chachage, si distende la pittura murale Vague diagonale GD (RAL 3027) (2024) su disegno di Sonia Kacem (Svizzera, 1985), eseguita da Nicole Amadori: un pattern di segni fluidi e ondivaghi di colore rosso, che per quanto astratto reca traccia nel ductus del gesto delle esperienze personali dell’artista condotte tra l’Europa e il Nord Africa, a contatto con diverse interpretazioni del concetto di ornamento nelle varie culture.

Material Self, Centrale Fies, installation view | Foto di Alessandro Sala. Courtesy Centrale Fies
Rehema Chachage, A home for you I will create with exit pathways, Material Self, Centrale Fies | Foto di Alessandro Sala. Courtesy Centrale Fies

Dal lato opposto, sono appesi alle pareti tappeti in lana taftata che includono dei disegni a tratto fine rappresentanti dei corpi non conformi: sono gli elementi installativi, qui esposti “a riposo”, impiegati nella performance Deserters (2023) di Chiara Bersani (San Rocco al Porto, 1984), che invita ad abbandonare la posizione eretta caratterizzante una presunta condizione di salute e conformità agli standard, la quale allo stesso tempo discrimina e marginalizza chi si trova in condizioni di disabilità, per condividere invece uno spazio comune ed egualitario, rappresentato dal tappeto. Il lavoro prende le mosse dal saggio sulla malattia On Being Ill (1926) di Virginia Woolf, in cui si legge l’esortazione “smettiamo di essere soldati nell’esercito degli eretti, diventiamo disertori”. Sulla parete di fondo, osserva la sala W.O.O.O.O.F. (2021) di Caroline Achaintre (Francia, 1969), un arazzo di lana di diversi colori e consistenze a forma di pelosa maschera lupina, che evoca alla mente le pitture rupestri. La mostra si chiude alla Forgia, dal lato opposto della Centrale, dove è proiettata l’opera video di Julien Creuzet (Francia-Martinica, 1986) mon corps carcasse / se casse, casse, casse, casse / Mon corps canne à sucre, / flèche, flèche, flèche, flèche / mon corps banane est en larme, / larme, larme, larme / mon corps peau noir, / au couché du soleil, / ne trouve plus le sommeil / mon corps plantation poison / mon corps plantation poison / mon corps plantation / demande la rançon / La pluie n’est plus la pluie / la pluie goutte des aiguilles / la pluie n’est plus la pluie / la pluie goutte des aiguilles / la pluie pesticide / la pluie infanticide / mon père vivait près de la rivière / La rivière était à la lisière / du champ de banane pour panam / banane rouge poudrière / sous les Tropiques du cancer (…) (2019). Un lisergico mash-up di immagini animate in 3D (molecole che fluttuano su spiagge tropicali, globuli rossi che scorrono nelle vene…) e riprese dal vero di corpi che danzano, pixelate e virate in rosso, accompagnate da un medley Afro-pop. L’opera richiama l’attenzione sui disastri ambientali causati in Martinica e Guadalupa tra il 1972 e il 1993 dall’utilizzo indiscriminato di un pesticida tossico e cancerogeno, il clordecone, da parte di industrie francesi e americane, mentre nello stesso periodo l’impiego della sostanza era già categoricamente vietato nella Francia continentale. A distanza di trent’anni dall’introduzione tardiva del divieto anche in quei territori, questi mostrano ancora i segni della contaminazione. Di nuovo, dunque, come indicato da Stacy Alaimo, si riconferma il profondo legame tra i corpi e i territori che abitano, anche nella malattia.

Chiara Bersani, Deserters, Material Self, Centrale Fies | Photo credits Alessandro Sala / CESURA LAB. Courtesy Centrale Fies
Material Self, Centrale Fies, installation view | Foto di Alessandro Sala. Courtesy Centrale Fies
Material Self, Centrale Fies, installation view | Foto di Alessandro Sala. Courtesy Centrale Fies
Julien Creuzet, still da video | Courtesy the artist