Testo di Alessandro Mondini —
«Un paese ci vuole, non fosse che per il gusto di andarsene via», scriveva Pavese. Tutto a Belluno mi parla di andarsene via. Lo dicono le persone. Lo ribadiscono i numeri, le proiezioni, gli oracoli. Nel bellunese è in corso uno «spopolamento senza fine». È il destino che si sta svolgendo, che divora la provincia e le terre di confine. Un destino che lascia perplessi anche i più ottimisti. Passeggiando per Belluno, colpiscono le decine di locali sfitti. Difficile ignorarli. Tra questi, fino a pochi anni fa, c’era un negozio che vendeva oggetti di legno. Un unico ambiente a pianta quadrata, con un piccolo vano-retrobottega e una vetrina: multum in parvo, quanto bastava per esercitare una professione. Poi la chiusura, il momento di sfitto, il vuoto, il silenzio, finché nel marzo del 2019 è accaduto qualcosa di inaspettato. In quel negozio ha aperto il Burel, il Museo d’Arte Contemporanea della città e della provincia di Belluno. Burel, come il nome di una delle cime della Schiara, le cui creste, crode, guglie, torri, campanili – quelle di Buzzati, proprio così – ti accompagnano ovunque per la città, anche mentre te ne vai.
«Quando nascono queste cose, in territori così difficili, sono sempre dei piccoli miracoli». Tempo fa, Mario Airò lo aveva detto a Daniela Zangrando, direttrice e curatrice del museo. Lei lo ha ricordato di recente, lo scorso sabato 28 giugno, durante l’inaugurazione della prima mostra dell’anno. Un piccolo miracolo, che non sfugge però a certe sbuffate d’ansia e di pessimismo. «Qui non c’è futuro, il Burel non ha futuro», le dicono. «Chissenefrega, abbiamo il presente. Cerchiamo di viverlo tutti insieme». Questa è la risposta.



Il presente del Museo Burel ha un nuovo filo conduttore. Si intitola MASQUERADE. È cominciato una sera di marzo – la notte prima di Carnevale – con un ballo in maschera. Nulla a che vedere con il melodramma di Verdi. Nessuna congiura né regicidio. La musica era techno, l’esperienza liberatoria, il museo una pista da ballo. Una comunità si è stretta e ha danzato, creando il preludio perfetto: «La percezione è stata quella di avere di fronte, vivo, il potere di ogni cosa, di ogni minimo granello». Una maschera può allora cambiare la percezione che hai di te stesso. Può liberarti, renderti ciò che vuoi. Il Carnevale c’è sempre riuscito. Per un giorno o più, i ruoli decadono, i re pure. Il mondo si sospende, la creatività individuale e collettiva si esprime. Una maschera può nasconderti, ma anche mostrarti chi eri prima di indossarla. Così, mentre fai posto a chi vorresti essere, hai occasione di conoscere chi sei diventato. Ed è colpa della distanza, di quel distacco momentaneo, che ti separa da ciò che in realtà ti definisce, contiene, rallenta.
Nato da una parata techno, MASQUERADE arriva dunque all’arte contemporanea. La interroga, le chiede di preparare maschere, strumenti e dispositivi per indagare il presente. Lo stesso presente che ci appartiene e che potremmo vivere assieme. La mostra inaugurata il 28 giugno, l’ultimo di una serie di «piccoli miracoli», è il primo atto di questa nuova indagine. Sulle pareti del Museo Burel – fino al prossimo 10 agosto – sfileranno infatti proiettati gli alter ego di Beatrice Marchi.Daniela li aveva incontrati per la prima volta a Milano, in occasione di Role Play, la collettiva curata nel 2022 da Melissa Harris per Fondazione Prada. Uscì da quella circostanza con addosso un ingombrante senso di irritazione. A infastidirla era stata una di loro: «quel personaggio mascherato, che gira con una coperta sulle spalle», che ne ha ferito un altro e s’è beato del senso di colpa. Il suo nome le rimase in testa per ore, giorni, mesi, anni, quando poi si è trasformato in un’idea: «Voglio lei, voglio confrontarmi con lei».
Intrecciando pittura, scultura, video e performance, Beatrice non ha mai smesso di indossare maschere. I suoi alter ego sono personaggi clowneschi e scarabocchiati. Si presentano come immagini goffe, sintetiche, accroccate, volutamente campy. Scompaiono e riappaiono sulla scena in continuazione, alternandosi tra camei e ruoli chiave, alla pari di eroi ed eroine di ununiverso condiviso, dominato dal crossover. A deciderlo è sempre Beatrice, che le dirige e le interpreta per indagare vissuti personali e dinamiche collettive. Insieme abitano piccoli psicodrammi attraversati da stereotipi di genere, luoghi comuni, conflitti tra generazioni, frustrazioni post-fallimento, attimi di cattiveria e di vulnerabilità. Alle spalle hanno tutte una backstory perfetta per il ruolo che recitano. Questo le rende specialiste inconsapevoli di qualsiasi cosa facciano, dicano o evitino di raccontare. Compreso ferire un altro personaggio.


Per MASQUERADE, Daniela ha scelto Katie Fox, la più irritante e antipatica di tutte: «The more bitch she was, the more adored she was»*, racconta uno dei personaggi di When Katie Fox Met The Evil Turtle (2022), la prima opera-video proiettata in mostra. Katie è un volto di cartapesta incappucciato. I suoi occhi sono neri e anestetizzati; sono cerchi sbiaditi in un trucco pesante – drammaticamente scultoreo – che la fa sembrare una cantante post-punk. Cammina avvolta in una coperta di lana marrone, una specie di corazza morbida ed elettrostatica, dalla quale mostra soltanto i suoi knee boots di pelle. Un tempo Katie era la leader dei bulli. Veniva adorata per questo, «faceva faville». Adesso non più. Crescendo, il pubblico le ha chiesto di cambiare, di diventare qualcun altro. Lei si è rifiutata, non voleva saperne. Ha scelto di rimanere la ragazzina spaccona di sempre. Quella che molti avevano amato, applaudito, incoraggiato. Non immaginava che presto avrebbe perso tutto. Perfino il suo senso di colpa. Per ritrovarlo ha dovuto ferire una tartaruga di nome Ciuffa. Un personaggio precipitato involontariamente in questa trama, una vittima voluta dalla storia. «She’s not been the same, since the crash»**, avvertono. Ciuffa è diventata violenta, volgare, rabbiosa. Vorrebbe vendicarsi, «spaccare» Katie. Beatrice le ha fatte perciò incontrare di nuovo. Entrambe sono malvagie ora. Tra le due, mi domando qual è la maschera più terribile, misera e infelice. Forse Katie Fox, che ha scelto di essere cattiva per inseguire il successo? Oppure Ciuffa, che lo è diventata per colpa di un evento traumatico? Beatrice non si sbilancia. Con un’altra domanda ci trascina in una situazione di stress: «Can an accident bring you to the evil side?»***.


Katie e Ciuffa non sono le sole in mostra. Nella stanza accanto, nel piccolo vano-retrobottega, è proiettata un’opera inedita. Si tratta di When We Will Meet Again (2024). Protagonista è stavolta una famiglia di cani, un insieme di personaggi, maschere e alter ego che Beatrice aveva già trattato in opere precedenti, come Rex, Gimy e Lulu (2010), The Mafalds (2018-2019) e The Escape (2019). È una giornata di sole. Adulti e cuccioli sono ritratti su una spiaggia. Non sappiamo come ci siano arrivati, né quale sia la loro destinazione. Ci muoviamo tra di loro, li osserviamo da diverse inquadrature e angolazioni. Questo momento scivola sulla parete come una raccolta di diapositive. L’elemento sonoro è quasi assente. A parlare è soltanto il paesaggio, il mare, le onde, la risacca. Sovraimpresse sulle immagini si rincorrono le frasi di un dialogo muto, che non ha voce. Così ci stringiamo nella sala, riduciamo la distanza tra noi e la proiezione, in attesa di un sospiro, di capire chi sta parlando. È un racconto di oppressione, di decisioni prese, di solitudine. C’entra un «Padrone». Penso di nuovo a cosa scriveva Pavese: «[…] il mondo è pieno di padroni che aizzano cani». Il libro è sempre quello. Si intitola La luna e i falò. Lo stavo rileggendo per caso. Un libro che parla di gente che se ne va, che scappa dai propri paesi. Paesi che sono diventati come padroni. Che opprimono, soffocano, limitano. Ma la soluzione non dev’essere per forza andarsene. Lo sottotitola anche Beatrice: «We didn’t know that we could defeat them if we united»****. È sufficiente questo. Il Museo Burel l’aveva capito già da tempo. Diamogli fiducia.
*Più era stronza, più era adorata.
** Non è più stata la stessa dall’incidente
***Può un incidente portarti a stare dalla parte del male?
****Non sapevamo che avremmo potuto sconfiggerli se ci fossimo uniti
