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Tutta la sua lungimirante e immaginazione, è racchiusa nella prima grande sala del piano terra di Palazzo Grassi. Nelle innumerevoli teche sono custoditi quasi tutti i personaggi, i luoghi e le icone che l’artista ha disegnato, dipinti e immaginato in oltre 50 anni di carriera. Piccoli esseri che escono da altrettanto minuscoli bidoni di latta, semidei panteisti avvolti da frutti e fiori, pescatori di immagini, ginnasti lillipuziani, putti muscolosi, giocolieri, giovani corpi intrecciati e gioiosi, funghi, animali, busti di donne dalla bellezza antica…
La mostra di Martial Raysse ospitata a Palazzo Grassi fino al 30 novembre, mette in luce la sua bravura e sensibilità come “cronista” dell’ultimo mezzo secolo, ma anche sottolinea la sua capacità di rileggere la storia dell’arte in modo inconsueto. Raysse è il tipo di artista che ha fatto dell’indipendenza la regola per la sua produzione artistica. “Probabilmente ho sempre fatto delle scelte seguendo la mia natura, il mio istinto. Non potevo fare altrimenti. E’ stato difficile alcune volte, perché notavo delle forme di ingiustizia. Non volevo infatti scendere troppo a compromessi. E’ il teatro della vita che ti induce a stare alla ribalta o lavorare, invece, in modo sotterraneo, ma più autentico. Io ho preferito questa seconda via. La storia dell’arte che conosciamo non è quella “vera”. La storia dell’arte, per molti versi, è fatta da chi vende. Il sistema dell’arte dà lavoro e impegna molto persone, ma, in fondo, non è così importante. Se una persona rimane integra, concentrata, non si deve preoccupare troppo delle correnti o dei trend. L’importante è che un’artista creda in se stesso, in quello che fa e che lo faccia in modo onesto. Questa consapevolezza e integrità è un esempio per il resto della società. Questa è una cosa che ritengo importante.”
L’onesta che trapela dalle sue parole rivela quanto l’artista tenga in massima considerazioni tutte le forme poetiche espressione dell’animo umano. Ma non solo, anche il fatto di considerarsi da sempre un poeta, fa di lui un artista completo e profondo. “Mi sono sempre vissuto come poeta. Molto presto ho illustrato le mie poesie… Ma solo quando ho davvero preso coscienza dei limiti imposti dalla tradizione dei testi in una lingua straniera, specie dei testi poetici, ho deciso di esprimermi attraverso la pittura. Lingua che considero la più universale. Non ho mai voluto essere pubblicato, come un poeta accreditato. Nel corso del tempo, solo alcuni sonetti.” (Martial Raysse, 7 settembre 2013 – Estratto dal catalogo pubblicato in occasione della mostra a Palazzo Grassi, edito da Marsilio).
Fin dai suoi esordi è stato definito “l’enfant terrible” dell’arte francese. Originario della Costa Azzurra è cresciuto artisticamente con Arman, Cèsar, Yves Kline e Jean Tinguely e, nel ’60, firma il manifesto del Nouveau Réalisme, la corrente artistica affermatasi in Francia con Yves Klein e la Scuola di Nizza nel 1960 per impulso del critico Pierre Restany e che ha per oggetto materiali prelevati dalla realtà, siano essi oggetti banali di uso quotidiano, scarti o, addirittura, rifiuti. Magazzini per depositi, supermercati, riviste patinate, moda: Raysse assembla, maneggia, incastra stimoli e impulsi moderni. A soli venticinque anni, partecipa ad importanti mostre in musei prestigiosi come il MOMA di New York e lo Stedelijk Museum ad Amsterdam. E’ in questo periodo, attorno agli inizi degli anni ’60, che da vita ad una delle opere che lo renderanno celebre “Raysse Beach”: opera antesignana dove unisce in una grande installazione – si noti che negli anni ’60, non era ancor in voga questa parola per definire lo sviluppo di un’opera nello spazio – composta da sabbia, finte pubblicità di donne in bichini, un juke box funzionante e un delfino di plastica gonfiabile (vi ricorda qualcuno?). Questa grande opera domina per intensità e incisività il percorso del secondo piano della mostra. Sono trascorsi più di cinquant’anni dalla sua creazione, e ancora oggi questo “ambiente balneare” rappresenta gli eccessi della società dei consumi, “un paradiso artificiale sul quale regna sovrano un ottimismo trionfante.” (Andrea Bellini, Ici Plage, comme ici-bas, saggio pubblicato in catalogo).
Nel 2012 Martial riprende il tema della spiaggia coniugandolo con segni e allusioni tutt’altro che ottimiste. Nel quadro “Ici Plage, comme ici-bas” di 9 metri di larghezza, l’artista dipinge un’umanità frastornata, ebbra non di vitalità ma di eccessi. Il colore della pelle si fa specchio di sentimenti tutt’altro che benefici: furbizia, vanità, noia, apatia, intontimento. I corpi sembrano animati da una strana frenesia; la prima fila, in mostra più di altre, ancheggia, ammicca, seduce. Nello sfondo masse di persone stipate, aggrovigliate. La sensazione è quella di trovarsi di fronte ai grandi quadri di parate dei secoli scorsi, oppure alle grandi manifestazioni religiose di secoli addietro. Ma qui non ci sono né dei né alterità: solo carne artificiale, corpi standardizzati e scene di massa deliranti. Tra queste grandi opere – “Raysse Beach” 1962 e “Ici Plage, comme ici-bas” 2012 – si sviluppa la grande retrospettiva, installata senza seguire né un tema né una cronologia. Il filo rosso che lega quasi tutta la sua produzione – a parte quella iniziale dove era più cogente l’umore del Nouveau Réalisme e della cultura pop – è l’influenza del grande patrimonio artistico e la storia dell’arte. Dai pittori italiani del ‘500, dal Tintoretto al Veronese, ma anche quelli nordici, da Cranach a Grunewald… ma anche Caravaggio, Rubens… per giungere alle grazie di Ingres, o ancora più vicini al contemporaneo con Dix, Ensor, Magritte… Ma sono solo alcuni degli innumerevoli che si potrebbero citare, allargandosi anche alle icone della moda, ai cliché domestici.. alle tantissime presenze femminili, a volte bellissime a volte decisamente inquietanti; dipinte, accarezzate con il pennello oltre con lo sguardo, amate e forse anche invidiate per il loro impossibile e irrisolvibile mistero (“Sono attratto dalle donne perché sono ‘altro’ da ciò che sono, dunque un mistero da capire.”)
Rinunciando alla “fuga in avanti” tipica delle avanguardie del XX secolo, Raysse si concede il lusso della riflessione, dell’osservazione e di temi rivolti al passato, come la mitologia e la storia dell’arte. “Da lungo tempo ho tratto insegnamento da tanti pittori vissuti anche secoli prima di me. Ad esempio, c’è un piccolo disegno di Leonardo in mostra. Perché l’ho scelto? Perché ritengo che Leonardo sia l’artista più sfuggente e difficile da afferrare. Ma ne potrei anche citare tanti altri, Savoldo, Moroni, Moretto da Brescia, i pre-caravaggisti. Quello che lega questi artisti è che quasi tutti hanno lavorato avendo come riferimenti i grandi maestri vissuti prima di loro. E così voglio fare anche io. (…) L’arte moderna e contemporanea non mi interessano così tanto. Non vedo questa evoluzione in senso positivo. Quello che avviene dopo Cezanne lo considero, per molti versi, un esercizio retorico. Dopo Cezanne gli artisti per sviluppare il proprio lavoro, hanno elaborato quello che c’è stato prima di loro, andando a creare il fenomeno dell’“arte per l’arte”. Ogni opera è diventata così un’elaborazione (o una negazione) di ciò che c’è stato prima, senza aggiungere nulla a ciò che c’è già, o molto poco.”
E’ commovente il quadro “Pauvre de nous” (Poveri noi), datato 2008. Ci mostra un pittore (che potrebbe essere lo stesso artista) mentre si stringe la testa con entrambe le mani: un tipico gesto che rivela stanchezza e abbattimento. Alle spalle di quello che è senza dubbio un pittore, un tavolo dove si vedono pennelli e piatti imbrattati di colore, accanto a dei pesci, un tozzo di pane, una teiera, un vaso con dei fiori, una piccola statua che ricorda la scultura in bronzo di Raysse, “D’une fle?che mon cœur perce”? (2008) e un martello. E’ significativa la presenza di questo oggetto ‘distruttivo’, così come è denso di spunti il chiodo alla parete e il camino spento. Anche il corpo avvolto da più strati di indumenti, sembra raccontare di una stanza fredda e umida. La tristezza e la chiusura al mondo che sembra esprimere questo dipinto, sembra fare eco alle parole dello stesso Martial: “Uno dei temi che ho sempre affrontato con il mio lavoro, anche se non è palese, è la gravità della vita, la serietà che aleggia nell’esistenza dell’uomo”.