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Intervista di Costanza Sartortis —
Prosegue fino al 18 gennaio 2018 la mostra MARIO GIACOMELLI: Per tutti la morte ha uno sguardo presso NonostanteMarras (via Cola di Rienzo 8, Milano). La mostra, curata a quattro mani da Francesca Alfano Miglietti e Giacomo Pigliapoco, in collaborazione con l’Archivio Mario Giacomelli e Katiuscia Biondi, ripropone con degli inediti accostamenti una cinquantina di scatti tratti da alcune delle più celebri serie del fotografo marchigiano. È così che l’intrinseco legame tra poesia e fotografia accompagna lo sguardo del visitatore nel mondo bianco e nero del fotografo.
Ne abbiamo parlato con Giacomo Pigliapoco.
Costanza Sartoris: Il legame di Giacomelli con la parola e la poesia appare evidente in tutta la sua ricerca fotografica. Come mai hai scelto il verso di Cesare Pavese Verrà la morte e avrà i tuoi occhi tra i tanti scelti da Giacomelli per intitolare le sue serie?
Giacomo Pigliapoco: Forte è il legame tra fotografia e poesia. Numerose infattisono le serie che Mario Giacomelli dedica a poeti e dai quali prende spunto: Montale, Leopardi, Caproni, Pavese, Dickinson, Corazzini, Borges, Permunian, Lee Masters, Cardelli, Luzi, Padre David Maria Turoldo…
Verrà la morte e avrà i tuoi occhi è uno dei titoli che Giacomelli diede alla serie sull’ospizio di Senigallia, tra gli altri ricordo: Ospizio, Vita d’ospizio, Non fatemi domande, E io ti vidi fanciulla…
Passando ora alla mostra: Per tutti la morte ha uno sguardo è il verso che apre la seconda strofa del componimento di Pavese ed evidenza denotativamente gli ultimi attimi di vita degli oggetti e dei soggetti presenti. L’associazione occhi-morte del titolo, pone un dialogo tra due o più interlocutori: tra singolo e molteplicità, in questo caso tra lo spettatore e i diversi scatti. La serie, caratterizzata dal ruolo che hanno avuto gli anziani dell’ospizio nel suo percorso con gli sguardi perduti dei suoi protagonisti, pone in dialogo quest’ultimi con le figure spettrali di Motivo suggerito dal taglio dell’albero (1967/69), con le scorticature e lacerazioni di Metamorfosi della terra (Paesaggi) (1956/1976), Presa di coscienza sulla natura (Paesaggi) (1977/2000) e infine con gli indeboliti e intorpiditi ferri di Poesie in cerca d’autore (1970/2000). Un’atmosfera cruenta, quindi, struggente e in decadimento è quella che si respira alla mostra da Nonostante Marras. Un invito allo spettatore a sviluppare pensieri e connessioni soggettive e individuali su quei luoghi e con quelle persone con le quali Mario Giacomelli aveva instaurato un legame profondo.
CS: La mostra sembra articolare una narrazione quasi retrospettiva della ricerca di Giacomelli: dal primo scatto Approdo del 1953 alla serie Poesie in cerca di autore (1970/2000). Puoi parlarmene?
GP: Non penso che la definizione retrospettiva si adatti a questo progetto. Anziché ripercorrere i momenti di un processo evolutivo nel campo artistico e tecnico, infatti, lo scatto Approdo (1953) dichiara come già nel primo Giacomelli ci sia una ricerca di sé stesso che si svilupperà poi negli anni a venire. Si potrebbe definire una narrazione introspettiva, in grado di svelarne la parte più nascosta e stratificata: la dimensione dell’infanzia di Mario Giacomelli, segnata in modo indelebile dalla perdita del padre, dal dolore suo e della madre, dalla tragedia collettiva dell’umanità in guerra, da volti e corpi sfigurati.
Un percorso espositivo che vede quindi come punto di partenza il suo primo scatto affiancato ad un autoritratto tratto dalla serie Poesie in cerca di autore (1970/2000) che, invece, è un serbatoio/magazzino dove venivano lasciate fluttuare le fotografie realizzate negli anni, in attesa di un raggruppamento definitivo in una nuova serie.
CS: Giacomelli parla delle sue fotografie come “autoritratti”: secondo te che peso ha il figurativo, e quindi in un certo senso anche il ritratto, nel suo lavoro?
GP: Giacomelli inizia ad utilizzare la macchina fotografica realizzando ritratti della madre e della moglie, ma questo primo passo tuttavia non sembra essere più sufficiente. Inizia così a scattare soggetti complessi e tormentati come i suoi pensieri, le sue idee, le sue passioni e le sue paure.
Se penso al figurativo di cui parli, e al ritratto, mi focalizzo subito sulle figure antropomorfe delle sezioni degli alberi. Gli alberi sono figurativi in quanto rappresentano la realtà nei suoi aspetti concreti, con la forma propria che hanno in natura e sulla verosimiglianza che condividono con l’individuo. Figure sì, ma anche materiali capaci di riflettere la complessità della propria dimensione interiore e della condizione umana. D’altro canto il reale convive con la metafisica nell’immaginario di Giacomelli: basti pensare allo sguardo avvizzito dei contadini de La buona terra (1964/1974). Degrado fisico, occhi vuoti e decadenza dell’individuo, quindi, determinano la complessità di uno stato interiore profondamente segnato.
CS: Per concludere, in che modo secondo te Giacomelli trascende il medium fotografico?
GP: Penso che il fare di Giacomelli superi il medium fotografico e vada ben oltre la sua dimensione di reportage e documentazione approdando sulla battigia di un nuovo luogo per lui ancora inesplorato: la conflittualità interiore. La macchina fotografica, infatti, era vista come un mezzo meccanico da manipolare, come una protesi che prendendo vita nelle sue mani, permetteva di realizzare un processo di totale o parziale liberazione da gravi e persistenti contrasti.
Le manipolazioni in camera oscura erano poi momento di sperimentazione extra-fotografica in cui, tramite bruciature e maschere, Giacomelli si immergeva nella materia per piegarla senza limitazioni, a suo completo piacimento.
La sua fotografia va oltre e diventa vita. Fotografia come catarsi: via d’uscita dalla sofferenza del reale.
La natura è lo specchio entro cui io mi rifletto, perché salvando questa terra dalla tristezza della devastazione, voglio in realtà salvare me stesso dalla tristezza che ho dentro. A volte ho usato un negativo scaduto, uno strumento già morto, proprio per accentuare questa sensazione, ottenendo un effetto di neri che diventano tutt’uno con le zone intorno. ¹
¹ G. Celant, Mario Giacomelli, Photology-Logos, Milano, 2001.
Mario Giacomelli, pensieri e frammenti….
“Ho cominciato a vedere le macchie sul muro, i fili di ferro. Sono meravigliosi. Così poi ho fatto l’ospizio. Ci sono andato tre anni senza macchina fotografica. Quando fotografavo pensavo a quello che si dice su Dio: che è buono, che non si muove foglia che lui non voglia… ma quello che ho visto, nell’ospizio… Sembra che le foto possano essere indifferentemente buone o cattive e che tutto sia un po’ affidato al caso, invece non è così. A volte nascono dal niente o dal tutto che è la stessa cosa. Io cerco di fotografare i pensieri. L’oggetto mi è utile per trasmettere quello che vuole dire. Niente viene a caso, il bianco, il nero. Come nella famosa foto di Scanno: la figura nera aspetta il bianco. (…)
Dopo l’ospizio ho realizzato Scanno, la Puglia e riflettevo sempre su quello che facevo, su quel che avevo fatto. Un anno dopo l’ospizio ho fatto Lourdes. (…)
Era una situazione da star male, non c’era niente da fare. (…) Per me non è importante la foto singola, ma la serie, il racconto. Ciò che conta è quel che nasce nella mia mente. Quasi sempre mi capita di vedere le foto prima di farle. Anche la serie dei pretini è nata dal mio interesse per la gente umile, povera. Loro erano tutti figli di contadini. Mi attirava quella situazione, mi attiravano le sottane lunghe. Così come, fotograficamente, il nero mi attira, il bianco mi attira. (…)
A volte la vita è così, c’è un caso cui neanche pensiamo. Per me, prima nascono le foto e poi, magari, trovo una poesia adatta. Quelle foto, ad esempio, all’inizio le chiamavo Pretini e basta. Dopo, disgraziatamente, ho messo il titolo della poesia di David Maria Turoldo “Io non ho mani che mi accarezzino il viso” e tutti ora le chiamano così. Ci sono tante cose da vedere quando si fa una foto. Io poi sono nato grafico, fotografo e grafico e questo mi ha aiutato molto. “