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Quando Maria Morganti racconta, descrive o introduce le sue opere, esegue coinvolgenti movimenti con le braccia. Muove le dita, disegna dei segni nell’aria. Gesti che, per molti versi, danno rilevanza a ciò che tenta di spiegare e far capire. Attraversando il grande spazio della galleria Ottozoo di Milano – che ospitano fino al 16 maggio la sua bella mostra “Pronuncia i colori”, a cura di Francesca Pasini – l’artista si ferma su ogni opera, ne introduce la nascita, ne racconta lo sviluppo. A volte rafforza il racconto con aneddoti, con coincidenze.
Tentativi, esperimenti narrativi: Maria sa benissimo che il nodo della sua opera non si scioglie come il pigmento nella trementina. Il mistero che questa artista custodisce è a dir poco affascinante. E’ risaputo che non c’è nulla di più ambiguo della definizione di un colore. Sono state scritte – possiamo ben dirlo – biblioteche intere sulla sua sfuggevolezza e precarietà. Ascoltando le parole della Morganti, ho anche la sensazione che sia un tentativo vano quello di ragionare sulle sovrapposizioni, sugli accostamenti, sul liminare confine tra un motivo cromatico e un altro. Giungo alla conclusione, anche grazia alla sua sensibilità, che i colori sono come i sentimenti, le emozioni: come spiegarli fino infondo, come motivarli o renderli ragionevole comunicazione?
A ragione la curatrice della mostra Francesca Pasini scrive in catalogo: “I quadri di Maria sono molto lontani dall’astrazione monocroma, sottoscrivono vicende personali, affetti, incontri, tempi intimi, consequenziali. Il confine e la tela sono in relazione come il nome e il cognome. Un legame indissolubile, dove le tracce di sé sono sempre un accumulo, fatto di stratificazioni, di sedimentazioni, e non a caso questi sono i titoli dei suoi lavori, di impastamenti (altro suo titolo) dove, gli stati di pongo stesi sulle tavole giorno dopo giorno, all’improvviso si rimpastano su sé stessi”.
Il percorso della mostra parte da uno “scarto”, da un foglio di carta che l’artista ha utilizzato per non sporcare il suo tavolo da lavoro, una copertura dove collocare i quadri e lavorarli. “Impronta Carte/ Diario 2010-2012” è un accumulo di limiti e sbavature, eccedenze e casualità. E’ un po’ la summa di due anni, una descrizione emozionale del tempo dell’artista, il suo vissuto.
Colore, colore e ancora colore: l’impasto del tutto, la mutevolezza della luce, la complementarietà dei toni, l’aggressività di certe tonalità. L’indeterminatezza, quando si parla del suo lavoro, la vince su ogni tentativo di definizione. E’ come se, il potere del colore abbia la meglio sulle probabilità di capirlo, di afferrarlo. E questa incertezza è anche la forza dell’opera – tutta direi – della Morganti. Se ci arrendiamo alla volontà di spiegare dove persiste la bellezza della sua opera, ci accorgiamo che, per molti versi, l’abbia già fatta nostra. Il linguaggio di questa artista, infatti, oso dire che ha dell’ ‘assoluto’ che parla in modo poetico e visionario a tutti di un ‘tutto’ che fa parte del’esistenza.
Le stratificazioni/sedimentazioni sono giornate e vissuti. I ponghi – come raccontava l’artista stessa – hanno a che fare con il tempo, con la memoria e i ricordi. Anche con forme di oblio, di flash-back, di emozioni che, diteggiate, si impastano e confondono.
“Il colore” racconta la Morganti, “non è mai uguale a sé stesso. Non uso il colore puro, è sempre sporcato da un altro, in più ne ho uno sotto che lo rende diverso, in qualche modo fragile. Non è possibile riprodurre se stessi identici. Nel momento in cui mi sono ripronunciata non ero più identicae quel verde è diventato un altro verde”.
Elena Bordignon