Testo di Cecilia Larese De Santo —
Nata a Lisbona e formatasi a Parigi, Maria Helena Vieira da Silva ha costruito una delle poetiche più originali e complesse del Novecento. La mostra, presentata negli spazi veneziani della Peggy Guggenheim Venezia e visitabile fino al 15 settembre, ripercorre il suo lavoro dagli anni Trenta fino alla sua scomparsa negli anni Novanta.
Artista di formazione accademica e figurativa, il suo interesse per l’architettura nasce da un’intuizione profondamente umana: lo scheletro, inteso come metafora della struttura essenziale del corpo. Affascinata da questo pensiero, concepisce le sue prime opere – di dimensioni intime e dense di piccole pennellate – come degli studi anatomici dello spazio. Composizione (1936) e Le tessitrici (1936) sono esemplari per comprendere il linguaggio radicalmente personale che Maria Helena ha creato nel corso degli anni, fatto di rigorosi reticolati capaci di mantenere i lavori su un piano astratto.
Al centro della sua visione vi è assenza delle gerarchie spaziali: non esiste un primo piano né uno sfondo, le strutture emergono libere, senza nessun vincolo. Spazi esterni ed interni, biblioteche e stazioni ferroviarie non vengono mai rappresentati in maniera mimetica ma tramite piani che si sovrappongono, si incrociano e si confondono. La prospettiva rinascimentale viene così scardinata per lasciare posto a un’organizzazione spaziale simultanea, dove ogni elemento è pari all’altro e ogni punto di vista è relativo. In questo senso, l’arte di Vieira da Silva rappresenta un perfetto connubio tra Futurismo, Cubismo analitico – innegabile l’influenza di Cézanne nell’opera Scacchiera rossa o giocatori di scacchi (1946) – e la tradizione dei mosaici portoghesi, in particolare quella degli azulejo, tipiche piastrelle in ceramica che rivestono chiese e palazzi. Nonostante le influenze delle avanguardie l’artista mantiene un forte legame con la figurazione: soggetti come ballerini, arlecchini, giocatori di scacchi e carte prendono vita attraverso la giustapposizione di piccoli tasselli vibranti. La scelta di una palette dinamica, a tratti caleidoscopica, rafforza il legame con la dimensione ludica dei soggetti. Il gioco, quindi non viene inteso solamente come un tema ma diventa una chiave interpretativa della sua visione pittorica che si costruisce attraverso spazi labirintici e prospettive instabili. Un universo di forme dove l’occhio è invitato a perdersi, come accade in Il gioco delle carte (1937) in cui i colori primari si susseguono creando un allegro mosaico figurativo. Le variazioni minime dei riquadri le permettono di mantenere una schematicità che non diventa mai rigida mentre le vibrazioni ottiche che questi creano, inducono lo spettatore in uno stato di continua sospensione.


Con lo scoppio della seconda guerra mondiale, Vieira da Silva è costretta a scappare, insieme al marito Arpad Szenes, verso il Rio de Janeiro. Le opere di questo periodo abbandonano i colori vivaci e gli spazi labirintici, lasciando il posto a tonalità più scure e linee decisamente morbide. In Il carnevale di Rio (1944) la gioia e l’esuberanza della festa, tipiche del paese sudamericano, cedono il posto ad ombre di inquietudine e disillusione mentre in Naufragio (1944) le esili figure umane si fondono con un mare nero, creando una composizione fluida e tragicamente magistrale. Quest’opera si ispira a La zattera della Medusa (1818-19) e rappresenta la risposta dell’artista al dramma e alla sofferenza che incombe su tutta l’Europa, esperienza che vive in modo sincero nonostante la distanza dalla sua città natale e da Parigi.
Il ritorno in Europa segna una nuova fase. In un clima più disteso, Maria Helena ritrova la sua energia creatrice e torna a dipingere le sue amate architetture anatomiche. Lo spazio urbano e il mondo dei cantieri diventano nuovo elemento di studio, come rappresentano le due opere omonime del 1950, mentre il tema del labirinto viene affrontato come una vera e propria riflessione sociale. In Dedalo (1975) le linee e le forme complesse si stratificano e prendono una dimensione ritmica, tanto da far perdere qualsiasi tipo di dimensione prospettica. Interno e esterno si intersecano e talvolta divergono, consentendo al tempo e alla distanza di diventare infiniti. Questi lavori sono un perfetto esempio del suo approccio post guerra, in cui i toni diventano più sobri – come quelli dei bruni e dei blu – e le tele evolvono in formati maggiori. In questo florido periodo vede anche due partecipazioni alla Biennale di Venezia, nel 1950 all’interno del padiglione portoghese e nel 1954 in quello francese.
A concludere questa retrospettiva, una luminosa sala ospita opere appartenenti a fasi differenti del suo lavoro ma accomunate da un elemento: l’utilizzo del bianco e delle sue variazioni, il colore che più l’artista ha amato e indagato. Questa sezione finale, restituisce una sintesi armoniosa della sua visione, offrendo un momento di sospensione, per riflettere su uno degli sguardi femminili più radicali e toccanti del Novecento.
Riscoprire Maria Helena Vieira da Silva significa aprire una pagina ancora poco esplorata della storia dell’arte europea: quella scritta da una donna che ha saputo abitare l’astrazione con profondità e poesia.
Cover: Maria Helena Vieira da Silva Maria Helena Vieira da Silva, Anatomia di uno spazio Installation View, Photo Matteo De Fina



