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Uno scambio di impressioni su Manifesta 11 tra Marina Dacci (Direttrice della Collezione Maramotti) e la curatrice indipendente Marinella Paderni.
Hai l’impressione che questa biennale sia un corpo estraneo nella città?
Marina Dacci: Parlando con la gente comune che vive a Zurigo nessuno sembra conoscere questo progetto, a cosa aspira e dove è dislocato. Mi è capitato di parlare con taxisti, persone del luogo per strada, anche giovani universitari, gestori di negozi…nessuno ne era a conoscenza. Insomma se l’obiettivo principe di questa edizione era la capacità di avvicinare la gente comune all’arte contemporanea mi pare che alla sua apertura non sia stato raggiunto: forse bisognava lavorare nella città con incontri preparatori come di solito si fa con progetti di arte pubblica o sociale?
Marinella Paderni: Nonostante ci siano le mappe di Zurigo con le indicazioni dei luoghi espositivi, la ricerca diventa tortuosa, ci si perde un po’ e non si trovano facilmente le mostre. Bisogna chiedere alla gente locale, che spesso non è a conoscenza dell’evento. Alla fine, mi è sembrata una “caccia al tesoro” senza premio, visto che i progetti personali degli artisti invitati erano esposti in attività commerciali o in studi di professionisti con orari di apertura tutti diversi e non sempre di facile accesso. In alcuni bisogna prenotarsi con largo anticipo e, considerando il folto numero degli spazi da visitare, si chiede al visitatore una grande disponibilità di tempo. In altri casi, si tratta di azioni o performance che non hanno sempre luogo: se manchi alla prima occasione, ti perdi il senso del lavoro.
Cosa ne pensi dell’idea curatoriale di questa edizione?
Marinella: Pensando al lavoro di Christian Jankowski, il tema scelto dall’artista tedesco ( What People Do for Money: Some Joint Ventures) sembra un’emanazione della sua ricerca artistica. Il che può essere un punto di forza, se i 30 artisti e i 30 professionisti da lui scelti riescono a lavorare sinergicamente bene. Tuttavia, un progetto del genere è difficile da gestire, soprattutto quando la macchina organizzativa non lavora alla perfezione. Come è accaduto in alcuni casi, lasciando incompleta la realizzazione del progetto. In altri casi, si è avuta la percezione che la sinergia non fosse sempre riuscita e che ci fosse una distanza tra il progetto dell’artista, il professionista e il suo luogo di lavoro, sede espositiva del progetto. È il caso della videoinstallazione di Georgia Sagri dentro la banca Julius Bär, la performance culinaria di John Arnold e l’installazione di Santiago Sierra al Helmhaus. Ho apprezzato invece l’ironia del tema in relazione all’identità della città, molto centrata sulla finanza e sul business.
Marina: Assolutamente d’accordo con te. L’idea del lavoro, anche quello comune e semplice, come forza creativa e generatore di energia mi piace. I progetti però che ho visto nelle sedi centrali e nelle aree satellite (confesso non tutti) a volte mi hanno trasmesso un po’ l’idea di facili “trovate”, a volte non ho saputo rintracciare un chiaro nesso con lo statement curatoriale, a volte non ho trovato chiaro neppure il rapporto tra le opere storiche e i progetti commissionati, a volte poi il risultato formale dei progetti era decisamente poco interessante. Non so a chi è imputabile una “ responsabilità”: al processo organizzativo di produzione? Alla modalità di lavoro degli artisti? All’insufficiente interesse dei guests? Questo non è dato sapere)…
Cosa dicono gli italiani dell’artworld che hai incontrato?
Marinella: Mi sono sembrati perplessi, come me del resto. Non ho sentito particolare entusiasmo da nessuno.
Marina: Perplessi è dir poco. Quasi tutti delusi.
Cosa ti sembra felicemente riuscito e potente?
Marina: Il progetto che mi ha veramente trasmesso la sensazione di essere una vera partnership, di essere profondamente radicato nello spirito del luogo ospitante e nella storia della città è stato quello di Evgeny Antufiev. Antufiev è riuscito a dare continuità alla sua ricerca pluriennale sul tema di morte/immortalità creando uno scambio fecondo a livello mistico e ontologico col pastore Martin Rush nel corso di una relazione di lunga durata. Un lavoro profondo e lirico che ha portato addirittura alla produzione a quattro mani di alcuni lavori nella Wasserkirche. Anche la “macchina patafisica” di Jon Kessler in un laboratorio di orologeria, costruita assimilando la perfezione “meccanica” del volo d’uccello ai congegni interni dell’orologeria di precisione. I video con le immagini a volo radente sulla città si alternano al rumore ritmico degli ingranaggi in un gioco in cui lo scandire implacabile del tempo riesce a divenire un elemento poetico. L’accoglienza in questo spazio, la discesa nei laboratorio mi hanno restituito il piacere della scoperta.
Marinella: Si’, sicuramente l’installazione di Eugeny Antufiev dentro la Wasserkirche – così poetica nel suo approccio trasversale alla storia delle persone, dei luoghi e delle cose – e il bel dispositivo spazio-tempo di Jon Kessler; ma anche il lavoro dello scrittore Michelle Houellebecq sulla rappresentazione del corpo biologico, che mi ha sorpreso per la sua capacità di passare in maniera così sublime dalle parole alle immagini per sintetizzare alcuni dei suoi temi più importanti.
Come ti sono sembrate le due mostre delle sezioni principali?
Marina: In generale ho avvertito un senso di confusione e compressione allestitiva che mi ha tolto concentrazione nella lettura delle singole sezioni /opere. Poi non ho capito perché certi progetti sono stati davvero compressi senza un respiro spaziale mentre a altri, decisamente meno interessanti, sono state lasciate intere sale. In ogni caso meglio l’Helmhaus: lì almeno “i vuoti “ di rispetto compensavano “i pieni” dei lavori.
Marinella: La mostra al museo Helmhaus presenta alcuni bei progetti (Houellebecq, Kessler, Antufiev, Ledare, Arnold), mentre la sezione storica più ampia presentata al Löwenbräukunst mi ha detto poco: alcuni lavori storici notevoli ma male esposti (come un gruppo di fotografie di August Sander installate all’ingresso di una sala semibuia) o nuove opere veramente poco interessanti, come le tonnellate di escrementi essiccati prodotti in un giorno dagli abitanti di Zurigo (Mike Bouchet). Poi ci domandiamo come mai l’arte contemporanea non interessa alla gente…
Ti è piaciuto il modello espositivo adottato dal curatore?
Marinella: Disseminare i progetti artistici in diversi posti della città è un tipo di display già diffusamente adottato, consente all’artista di creare opere in dialogo con la comunità ospitante, al visitatore di scoprire contesti e realtà che non si conoscono o non s’immaginano. Trattandosi di Manifesta e di un curatore-artista, mi sarei auspicata un’idea più nuova, non così established, capace di aprirsi a pratiche oggi ancora poco esplorate. Anche le installazioni di alcuni singoli artisti sono risultate troppo legate ad un modello espositivo un po’ datato, se si pensa che diversi di loro sono della generazione nati negli anni Ottanta, quella che dovrebbe rappresentare la frontiera del nuovo.
Marina: Aggiungo: senza senso il padiglione in legno sul lago, seppure di buon design, che accoglie i filmati legati al processo di produzione dei progetti; un luogo pieno di luce che rende quasi invisibili i video . Poi metterli tutti insieme (da notare che sono quasi film) richiede forse che un visitatore stazioni lì col sacco a pelo e rende pesante e insulsa la visione di ciò che poteva invece costituire un interessante frammento documentale accostato alla produzione artistica finale. Poi penso a un visitatore medio che non spende più di un paio di giorni in città: troppi luoghi in un raggio territoriale abbastanza esteso e con orari diversificati: se devono esserci tempi minimi di sedimentazione servirebbe una settimana a Zurigo!