Luigi Ontani – ALBERICUS BELGIOIOSIAE AUROBORUS, Massimo De Carlo, Milano

Una costante, un file rouge: oro zecchino, pure gold, in ogni lavoro, fuorché BellimBustini (2013-2014). Sollevandosi in spazi eterei e senza confini, sfiorando il divino, l’ignoto, l’esteso, si giunge comunque sempre al sé, egualmente infinito, illimitato e camaleontico.
10 Febbraio 2019
Luigi Ontani - Albericus Belgioiosae Auroborus - Installation views Massimo De Carlo, Milan:Belgioioso - Photo by Roberto Marossi - Courtesy Massimo De Carlo, Milan/London/Hong Kong

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Testo di Valentina Bartalesi

Introducendo la Body Art nel celebre saggio La Body Art e altre storie. Il corpo come linguaggio (pubblicato per la prima volta nel 1974) Lea Vergine riconosceva nel corpo – o meglio nella scoperta della sua fisicità e della sua dimensione psichica – una forma di “linguaggio” viscerale, attraverso cui fare esperienza degli istinti più intimi, profondi e “patologici” dell’individuo. Il corpo incarnava, con le sue caratteristiche fisiologiche e le pulsioni alle quali soggiace o resiste, il luogo dell’identità. Un’identità non necessariamente conclusa e definita , ma incandescente ed elastica, plurale perché soggetta ad un inarrestabile processo di introspezione ed espansione.

Così il corpo quale “spazio” di riflessione e materia prima artistica oscilla vertiginosamente tra l’apotropaico e l’osceno, il ludico e l’erotico, la necessità di esorcizzare il timore nell’aggressività o il rigenerarsi nella stasi. L’origine di tali atteggiamenti così eterogenei veniva individuata da Lea Vergine in ciò che la stessa definisce amore primario, ovvero “la necessità (ciò che non può non essere) inappagata di un amore che si estenda illimitatamente nel tempo (la durata), il bisogno di essere amati per quello che si è e per quello che si vorrebbe essere, con diritti illimitati” (Vergine, 1974).

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La personale di Luigi Ontani ospitata dalla Galleria di Massimo De Carlo nella sede di Palazzo Belgioioso, pur vertendo in maniera soltanto “collaterale” con il tema del corpo – anche se di identità, di un volto e di un corpo che cambia, si deforma e rinnova si parla – ha vari aspetti in comune con questo desiderio di un amore cosmico, totalizzante, narcisistico a tratti. Le otto opere in ceramica realizzate appositamente per la Galleria sono popolate dai tratti somatici di Ontani e ne rappresentano una sorta di estensione scultorea autobiografica, un organismo germinale colorato e ipertrofico. Il naso, gli occhi, il profilo a cammeo riconoscibilissimo, il Giano bicefalo e i busti miniaturizzati custoditi in microscopiche nicchie: in un’esplosione giocosa e irriverente, l’identità di Ontani celebra nel colore e nella duttilità della materia il rito della vita, accogliendo sulle proprie propaggini arcane simbologie orientali e cabalistiche, iconografie occidentali, figurine da bestiario, retaggi rinascimentali, suggestioni architettoniche, efflorescenze arboree, intrecci amorosi e strumenti pittorici. Il modo con cui Ontani si pone al suo spettatore e di fronte al mondo non è mai neutrale, ma anzi, altamente energetico: in questo senso egli pare propagare quell’energia tattile, sensuale e sessuale prospettata da Luce Irigaray (Elogio del toccare, 2011) quale energia relazionale d’elezione. “Riconciliazione di uomo e natura in una cultura sensuale”, come si legge in Marcuse (Eros e civiltà, 1955).

La tendenza dell’artista a raccogliere e archiviare documenti visivi di provenienza eterogenea è riscontrabile sin dagli anni Ottanta e forse ancora prima, quando il giovane Ontani – già nel ’74 con l’esposizione la Ripetizione Differente a cura di Renato Barilli – reintroduceva, in quel clima di ripresa della tradizione e di attenzione verso l’antico e la figurazione, l’elemento policromo. Che ciò possa possa connettersi ad una condizione  di postmodernità non è da escludersi; tuttavia, pare più probabile che tale estraniamento verso un universo simbolico espanso nel tempo e nello spazio sia proprio di un artista che non può fare a meno di voltarsi indietro, in molteplici direzioni. La profonda vitalità che ispira l’opera di Ontani matura nella conoscenza diretta dell’Estremo Oriente, e si pone su quella linea che, dagli anni Settanta del Novecento, unisce Alighiero Boetti, Francesco Clemente, Davide Benati e Ontani. Alle figurine zodiacali dei Bestiari di Francesco Clemente paiono rispondere gli abitanti antropomorfi, zoomorfi e vegetali delle ceramiche di Ontani.

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Così Etra d’ESTEtica (2017-2018) , che accoglie il visitatore all’ingresso dell’esibizione, consacra il fare arte attraverso gli strumenti della pittura (la tavolozza e il pennello) e una selva di personaggi voluttuosi, racemi vegetali, coralli, suonatori, esseri mostruosi. Nel FortunAle (2017-2018) – l’impiego ludico-nichilistico che l’artista fa del tropo è tutto da gustare – un esempio di crasi tra differenti apparati iconografici: la Verità del Cavalier Cesare Ripa (1593), che  poggia il piede nudo e liscio sul globo terrestre, si unisce all’immagine classica di Hermes, così che il piede diviene alato. Per non prendersi troppo sul serio, il tutto sfuma in una materia molle e scura (pochi dubbi sull’originale terribilmente umana) dalle labbra dischiuse. Di tradizione classica anche NarcisEco (2018), un’erma duplice e capovolta (il volto non è dunque solo doppio, ma anche ribaltato) che, alla maniera dell’Hermatena rinascimentale, fonde in un’unica creatura- che possiede le fattezze di Ontani – le figure mitologiche di Narciso e Eco.

Ma è forse Albericus Belgioiosiae Auroborus (2017-2018) che, tra le differenti opere presentate, pone in evidenza un elemento di fondamentale valore ai fini della comprensione del lavoro di Ontani e che altrimenti potrebbe sfuggire. Nel rapportarsi con Palazzo Belgioso infatti, l’artista non solo ripensa se stesso a partire dal proprio corpo e della propria persona, ma dialoga con la storia stessa dell’edificio, terminato nel 1787 dall’architetto Francesco Piermarini. Nel medaglione crema e oro, che riprende l’araldo di Alberico di Belgioso, committente del palazzo, rivive il noto profilo dell’artista.

Una costante, un file rouge: oro zecchino, pure gold, in ogni lavoro, fuorché BellimBustini (2013-2014). Sollevandosi in spazi eterei e senza confini, sfiorando il divino, l’ignoto, l’esteso, si giunge comunque sempre al sé, egualmente infinito, illimitato e camaleontico.

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