Testo di Chiara Bucolo —
Il moto browniano, chiamato così perchè scoperto agli inizi dell’800 dal botanico Robert Brown, indica il moto disordinato di particelle abbastanza piccole da produrre un movimento continuo e in direzioni ogni volta casuali: piccole come i fori nei dipinti dell’artista Luca Pancrazzi, di cui l’11 Maggio Rizzuto Gallery ha inaugurato la personale “Meditabondi, barcamenanti, fuori registro e buchi bianchi”, in mostra fino al 22 Giugno in via Maletto 5, Palermo.
Nei dipinti dell’artista appare emblematico il suo modo di vivere l’ambiente e di veicolarlo – si incontrano strade periferiche, tunnel autostradali, auto in fila nel traffico, scorci di alberi. Spaccati di città anonimi ed eloquenti insieme, spesso forati e maltrattati con precisione chirurgica, che sembrano integrare quei danneggiamenti in maniera armonica, quasi asettica: conseguenza di una ricerca sulla materia che la appiattisce fino a farla deflagrare tramite i fori della tela, a renderli come degli atomi o come i cerchi di un puntatore laser, sparati in ogni direzione dallo sguardo dello spettatore.
Lo sguardo che “buca” le opere è anche lo sguardo degli esseri umani sul mondo, che come il moto browniano si muovono frenetici e in direzioni sempre diverse attraverso le insidie della vita quotidiana, ripetendo le loro azioni di continuo – “la ruota gira e lo step successivo è uguale al precedente, ma spostato di qualche attimo”: se è possibile qualche slittamento dello spazio in una direzione, la pratica, ripetendo tale attimo, pur evolvendosi si afferma sempre uguale a se stessa, come dichiara l’artista. Gli attimi impressi da Pancrazzi nelle sue opere sono come sospesi, infinitesimali stralci di ricordi, la cui presenza è necessaria nonostante si perdano nel moto perpetuo del tempo, che scorre inevitabilmente: pur non interferendo direttamente, è in essi che l’abitare umano si densifica e si esprime, senza per forza mostrarlo concretamente in maniera manifesta, costringendo lo spettatore a ribellarsi allo sguardo come unica guida e a spostare il focus sul proprio modo di percepire, che inconsapevolmente modifica ciò che sta osservando.
Nella sublimazione attuata dall’artista viene decostruito il rapporto tra uomo e ambiente, uomo e natura: così la fabbrica, l’autostrada o gli scorci di un parco diventano il fulcro della simbiosi tra questi due elementi, così la presenza umana diventa viva e pulsante nei paesaggi di Pancrazzi, quasi un “filtro materico che fora il quadro”, pur non essendo mai presente direttamente nei campionamenti prelevati dall’artista nello spazio urbano e naturale.
Nella sublimazione attuata dall’artista viene decostruito il rapporto tra uomo e ambiente, uomo e natura: così la fabbrica, l’autostrada o gli scorci di un parco diventano il fulcro della simbiosi tra questi due elementi, così la presenza umana diventa viva e pulsante nei paesaggi di Pancrazzi, quasi un “filtro materico che fora il quadro”, pur non essendo mai presente direttamente nei campionamenti prelevati dall’artista nello spazio urbano e naturale.
Spazi spesso desolati, caratterizzati da questa presenza-assenza impalpabile ma costante, quasi in un sussurro, espressa da colori in acrilico tenui e spesso ovattati, come il velo rosso che copre la scena in 185722042024 o la “nebbia” bianca di Fuori Registro – Sottobosco.
In maniera sottile, la materia diviene cangiante e sfuggente, mentre il tempo si ripete. Nella ripetizione è insito il fulcro della pratica e della ricerca dell’artista, e diviene lecito porsi le domande che si pone Carrera in Filosofia del Minimalismo: “Che cosa si ripete nella ripetizione? Perchè la ripetizione genera piacere? C’è novità nella ripetizione? Che vi sia un nesso strutturale tra musica e ripetizione, non v’è dubbio. Non c’è mai stata musica estranea alla ripetizione: l’evoluzione della musica è anche evoluzione delle forme della ripetizione” – e come nella musica minimalista, in cui l’erosione del materiale musicale mira a far emergere l’essenza del suo linguaggio, negli atti ripetuti costantemente nelle opere di Pancrazzi entra in gioco la dicotomia costruzione/distruzione, ricordandoci che Disciplina e ritmo non sempre fanno una danza, verso che dà il titolo a una delle serie in mostra: un atto reiterato uguale al precedente è pur sempre un atto nuovo, che modifica la materia pur ripetendosi apparentemente uguale a se stesso, ed è modificato e varia in base alla sua collocazione temporale. “Gli obiettivi simultanei e la costituzione del quadro sono il risultato di più incidenti di percorso calcolati e non” – l’errore diviene quindi atto creativo, generatore di un caos programmato, ordinato e insieme cangiante nel suo incedere, fermarsi, riprendere: ci costringe a uno sforzo visivo, a mettere in discussione l’oggettività di ciò che stiamo osservando.
Rievocando Sol LeWitt, uno dei suoi maestri, Pancrazzi sfida e ribalta le regole tradizionali della prassi artistica, giungendo alla rivelazione che niente è unico e niente è irripetibile – la ripetizione esprime in tal modo il peculiare rapporto dell’artista con il tempo, che in un’intervista per Artex sostiene: “Il tempo è talmente fisico e presente tanto da proiettare ombre, mentre lo spazio si fa impalpabile”, concetto che qui trova corpo ad esempio nel Trittico della Luce e dell’ombra.
Quasi come dei fermo immagine di una vecchia pellicola rovinata di un film underground, le scene scorrono senza un filo conduttore, tra fabbricati industriali e ampi ambienti ridotti all’osso, rivelando scenari spesso macchiati, erosi, in cui ci si disperde e in cui inevitabilmente, muovendoci meditabondi e barcamenanti, ci si ritrova.