Testo di Chiara Bucolo —
Una serie di piatti impilati, svariate bottiglie, degli specchi appesi alle pareti. Uno scenario abbastanza comune, che ricorda un po’ quel disordine casalingo di cui fa parte la routine di molti di noi.
Ma c’è qualcosa di strano: gli specchi sono ricoperti da cocci di vetro appuntiti, delle bottiglie rimane solo il collo, da cui esce un fluido vischioso, i piatti sono scheggiati – anzi no, qualcuno li ha ‘morsi’, i segni dei denti sulla ceramica come prova. È una casa infestata da oscure presenze quella mostrata da Loredana Longo nella personale We Are Cannibals, in corso presso la galleria Francesco Pantaleone di Palermo fino al 30 aprile. Entità che non sono fantasmi del mondo metafisico, ma sono il parto delle nevrosi, delle ostilità, di tutto ciò che si reprime all’interno del nucleo familiare: rassicurante in superficie, cela sottilmente i suoi aspetti più sinistri, manifestandosi, ad esempio, nella forma di mani che escono dalle pareti stringendo colli di bottiglia (CONTRO/SCONTRO).
In un’intervista per Spaghetti Boost, parlando della mostra, l’artista spiega che il termine ‘cannibale’ non è per lei necessariamente negativo, dal senso “mostruso”: come ci nutriamo di carne, di carne è fatto anche il corpo umano, che diviene quindi un potenziale alimento esso stesso. Tutti noi, mangiando il nostro pianeta (inclusi i vegetali), ciò che ci tiene in vita, e quindi mangiando noi stessi, stiamo compiendo un atto di cannibalismo.
Ciò di cui è meglio temere è l’esasperazione del cannibalismo: la mostra di Longo, in questa luce, è anche una riflessione sul consumo indiscriminato di risorse, su come abbiamo devastato il nostro pianeta in maniera irreparabile – come in The Clan Of Human Eaters, dove sono posti in cerchio una serie di cappucci che ricordano il Ku Klux Klan, da cui però sporgono dei denti in piombo (resi dal calco dei denti dell’artista). L’uso per la prima volta del piombo nelle opere di Longo è peculiare (lo ritroviamo nel liquido che cola dai colli di bottiglia) in quanto il piombo è un materiale altamente tossico, “minaccioso”, come tossiche spesso sono le dinamiche tra esseri umani, dinamiche accettate e normalizzate pur responsabili dei segni e dei traumi lasciati nella psiche di chi le subisce.

5 cappucci/maschera di pelle, con taglio sulla bocca, denti di piombo, sostegni di ferro, 200x30x30cm circa – courtesy Francesco Pantaleone Arte Contemporanea – Photo Fausto Brigantino

Installazione site specific, grafico realizzato con colli di bottiglia bianca su muro, inchiostro, gocce di piombo, cm 300×150 circa – courtesy Francesco Pantaleone Arte Contemporanea – Photo Fausto Brigantino

Il discorso sulla famiglia e sulla nostra relazione col pianeta in cui viviamo trova concretezza in Longo nel binomio costruzione/distruzione: distruggere è trasformare, così i colli di bottiglia, l’unica parte che resta dopo che la bottiglia viene rotta, diventano delle armi – come per l’artista le mani, i denti, gli arti sono delle “prime” armi, strumenti sia di attacco che di difesa. L’atto del distruggere diventa punto di partenza per indagare la fragilità e la forza dei materiali, il loro punto di rottura – il vetro e la ceramica sono materiali duri e allo stesso tempo fragili, malleabili, come malleabili sono i rapporti umani, capaci di resistere ma anche di frantumarsi nel momento in cui esplodono le tensioni.
Distruggendo gli oggetti di uso comune, Longo distrugge le infrastrutture sociali, non per violenza fine a sé stessa ma per sfondare quel velo superficiale che le riveste, facendo i conti con il proprio vissuto: in Portrait 2025, due specchi rivestiti di cocci sono posti l’uno di fronte all’altro, a ricreare la loro stessa immagine e quella di chi si pone davanti. Confrontandosi con se stessa, l’artista non può non essere presente e partecipe nelle sue opere, il suo corpo ne è parte integrante, sia come strumento che come soggetto – in Trilogia di una caduta vi è l’impronta di un corpo dopo lo schianto a terra: sta allo spettatore capire se la caduta è stata volontaria o causa di altro, ma essa stessa, è ad ogni modo, parte integrante del processo catartico e trasformativo.
Come trasformativo è l’atto stesso del mangiare, che diventa anche un’occasione di condivisione e una maniera per reagire alla brutalità del contesto storico attuale: in Mangiare lo stesso piatto però sono gli stessi contenitori del cibo ad essere direttamente mangiati, morsi dall’artista e dai lavoratori della fabbrica che li ha prodotti – una reazione collettiva disfunzionale per un sistema sociale disfunzionale.
Longo ci pone davanti la violenza strutturale della società, con le sue contraddizioni, in maniera cruda, sincera, spesso rappresentandola in forma di vetri aguzzi: in Medusa frammenti di bottiglie scendono dal soffitto, mentre in WE ARE CANNIBALS i cocci di vetro formano una dentatura simile a quella di uno squalo.
Sfogare la propria ferocia repressa, per poi raccoglierne i cocci, specchiandovisi: è attraverso i frantumi e le macerie delle relazioni umane che troviamo la capacità di vedere chi siamo.

