Scarpe, piedi, guanti, mani, sono tutte estremità, sono le parti che “chiudono” il corpo: i piedi lo sostengono, le mani lo aiutano a sopravvivere. Le scarpe coprono i piedi, i guanti coprono le mani o le scoprono in quanto essenziali per prendere, portare, afferrare, ferire.
Scarpe, piedi, guanti, mani si ritrovano abbondanti nell’immaginario di due personalità seminali del ‘900, Birgit Jürgenssen (Vienna, 1949 – 2003) e Cinzia Ruggeri (Milano, 1942 – 2019): artiste a tutto tondo che hanno fatto delle loro ossessioni e visioni, la sostanza delle loro creazioni. A unirle, non solo un’immaginario surreale, ma anche un’ideale analogia nel raccontare il mondo femminile.
Cercando un sinonimo di ‘femminile’, i suggerimenti sono disarmanti: donnesco, effemminato, grazioso e civettuolo. Ecco allora che questo aggettivo, per definire la sostanza di Jürgenssen e Ruggeri, è un po’ stretto, decisamente stretto. Perché osservando l’ottima selezione di opere compiuta da Maurizio Cattelan e Marta Papini, nella mostra “Lonely are all bridges” – ospitata all’ICA Milano (fino al 15 marzo) – ciò che emerge è sì il mondo ‘femminile’ ma in una versione allargata, allungata o semplicemente, sfumata in una dimensione più ampia.
Il titolo “lonely are all bridges” – mutuato da un verso della poetessa austriaca Ingeborg Bachmann – suggerisce bene la volontà sperimentale delle due artiste la cui gettata immaginifica ha toccato gli ambiti più disparati, dall’arte alla moda, dal design alla fotografia.
Tutto parla del corpo delle donne, dalle decine di scarpe installate in tutta la lunghezza della sala principale del primo piano dell’ICA, ma anche gli abiti, i ritratti e gli autoritratti, le gambe, la mani, le dita e le braccia. Le scarpe disegnate, modellate in sculture e le scarpe vere. I guanti disegnati, persi, allungati e resi scultura. Prendendo a prestito dal linguaggio della moda il termine ‘accessorio’, nell’immaginario di queste due artiste, esso diventa la protesi del corpo, un suo allungamento o, in molti casi, anche uno strumento aggressivo, totalizzante e alienante. Così come gli abiti diventano da elementi che proteggono, ornano, decorano il corpo, loro stessi corpi, come nel disegno Housewives’ Work (1973) di Birgit Jürgenssen dove l’artista affronta con ironia il ruolo della donna nella sfera domestica degli anni ’70 e ’80, ritraendo una signora che stira e piega abiti che rievocano uomini reali.


Circoscritti dagli archetipi affini alla propria indole, sia l’una che l’altra hanno continuato a ‘verificare’ ogni elemento – sia esso un accessorio, un abito, un divano o il corpo stesso delle artiste – alla massima potenza. Consideriamo il “piede-scarpa”: per la Jürgenssen in mostra appare come un pennuto, come un letto e come una specie di vaso da cui sbuffa una nuvola di pizzo ricamato. “Cercavo un oggetto neutro che fosse famiglia a tutti. Le scarpe mi sembrano gli oggetti giusti per fare sfogo alle mie fantasie erotiche e ciniche e a tutte le altre possibili interpretazioni.”
Il piede, ma sopratutto le scarpe, sono quasi un pretesto per la Ruggeri, per allargare il concetto stesso di indumento: diventano animaletti, insetti, fiori, ma anche fuoco e fiamme, palline che rotolano, razzi pronti a partire, fili d’erba, scarpe sataniche o angeliche. Il vocabolario significante delle sue creazioni, è quasi riduttivo chiamarle semplicemente ‘scarpe’, ma in realtà è proprio la possibilità di indossarle che queste ‘sculture ambulanti’ diventano opere d’arte tout court. Così come le Scarpe Scala (1984), sempre della Ruggieri che sembrano avere vita propria, installate a parete nell’atto di volevo scappare dalla finestra dello spazio.
I tema della scarpa, in questo caso maschile è protagonista del disegno Gentlemen’s Street Shoe (1972) della Jürgenssen, che mostra un scarpa maschile stringata da cui, tesa e turgida esce una lingua che sembra voler attirare l’attenzione, schioccando tra linguetta e lacci della stessa scarpa.
Piedi, scarpe, ma anche tante mani e guanti. Un’opera su tutte sembra rivelare l’estrema e imprevedibile visione della Ruggeri che, con sensibilità animistica, ha ideato Oops, un guanto perduto (2004): un guanto spaiato, provvisto di lacrima per esprimere la sua tristezza in quanto destinato a vivere la sua condizione solitaria. Guanti che appaiono in altre creazioni della Ruggieri, come quelli in mostra datati 1980, dove all’eleganza nero-lucida della stoffa, la designer cuce, nella punta delle dita, in una mano delle piccola ossa, mente nell’altra, delle micro aureole rosse. Mentre per le tante creazione di scarpe, l’indossabilità ne accresceva la portata visionaria, nel caso dei guanti appesi, la non portabilità aumenta il valore scultoreo della stessa creazione.



In questo serrato dialogo tra le due artiste, un altro tema che emerge è quello del doppio o dell’ombra. Due i disegni significativi della Jürgenssen: in Everybody is themselves the closest (1975), l’artista presenta un doppio autoritratto in cui si raffigura seduta su una sedia al centro di una stanza, con in braccio un’altra sè, mentre in I’ll Play the Match with Myself (1973), si ritrae
sdoppiata in una partita di tennis solitaria: la sua testa si trasforma in una racchetta con cui lancia la palla a se stessa.
L’ombra appare in molte opere, da quella della figura allungata con le braccia che simulano un uccello della Ruggeri che diventa un divano ad angolo da ‘abitare’, o nelle foto della Jürgenssen dove l’ombra diventa materia pittorica con cui disegnare forme sul proprio corpo, rendendo materia l’assenza di luce.
Domina lo spazio della mostra l’ingrandimento di un disegno di Jürgenssen Aesculapian Snake del 1978, diventato per la mostra all’ICA un grande wallpaper. Il disegno mostra una donna nuda nell’atto di camminare, provvista di una lunga chioma di capelli che, scivolando da una scala a chiocciola, diventa la coda di un serpente. Fa da ideale pendant, una creazione di Cinzia Ruggeri, con il suo “vestito scala”, un “abito comportamentale” che sembra incarnare il pensiero dell’artista: “Le donne si divertono quando indossano qualcosa che ho disegnato: l’abito-oggetto magari ironico, senza troppi pensieri e inutili involuzioni”.
Affinità e convergenze, analogie e derive concettuali, sembrano legare queste due artiste che non si sono mai realmente incontrate; provenienti da contesti e da formazioni diverse: una estroversa e immersa nella vita milanese ha attraversato il mondo del design, dell’arte e dell’editoria facendo della sua visionarietà uno stile di vita (la Ruggeri); introversa e poco mondana la Jürgenssen (si racconta che per motivi che non è dato sapere abbia dato buca ad un appuntamento per incontrare Harald Szeemann, interessato a vedere il suo studio!). Entrambe ironiche, sovversive e ostinatamente ‘femminili’ nel senso più autentico e combattivo.
Basti osservare i primi due autoritratti che aprono la mostra all’ICA: Untitled (1977/78), un autoritratto disegnato da Birgit Jürgenssen e trasformato in gigantografia, in cui l’artista si ritrae con quello che sembra essere un maestoso copricapo di pelliccia bianca, che si rivela essere il corpo di un piccolo topolino. Poco lontano, sulla soglia è appesa la scultura di Cinzia Ruggeri Chef + Rèmy (2018), composta da guanti bianchi, un cappello da chef e una piuma di fagiano. Un opere tarda nel lungo ed eterogeneo percorso professionale dell’artista milanese, sembra incarnare il suo pensiero: “Amo la libertà e odio i pregiudizi, volevo solo esprimere me stessa e le mie idee in un ambiente completamente libero e in campi diversi e far sorridere la gente.”
Cover: Lonely Are All Bridges. Birgit Jürgenssen e Cinzia Ruggeri, Installation view, a cura di Maurizio Cattelan e Marta Papini, Fondazione ICA Milano, Milano. Ph. Andrea Rossetti

