Testo di Erica Rigato —
Quella in corso a Palazzo Ducale a Genova su Lisetta Carmi non è una mostra come le altre che l’hanno preceduta. Si tratta infatti di una retrospettiva che si distingue per il carattere estremamente esaustivo della sua offerta espositiva dal momento in cui non solo propone serie già molto conosciute, come quella sui travestiti degli anni 60’ pubblicata nel 1972, ma anche serie inedite come “erotismo e autoritarismo a Staglieno”, oltre a fotografie a colori frutto di un recente e sorprendente ritrovamento di un archivio della fotografa nella sua casa a Cisternino dove passò gli ultimi anni della sua vita.
La mostra infine spicca per l’allestimento, la cui architettura è stata concepita dallo studio Drama Y Comedias e si è sviluppata attorno al lavoro e alla biografia dell’artista.
Per capire le ragioni del titolo della mostra, bisogna andare direttamente al cuore della spinta propulsiva all’origine della ricerca di Lisetta Carmi. Nata in una famiglia ebrea di industriali e segnata dai traumi della Seconda Guerra Mondiale, ha rivolto il suo obiettivo sulla diversità delle esperienze urbane generate dalla città. La premessa della sua ricerca era infatti “fotografo per capire” ed è per questo che lei rivolgeva il suo sguardo lucido e curioso verso tutte le realtà e le comunità, anche e soprattutto quelle più distanti da lei sia da un punto di vista culturale che geografico. Partendo da Genova, quindi, ha presto ampliato la sua visione per abbracciare vari territori nel mondo, affascinata dal documentare l’umanità come un arazzo vibrante e variegato.
Aiutati da questa premessa, durante la visita della mostra, si capisce subito come l’esposizione sia un riflesso fisico e concettuale di questo viaggio di comprensione compiuto dall’artista durante la sua carriera di fotografa.
Il percorso della mostra, infatti, seguendo la ricerca di Lisetta Carmi sin dalle origini, si articola in tante sale quanti sono i temi da lei affrontati attraverso la sua pratica.
Si inizia appunto nel momento di svolta del suo percorso professionale, ovvero quando decise di diventare una fotografa. Nel 1960, Carmi inizia a fotografare con un’Agfa Silette, un piccolo apparecchio amatoriale. Le sue prime foto in Puglia, realizzate durante un viaggio con l’etnomusicologo Leo Levi, segnano l’inizio della sua vita da fotografa. Da quel momento, la macchina fotografica diventa la sua compagna di viaggio e lo strumento con cui esplora il mondo.
Uno degli aspetti più significativi di Lisetta Carmi è la sua capacità di avvicinarsi a culture e comunità spesso trascurate o stigmatizzate. Per l’artista il viaggio non è solo uno strumento di scoperta, ma anche un processo di trasformazione personale, un modo per interrogarsi sulle proprie convinzioni.
Le prime sale, quindi, ci presentano i suoi lavori più noti di questa prima fase, ovvero i reportage realizzati in Sardegna e Sicilia. In Sardegna Carmi documenta la vita di comunità rurali isolate, lontane dagli stereotipi turistici, restituendo l’immagine di una società arcaica ma fiera. In Sicilia, la sua collaborazione con Leonardo Sciascia per il progetto “Acque in Sicilia” culmina in un racconto visivo che evita il folklore per restituire un ritratto autentico della regione.
I viaggi di Lisetta Carmi non si fermano in Italia. L’artista viaggerà spesso in Medio Oriente, in America Latina e nel Regno Unito.
Nei suoi viaggi in Israele, paese che sente particolarmente vicino in quanto ebrea, le sue immagini catturano la vita nei Kibbutz e la convivenza di diverse anime nel giovane stato.
In America Latina, dove si recherà nel 1969, il suo reportage sul “basurero” (discarica) di Maracaibo è un potente tratto della dignità e dell’ingegno delle persone che vivono tra i rifiuti della società.
Si capisce quindi come la sua pratica inizia a diventare politica dal momento in cui diventa chiaro come attraverso il suo obiettivo, Carmi denuncia le ingiustizie sociali e invita chi guarda le sue fotografie a non distogliere lo sguardo dalle realtà più dure.
Proseguendo il percorso della visita, si arriva alla sala dedicata ai suoi viaggi in Oriente che iniziano nel 1970. Lisetta Carmi arriverà in Afghanistan, Pakistan, Nepal e India.
Quest’ultima avrà un ruolo fondamentale nella sua vita, perché qui farà un incontro destinato a cambiare la sua esistenza, quello con Babaji Herakhan Babà, Mahavatar dell’Himalaya, ovvero lo yogi, il maestro illuminato che vive sulla montagna. Da questo momento, l’artista intraprenderà un viaggio spirituale che la porterà a fondare un ashram in Puglia, a Cisternino, dove si dedicherà alla diffusione degli insegnamenti del Maestro e al suo amore disinteressato verso gli uomini.
Come mi ricorda la direttrice Ilaria Bonaccosa durante un’intervista fatta proprio in occasione dell’inaugurazione di questa mostra, secondo Lisetta “non esistono gli uomini e le donne, esistono gli essere umani.”
Continuando il percorso, si arriva alla sala dedicata al suo lavoro in Irlanda del Nord dove fu inviata nel 1970 a documentare il conflitto tra cattolici e protestanti.
Durante i suoi viaggi, si dedicherà alle scritte sui muri che a ogni latitudine testimoniano le rivendicazioni delle classi più povere in spregio a poteri che non li ascoltano.
A metà degli anni sessanta Carmi prende casa nel cuore del centro storico, dove ha subito modo di essere testimone del contrasto tra miseria e nobiltà.
Da questo snodo tematico, si avviano le sale dedicate ciascuna a un particolare aspetto della realtà genovese sottoposta all’attenzione della fotografa, e alcune di queste opere non sono mai state esposte prima.
Nel 1966 realizza un servizio fotografico sull’Anagrafe di Genova, realizzando molteplici scatti all’interno degli uffici del palazzo di Corso Torino.
All’interno di un progetto, poi intitolato “L’Anagrafe Chi? Per Chi?”, Lisetta Carmi farà confluire i ritratti degli impiegati alla segnaletica, le immagini dei lunghi corridoi dove transitano i cittadini, quelle ritraenti le persone in coda agli sportelli, e gli scatti effettuati dietro ai dipendenti creando così un filtro con la parete che li separa dal pubblico.
Si tratta di un lavoro che si inserisce pienamente nel dibattito sulla funziona sociale e civile della fotografia in atto negli anni Cinquanta, come testimonianza e come strumento di informazione.
Tra il 1962 e il 1976, sue sono le fotografie scattate all’interno del porto di Genova, dove si infiltrerà fingendosi parente di un portuale. Qui realizzerà un ampio documentario sulle dure condizioni di lavoro dei “camalli” .
La sua attenzione al mondo del lavoro, la porterà a documentare attraverso una serie di foto straordinarie lo stabilimento dell’Italsider immortalando l’interno delle acciaierie.
Ovunque ci fosse una realtà di lavoro, in porto come in fabbrica, la sua fotografia diventa di fatto adesione ai problemi sociali dell’occupazione e delle classi operaie.
Nel 1966, Carmi inizierà a documentare la statuaria monumentale del cimitero genovese di Staglieno, offrendo una lettura inusuale di indagine socio-antropologica evidente sin dal titolo del progetto “Erotismo e autoritarismo a Staglieno”.
Nella sala dedicata a questo lavoro, le fotografie svelano attraverso la loro intensità il desiderio patriarcale della ricca borghesia di eternarsi nel marmo, affermando il proprio potere maschilista anche attraverso la rappresentazione erotica del corpo nudo femminile.
Tra il 1965 e il 1971, dopo un incontro casuale durante una festa con la comunità di travestiti del centro storico di Genova, decide di sviluppare un progetto per cui per i 6 anni successivi condividerà tutti i momenti della loro quotidianità documentandoli attraverso il suo obiettivo.
Lisetta Carmi riuscirà ad entrare in un rapporto di empatia tale con i suoi soggetti per cui essi saranno naturalmente portati a giocare davanti la sua macchina mostrandosi fragili e contemporaneamente seducenti.
Da questo famosissimo lavoro nascerà il libro altrettanto conosciuto “I Travestiti” a cura di Sergio Donatella e con testi dell’artista stessa, pubblicato nel 1972.
Queste ultime due sale contengono proprio quell’elemento di novità di cui parlavo all’inizio.
In entrambe sono esposte fotografie a colori per la prima volta presentate al pubblico, frutto di una scoperta, avvenuta nel 2017, di una cartellina di diapositive a colori, non virate, in un cassetto della casa dell’artista a Cisternino. Questo ritrovamento ha permesso di aggiungere un nuovo capitolo alla storia del progetto sui travestiti.
Carmi aveva infatti utilizzato due apparecchi fotografici, una Leica e una Rolleiflex, una con pellicola in bianco e nero, e l’altra con pellicola Ekta a colori. Di notte elaborava e stampava il bianco e nero da sola, a casa, in una piccola stanza trasformata in camera oscura. Le pellicole a colori dovevano essere inviate a un laboratorio, e questo spiega perché le Ekta a colori sono giunte a noi solo come diapositive e non virate.
Come mi spiega Martini, quello che interessa è il rapporto tra le foto in bianco e nero e quelle a colori dello stesso soggetto. “Attraverso il colore e la sua potenza comunicativa”, mi racconta, “Carmi ha messo l’accento sulla fisicità dei suoi soggetti, soggetti che erano socialmente considerati delle reiette, dando loro dignità”. “Col colore”, prosegue, “ ci mostra il futuro, ci mostra quello che queste persone volevano essere”. Concludendo, mi spiega “Carmi ci dice che sono come noi, e per questo motivo il suo lavoro assume una valenza politica proprio perché agisce sulla società”.
Alla fine della visita, si ha modo di rendersi conto come il percorso snodato tra le varie sale sia stato significativamente sostenuto dalla scenografia allestitiva che è stata ideata dal collettivo Drama Y Comedias, costituito da due giovani designers che ho avuto il piacere di conoscere e intervistare.
Il design dell’esposizione si concentra sul concetto di muro, sia come struttura fisica che come spazio metaforico. Si tratta di un muro costituito da una grata in ferro che richiama l’ambiente delle acciaierie genovesi e che segue il percorso della visita occupando tutte le sale. Ad esso sono state appese le foto dell’artista.
Come mi dicono i designers di Drama Y Comedias, “ci è sembrato coerente coi temi da lei affrontati”, “abbiamo concepito il muro come una superficie dove collocare dei messaggi e veicolarli”.
Il richiamo alla ricerca e all’opera di Carmi risulta certamente chiaro perché riprende un suo tema ricorrente: i muri e le scritte che documentava instancabilmente in ogni città e in ogni paese. Muri che fungono sempre da potenti narrazioni, esprimendo sentimenti antifascisti e risuonando col vissuto di Carmi. Ogni stanza quindi, invita gli spettatori a considerare i muri come dispositivi di divisione e di connessione, interfacce pubbliche costantemente soggette a riscritture sociali.
In conclusione, come tiene a sottolineare la direttrice e co-curatrice della mostra Ilaria Bonaccossa, questa mostra mira a celebrare l’immenso valore artistico di Lisetta Carmi, un’artista a lungo trascurata ma meritatamente riscoperta ed esaltata in tutto il mondo.
Per la valenza importantissima dei suoi contenuti nonché per la modalità peculiare del suo processo lavorativo, a lei si sono e continuano a ispirarsi generazioni intere di artiste e fotografe come Cindy Sherman e Nan Goldin.
Cover: Lisetta Carmi, i travestiti, 1965-1971 © Martini & Ronchetti, courtesy archivio Lisetta Carmi