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Lift-on/Lift-off | CRIPTA747, Torino

[nemus_slider id=”61094″] Di Costanza Sartoris Vi siete mai chiesti come sarebbe camminare in un plastico di una città? La mostra Lift-on/Lift-off, organizzata da CRIPTA747 in collaborazione con l’Associazione Variante Bunker nell’area dell’ex Scalo Vanchiglia a Torino, sembra volerci portare proprio all’interno di una potenziale città trasparente. Lo spazio dell’esposizione non è quello chiuso di via […]

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Di Costanza Sartoris

Vi siete mai chiesti come sarebbe camminare in un plastico di una città?
La mostra Lift-on/Lift-off, organizzata da CRIPTA747 in collaborazione con l’Associazione Variante Bunker nell’area dell’ex Scalo Vanchiglia a Torino, sembra volerci portare proprio all’interno di una potenziale città trasparente.
Lo spazio dell’esposizione non è quello chiuso di via Quittengo 41/b: è aperto e appare come espanso su buona parte della superficie dell’ex Scalo Vanchiglia. Cinque container sono posizionati ai margini di una strada fantasma, creando una sorta di plastico in scala reale di una città ad oggi solo disegnata sulla carta. Difatti, il progetto espositivo nasce in relazione al nuovo piano di riqualificazione urbana Variante 200, che intende rilanciare la zona nord-orientale della città di Torino con la creazione di via Regaldi attorno a cui ruoterà la nuova zona riconvertita. L’apparato industriale costituito da enormi fabbricati è segnato da delle linee a terra bianche che fungono da strisce di margine della futura strada che attraverserà l’area, attorno a cui ruotano cinque strutture mobili come a delimitarne i bordi.

La mostra apre così uno spazio di riflessione fisico e mentale intorno a quello che sarà il futuro della zona dell’ex Scalo Vanchiglia e le possibili realtà che andranno ad abitarlo. Il dibattito si incentra infatti su cosa realmente voglia dire città oggi e in che modo le arti possono aiutare a dare una risposta a questa difficile domanda.
Interessante, a questo proposito, è il testo che accompagna la mostra di Michele Cerruti But, urbanista ricercatore al Politecnico di Torino, che ripropone una breve ricognizione storica del concetto di città giungendo a spiegarci come questa si trovi oggi in una condizione che la definisce città fragile. La città contemporanea è infatti un involucro dove gli individui che la abitano vivono chiusi a chiave nelle proprie case, dove il luogo d’incontro non è più la strada, destinata a fare spazio a nervosi guidatori chiusi nelle proprie automobili, bensì il marciapiede commerciale, luogo dove l’incontro avviene in termini di scambio monetario. La città è dunque fragile, poiché fragile è l’equilibrio che la regge: la comunità è infatti atomizzata in micro particelle autonome e l’abitare diventa una questione privata.

L’intento di Michele Cerrtuti But, in collaborazione con Alberto Geuna, Emanuele Protti e Niccolò Suraci, è quindi quello di proporre un nuovo possibile modello che trascenda la città fragile per giungere a quella che Cerruti But definisce come città trasparente. La città trasparente è infatti una città fondata su tre macro caratteristiche che offrono un ripensamento rispetto agli standard odierni. In primo luogo la città trasparente è porosa, è attraversabile e si basa su un principio orizzontale di uguaglianza; è quindi pragmatica, osserva e identifica i problemi e propone soluzioni concrete; infine è realista, guarda quindi alla funzionalità dei suoi spazi e dei suoi materiali prima che all’estetica. La città trasparente si concretizza così in un’utopica visione, dove i centri di aggregazione formali e informali già presenti sul terreno dell’Ex Scalo Vanchiglia vengono posti sotto una nuova luce. Nella costruzione di quest’utopica città si materializzano anche quattro discorsi singolari che, nello spazio limitato e avvolgente di un container, aprono la visione a quattro mondi altri che sembrano affrontare, ognuno con linguaggi differenti, il tema della transitorietà.

Lift-on Lift-off exhibition view,   Torino - Foto Costanza Sartoris
Lift-on Lift-off exhibition view, Torino – Foto Costanza Sartoris

Il primo container ci riporta al mondo infantile del teatro delle marionette: figure filiformi in legno chiaro, inserti metallici, nylon e piccoli elementi blu cobalto, danzano in un asettico spazio bianco, guidate dall’azione meccanica ma asincrona di tre ventilatori modificati. Manuel Scano Larrazabal, con un’estetica che ricorda le mobiles di Calder e rimanda, anche se in forma entropica, alle opere ambientali cinetiche di Colombo, ci offre uno spaccato su quello che è l’anima di una marionetta, il suo principio primo, sia in termini materici, i fili e le bacchette, sia in termini ideali, poiché rivela la necessità che le lega a un moto perpetuo incontrollabile, che dona loro vita, ma non potrà mai donare loro l’intenzione attiva e pura del gesto.
Il luogo in cui porta Anton Alvarez è invece estremamente romantico: egli trasforma il container in una sorta di piccola sala cinematografica, dove ci si può sedere su delle sedie da promenade francese e assistere a un eterno tramonto. Con questo lavoro Alvarez da una forma al concetto astratto di “per sempre” e offre a tutti una passeggiata sul minuscolo asteroide del Piccolo Principe, dove si può assistere al tramonto tutte le volte che si desidera. Nel suo tendere all’utopica cristallizzazione del passaggio effimero dal giorno alla notte, l’artista ha reso collettiva l’opera, al fine di avvicinarsi sempre di più al “per sempre”. Chi lo desidera può infatti partecipare all’impresa caricando la propria immagine di tramonto sul sito internet foreversunset.com
Ancora, il container di Benni Bosetto ci racconta la storia della nascita dei container così come li conosciamo oggi, presentandoci le fantomatiche memorie vissute dal primo container trasportato sul mare in un iniziale viaggio tra gli Stati Uniti e il Porto Rico. Una grata, pareti rosse dipinte con delle vegetomorfie e un’allegra musica portoricana caratterizzano questo luogo della memoria, che ci rimanda, con dimensioni differenti, ai portagioie e ai piccoli segreti che custodiscono all’interno. Il lavoro è una sorta di boite, un cabinet favolistico di immagini ideali.
Infine, vi è il container in cui Sebastiano Impellizzeri pone un’enorme tela caduta e ci invita a riflettere sull’effimero. Com’è la bellezza che cade è così che l’artista presenta il suo lavoro. Una pittura che è già caduta dal cavalletto hegeliano e che si presenta per quello che la pittura essenzialmente è: un’immagine eterna, prodotta dal perenne gesto della ricerca. Quest’opera offre allo spettatore la possibilità di esperire questa gestualità poiché per essere compresa essa va attraversata: lo spazio angusto del container diviso dall’enorme tela deve infatti essere percorso nella sua interezza per cogliere la delicatezza dei pigmenti rosati che compongono, per mezzo della loro caduta, il soggetto. Fuori dal tempo dell’azione del cadere, ma allo stesso tempo all’interno del tempo dello spostamento, lo spazio pittorico si materializza nella sua transitorietà.

Anton Alvarez - Lift-on Lift-off exhibition view,   Torino - Foto Costanza Sartoris
Anton Alvarez – Lift-on Lift-off exhibition view, Torino – Foto Costanza Sartoris
Benni Bosetto  - Lift-on Lift-off exhibition view,   Torino - Foto Costanza Sartoris
Benni Bosetto – Lift-on Lift-off exhibition view, Torino – Foto Costanza Sartoris