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Les Filons Géologiques | Palazzo d’Accursio, Bologna

Testo di Federico Abate — Le sale espositive di Palazzo d’Accursio a Bologna ospitano fino al prossimo 20 febbraio la collettiva Les Filons Géologiques. La mostra, curata da Black History Month Bologna e Black History Month Firenze, ospita 13 artisti di origine africana che riflettono sui temi a loro cari della definizione dell’identità, del difficile […]

Les Filons Géologiques – Palazzo d’Accursio, Bologna, 2022 – Installation view – Photo Lorenzo Piano – PxL-Photo.com – BHMBo

Testo di Federico Abate

Le sale espositive di Palazzo d’Accursio a Bologna ospitano fino al prossimo 20 febbraio la collettiva Les Filons Géologiques. La mostra, curata da Black History Month Bologna e Black History Month Firenze, ospita 13 artisti di origine africana che riflettono sui temi a loro cari della definizione dell’identità, del difficile rapporto con il passato coloniale e della diaspora, in un dialogo intergenerazionale che pone particolare enfasi sullo scenario afrodiscendente italiano.

Il titolo assegnato al progetto, un verso della poesia Allure dell’autore martinicano Aimé Césaire, si ricollega al concetto di “geopolitica dei corpi”, discusso in un ciclo di conferenze che ha preparato il terreno per la mostra: secondo gli studi postcoloniali, le pratiche di controllo amministrativo e politico esercitate in passato dalle potenze coloniali sui territori sottomessi si sono oggi trasferite sul corpo degli individui migrati verso quei paesi, risultando in nuove e più subdole forme di discriminazione. In particolare, Césaire allude al processo geologico di formazione all’interno delle rocce di vene di minerali di diversa composizione, depositatisi per precipitazione grazie allo scorrimento delle acque sotterranee attraverso le linee di frattura delle masse di roccia. L’immagine, che evoca un processo lentissimo e sotterraneo di arricchimento della terra, aiuta a visualizzare l’identità degli afrodiscendenti come il lascito ad oggi parzialmente cristallizzato (ma tuttora soggetto a metamorfosi) di un processo di sedimentazione antico di secoli: un prisma sfaccettato e cangiante fiorito negli interstizi di società che, nella narrazione comune, si definiscono monoliticamente in base a criteri geopolitici ormai anacronistici. Questi filoni, di cui le opere in mostra sono il frutto, hanno nel tempo avviato un processo duplice di erosione e di modellazione delle società in cui si sono innestati, ritagliandosi a fatica al loro interno lo spazio necessario per vivere. Portare alla luce tali filoni significa mettere in discussione il punto di vista eurocentrico sulla storia del continente africano, percepita erroneamente come passiva e lineare.

Circondati dagli affreschi seicenteschi della Sala Farnese, i grandi ritratti dell’artista franco-russo-brasiliano Alexis Peskine (1979) A Piantare un Chiodo si fanno portavoce del processo di doloroso adattamento delle comunità di origine africana a contesti altri. I volti sono il prodotto del martellamento su pannelli di legno di chiodi di differenti lunghezze e diametri, le cui teste sono poi rivestite in foglia oro per rendere brillanti i lineamenti. Analogamente, il supporto viene decorato con foglia oro, terra fiorentina e carcadè, sostanze e materiali strettamente significanti che gettano un ponte tra due mondi: Firenze, il luogo dove l’artista ha prodotto le opere, e l’Africa orientale, da cui viene esportato l’ibisco alla base della bevanda. I ritratti sono in sostanza opere puntiniste sviluppate nelle tre dimensioni, ma la tecnica utilizzata cela anche un preciso richiamo alle statuette Minkisi del Bacino del Congo, oggetti spiritualmente attivi che proteggono dagli spiriti maligni tramite l’inserzione al loro interno di lame e chiodi. La memoria diasporica viene così incarnata ritualmente nel processo violento del martellamento che provoca la perforazione del pannello, ma l’atto di per sé distruttivo definisce immagini di figure potenti e splendenti, temprate dalle avversità.

Nella Sala Farnese si trova anche l’installazione የቦሎኛ ጎዳና | شارع بولونيا | Bologna St. 173 di Muna Mussie (Eritrea, 1978). L’opera si presenta come un’impalcatura leggera da cui pendono dei Netsela, abiti di doppia garza intrecciata tradizionalmente indossati dalle donne eritree. Sui tessuti si possono leggere sigle di associazioni e movimenti di emigrati eritrei dispersi nel mondo, impegnati nel supportare a distanza la lotta per l’indipendenza del proprio paese dall’Etiopia (1961-91). 

Les Filons Géologiques – Palazzo d’Accursio, Bologna, 2022 – Installation view – Photo Lorenzo Piano – PxL-Photo.com – BHMBo

Il lavoro si inserisce in una riflessione più generale portata avanti dall’artista riguardo al Festival / Congresso Europeo che si tenne ogni anno dal 1974 al 1991 a Bologna a sostegno della causa eritrea e al quale parteciparono negli anni molte di queste associazioni. I dibattiti bolognesi agirono metaforicamente come una struttura accogliente (evocata dall’installazione) in cui definire un’idea di nazione. Il titolo dell’opera richiama la decisione nel 1991 di intitolare una strada di Asmara, capitale del Paese appena fondato, alla città di Bologna, come ringraziamento per l’impegno manifestato nei vent’anni precedenti. 

Nella stessa sala sono anche presenti i cestini della spazzatura decorati con bandiere di Paesi africani che costituiscono l’opera Dustbin di Barthélémy Toguo (Camerun, 1967). L’opera denuncia quanto il continente africano sia sfruttato e reso sito di discarica dal resto del mondo. 

Le sale adiacenti evocano una gamma variegata di reazioni emotive alle incertezze rappresentate dalla diaspora: dall’angoscia dell’uomo senza braccia che corre verso l’uscita dello spazio espositivo in Untitled (Particular Subject Advance Concept) di Senam Okudzeto (Stati Uniti, 1972), alla timida aspettativa espressa da Guardando le stelle di Victor Fotso Nyie (Camerun, 1990), la statua di una giovane ragazza addormentata che, per quanto sia distesa sulla nuda terra, tiene placidamente tra le mani una preziosa scultura votiva. Un analogo spettro di emozioni emerge dal confronto proposto tra l’opera dello stesso autore Ribelle, una rabbiosa testa in ceramica dai tratti tubolari e riflettenti, e l’espressione serafica di Korekore Head di Bernard Matemera (Zimbabwe, 1946-2002), in plumbeo serpentino. Il contrasto formale e materico tra le due opere ha un parallelo in Celestial Crown serie 1 e Genèse di Delphine Diallo (Francia-Senegal, 1977): nelle due fotografie è protagonista il dualismo bianco-nero, sintomo di un’identità arricchita dal meticciamento.Lo stesso tema è stato affrontato anche da Hyacinthe Ouattara (Burkina Faso, 1981) in Infinito / Materialità: l’opera, esito del workshop condotto da Ouattara all’Accademia di Belle Arti di Bologna, si compone di abiti di seconda mano legati e cuciti dall’artista e dagli studenti, plasmando così un nuovo organismo che è idealmente frutto dell’intreccio di mille vite. 

Molte opere sono legate dalla volontà di rivalsa e di protesta. Se i quadri astratti di George Zogo (Camerun, 1935-2016) sono una forma di latente contestazione degli stereotipi relativi all’arte africana, troppo spesso pensata come limitata ad un’estetica tribale e senza tempo, in Sacré Art di Clay Apenouvon (Togo, 1970) la volontà di resistere, anche spiritualmente, si concretizza in modo esplicito in un sacco da boxe con serigrafata un’immagine di Cristo. Talvolta è impossibile non cedere all’amarezza, ben percepibile in Black Powerless II di Binta Diaw (Italia-Senegal, 1995): i calchi in silicone di pugni di individui afrodiscendenti abitanti in Italia, solitamente simboli di resistenza, sono tinti di un malinconico blu, capovolti e resi inerti, denunciando l’impotenza del singolo di fronte alla macchina della burocrazia. Nell’opera video Molthaba Wa Re Ke Namile, Lerato Shadi (Sudafrica, 1979) si costringe ad ingerire della terra, richiamando così il gesto estremo di resistenza di molti schiavi nelle colonie americane che tentavano di suicidarsi in tal modo e che, per questo, erano forzosamente costretti dai loro padroni a indossare delle maschere che glielo impedissero. La terra di cui l’artista decide di “nutrirsi” è però quella del proprio villaggio natale, in un atto di riconquista della propria storia. Non diversamente, arricchendo la texture delle sue opere Senza titolo con polvere di caffè, Francis Offman (Ruanda, 1987) si riappropria di una sostanza da sempre merce strategica delle tratte coloniali e la trasfigura in nuove geografie astratte, ancora tutte da percorrere.

Les Filons Géologiques – Palazzo d’Accursio, Bologna, 2022 – Installation view – Photo Lorenzo Piano – PxL-Photo.com – BHMBo
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