Colpi, piccoli schianti e percussioni. Cacofonie, dissonanze e atonalità. In lontananza fragori di ferraglia, ingranaggi che incombono. La mostra di Jean Tinguely (Friburgo, 1925 – Berna, 1991) mette alla prova il senso della vista con quello dell’udito. Per molti versi mette in dubbio il primato che vuole l’occhio dominare su tutti gli altri sensi. Tinguely è essenzialmente un uomo, prima che artista, del ‘900, secolo legato al fascino delle macchine, con il loro rumore, pesantezza e potenza, molto lontano dalla liquidità e inconsistenza dell’era digitale che vuole tutto leggero, immateriale, dinamico.
La mostra ospitata fino al 2 febbraio all’HangarBicocca, ci riporta, per molti versi indietro nel tempo, in decenni entusiasmanti e coinvolgenti, dove artisti consapevoli e precursori come Tinguely credevano fermamente alla possibilità e necessità di “nuovi approcci percetti al reale” (Manifesto del Nouveaux Réalisme, firmato dallo stesso Tinguely assieme ad Arman, Yves Klein, François Dufrêne, Martial Raysse, Daniel Spoerri tra gli altri). Tinguely aderisce pienamente alla poetica di questo nuovo movimento – fondato da Pierre Restany nel 1960 – che in sintesi faceva del “procedimento per appropriazione” l’aspetto sostanziale dell’agire artistico. Echi del ready-made erano inevitabili, ma questo nuovo movimento se ne distanziava sia per una più spiccata intenzione di espressività sia per l’ammirazione per l’universo urbano, per la dimensione relazionale con il pubblico e la quotidianità. Da queste premesse, rileggere oggi l’opera di Tinguely è una sfida affascinante, che comporta lo sforzo di sintonizzarsi in un diverso modo di percepire il mondo, i suoi movimenti, le sue trasformazioni e, soprattutto, il modo vivere il tempo.
Il fattore tempo, assieme al fattore suono, emergono con prepotenza nella mostra all’HangarBicocca: assieme ci guidano ad osservare, ascoltare e ad interagire con le opere che l’artista voleva giocose e imprevedibili.
***
Nell’introdurre la mostra, Lucia Pesapane – una delle curatrici che ha lavorato a questa importante mostra assieme a Camille Morineau, Vicente Todolí e Fiammetta Griccioli – ha raccontato l’importanza e le relazioni che Tinguely ha avuto con Milano.
“Milano è stata importante nella lunga carriera dell’artista perché è una città che ha saputo capire e riconoscere il valore della sua ricerca prima di città come Düsseldorf, Parigi e Londra. Le ragioni sono molteplici. Dagli anni ’40 Milano era una città moderna che si afferma anche e soprattutto come un centro all’avanguardia culturale nel dopoguerra. L’industria era una realtà illuminante; la fabbrica, la macchina.. tutta l’estetica legata a questi ambienti, rispecchiava l’estetica di Tinguely. Le relazioni tra gli artisti e le produzioni industriali era una via percorribile; basti pensare che nel 1948 nasceva la Rivista Pirelli, dimostrazione che c’era un ponte tra la cultura tecnico scientifica e la cultura artistica, letteraria e architettonica. (…) Tinguely nel 1954 espone a Milano e si immerge nella vita cultura della città venendo in contatto con i tanti protagonisti di questa effervescente stagione: Arturo Schwarz, la galleria di Guido Le Noci, la galleria il Naviglio, Carlo Cardazzo, gli artisti Manzoni, Castellani che collaborano con Tinguely alla rivista Azimuth. A Milano in quel periodo lavoravano i grandi critici d’arte come Gillo Dorfles o Dino Buzzati che scriveva articoli assolutamente entusiasti sul lavoro di Tinguely. I grandi collezionisti come Giuseppe Panza di Biumo e Paolo Consolandi, tutte queste persone lo incrociarono tra gli anni ’50 e ’60.”
Una delle tappe fondamentali che segnano non solo la vita professionale di Tinguely, ma anche quella di molti altri artisti è la mostra che la Galleria Apollinaire organizza a Milano: Nouveau Réalisme, inaugurata nel 1960 e a cura da Pierre Restany. Dieci anni dopo, sempre a Milano, il noto critico conclude il percorso del movimento nel grande evento-funerale in piazza Duomo.
Continua Pesacane: “Al festival di performance irriverenti partecipa anche Tinguely che mise in atto la performance ‘La Vittoria’, dove un gigantesco fallo alto decine di metri, esplodeva e si autodistruggeva tra i volti perplessi degli spettatori. Critica, satira, gesti anticlericali.. questa performance estrema è stata letta anche come gesto pacifista: un anno prima era successa la strage di Piazza Fontana, a pochi metri dal sagrato del Duomo. Ecco che il suo gesto, compiuto in anni così carichi e densi, dimostra la forte e originale poetica che contraddistinguerà tutto il suo percorso artistico.”
Un’altra tappa significativa per l’artista, avviene negli anni ’80, sempre in Italia, quando Tinguely si trovava a Capalbio, al Giardino dei Tarocchi che Niki de Saint Phalle stava costruendo. Ed è lì che conosce Gianni Agnelli, incontro che darà come frutto la grande mostra che verrà allestita a Palazzo Grassi, l’ultimo momento il cui l’artista è stato presentato in Italia.
Da allora, non ci sono state, se non mostre molto episodiche che hanno omaggiato il grande artista. Dopo oltre quattro decenni, la mostra all’HangarBicocca si fa il primo ‘palcoscenico’ dove iniziare i tanti eventi che si susseguiranno nel 2025, per commemorare il centenario della nascita dell’artista.
Una delle analogie più azzeccate per presentare la figura di Tinguely a 360° è quella del “direttore d’orchestra” in quanto descrivere come questo artista ha saputo metter in movimento le opere, le persone, le idee in cui il suono era sicuramente una delle parti portanti di tutta la sua carriera.
Seguendo questa prospettiva, la mostra all’HangarBicocca è stata pensata proprio per accentuare l’aspetto sonoro e “rumoristico” del lavoro dell’artista.
Raccontano i curatori: “Abbiamo cercato delle opere che funzionassero, che creassero una sorta di coreografia assolutamente anti-armonica, con una volontà di seguire quello che Todolì ha raccontato come anti-armonia, anti-museo, anti-nuovo, anti-pop, anti-brillante… Alla fine Tinguely era anti-tutto. Da qui l’idea di immaginare delle opere che fossero sì in disarmonia tra di loro, ma che formassero un insieme cacofonico potente e suggestivo di suoni che stupiscono ed esplodono. Come un ‘direttore d’orchestra’ Tinguely non era un uomo che creava solitario nel suo atelier, l’artista genio isolato non era una definizione per lui; lui amava la collaborazione, amava lavorare con tante persone per creare un’opera democratica e condivisa.”
***
Ecco allora che grazie a una ricercatissima selezione di 40 opere prodotte in un arco di tempo che va dagli anni ’50 agli anni ’90, ci immergiamo nel mondo giocoso, rumoroso e coinvolgente di Tinguely.
La mostra si apre con Cercle et carré-éclatés (1981) e Méta-Maxi (1986), due opere polifoniche monumentali che condensano tutti quelli che sono motivi ricorrenti e gli aspetti formali dell’artista come il rapporto tra suono, immagine e movimento; l’utilizzo del colore e l’ironia. Frutto dell’esperienza di oltre trent’anni di lavoro queste due opere imponenti ci immergono nel suo mondo mediante strutture di ferro, ruote, legno, cinghie, motori elettrici, ma anche lampadine e non ultimi peluche e giocattoli di gomme. Macchine che girano a vuoto, caratterizzate da movimenti irregolari, sgraziati e rumorosi. Questa anti-grazia, anti-armonia, sottolineata da Todolì, sarà una costante che troveremo in tutte le sculture in mostra, circondate da un aspetto tanto giocoso quanto sottilmente ironico.
Anche nelle opere più giovanili poco distanti, quelle prodotte negli anni ’50 – dove è evidente la relazione dell’artista alle sperimentazioni dell’astrattismo geometrico dei primi anni del ‘900 – l’artista accenna la morfologia delle macchine, abbozza meccanismi con un sottile fil di ferro e delle barre di ferro che lo avvicinano alle ricerche di Calder con i Mobiles.
Alla leggerezza di queste sculture, segue la grandiosità dei meccanismi della grande opera Requiem pour une feville morte (1967), che nonostante il titolo allude a una foglia; in realtà si presenta come una monumentale scultura realizzata dall’artista per il Padiglione Svizzero dell’Esposizione Universale di Montreal.
Significativa l’opera Ballet des Pauvres (1961), dove stravolgendo ancora la sua ricerca, per la prima volta compaiono nelle sue opere oggetti di recupero di uso domestico che l’artista appende a dei fili di ferro ad un soffitto, collegato a sua volta ad un motori che se azionato, fa ‘ballare’ camice da notte, calzini e pellicce come fossero burattini in una teatrino surreale.
Sia nelle piccole che nelle grandi dimensioni, l’atmosfera giocosa e ironica, non muta di intensità. Nella serie di piccole sculture in mostra, per lo più degli anni ‘’60, installate ad anfiteatro, mostrano un Tinguely ludico che, in merito alla serie di Baluba – sculture di dimensioni ridotte azionate da un piccolo motore che le anima in modo sussultorio e vibrante – spiega: “Ho creati traballanti Baluba: sculture che rappresentano quella sorta di follia e frenesia dell’era tecnologica odierna”.
In Maschinenbar (1960-85), l’artista concepisce una serie di sculture, installate in un lungo tavolo, con materiali di scarto, giocattoli e altri attrezzi, che sono azionabili elettricamente tramite pulsanti posti davanti all’opera. Meno giocosa, ma non per questo meno coinvolgente, la serie Plateau agriculturel (1978), opere composte di parti di macchinari agricoli dal tipico colore rosso poste sopra una grande base di ferro.
Sempre nel decennio degli anni ’70 l’artista da avvio alla produzione di una serie di “sculture lampada”, assembrando strutture di ferro, molle, cavi, ma anche piume, uccelli imbalsamati e ossa di animali, con delle lampadine. Il risultato solo sculture sospese che sostituiscono il suono con la luce: al posto di ticchetti e battiti, ora è la luce la protagonista che, grazie ad una sapiente scenografia formale, fatta dei tipici elementi di Tinguely, ci coinvolge formando una ‘foreste’ di luce e di ombre che riverberano nel pavimento formando forme e silhouette in continua trasformazione.
E’ stata prodotta nel decennio successivo la grande scultura Pit-Stop (1984). Commissionatagli dalla casa automobilistica Renault, quest’opera sintetizza pienamente la passione di Tinguely per le macchine da corsa e la velocità. Come avesse voluto congelare l’esplosione di una macchina da corsa, quest’opera molto complessa è composta da pezzi del modello Renautl RE40 da Formula 1 guidate dai piloti Eddie Cheever e Alan Prost. Oltre al movimento dei bracci meccanici, la scultura è animata dalla proiezione di alcuni film editati che mostrano più riprese della pista di Zaltweg in Austria e l’auto di Prost ferma ai box durante il Gran Premio d’Austria del 1983.
Chiudono idealmente la mostra un gruppo di sculture dedicate a una selezione di filosofi e un’opera realizzata a quattro mani da Tinguely e Niki de Saint Phalle, duo artistico e compagni nella vita.
I Philosophers (1988-1989) sono dedicati ai filosofi che hanno teorizzato l’antimaterialismo come Heidegger, Burkhardt, Engels e Rousseau tra gli altri. Per ogni pensatore Tinguely crea il rispettivo mondo e una personale rappresentazione.
Eight Philosophers, invece, raccoglie otto sculture cinetiche, riunite su una grande piattaforma di ferro, e rappresentano altri filosofi, dall’antichità al Novecento. In quest’opera corale l’artista associa a ogni filosofo un titolo ironico come ad esempio “Democrito nei guai” o “Platone in azione”.
Le Champignon magique (1989), è una delle ultime collaborazioni tra Jean Tinguely e Niki de Saint Phalle. La scultura ha la forma di un gambo di fungo allucinogeno, con effetti caleidoscopici e visionari. L’opera esprime le due nature degli artisti: l’uno più legato alle forme e al movimento, l’altra più sensibile al colore.
Cover: Jean Tinguely Serie dei Philosophers (1988-89) Pjotr Kropotkin, Philosopher, 1988 Henri Bergson, Philosopher, 1988 Ludwig Wittgenstein, Philosopher, 1988 Wedekind, Philosopher, 1988-89 Veduta dell’installazione, Pirelli HangarBicocca, Milano, 2024 Courtesy Pirelli HangarBicocca, Milano Jean Tinguely: © SIAE, 2024 Foto Agostino Osio