“L’occhio cerca una forma, un’idea, l’attende e invece si scontra con il pane ammuffito della natura o un argine di pietra. I denti dello sguardo si sbriciolano e si spezzano quando si osservano per la prima volta le chiese armene.”
Mi sono chiesta, visto che non ho avuto la possibilità di parlarne direttamente con Gobbi, cosa lo abbia spinto a approfondire questo territorio reale e simbolico. Nelle 25 fotografie di piccolo formato esposte, vediamo una serie di chiese armene disseminate in un territorio che va dalla Francia al Caucaso. L’arco temporale va dall’Alto Medioevo ai giorni nostri.
Le foto, dunque, documentano un percorso culturale, cronologico e stilistico di uno stile architettonico che, nonostante il passare dei secoli è rimasto sempre lo stesso (vengo a sapere). Mi domando. Se documentazione deve essere, perchè ‘cadere’ nell’accattivante pericolo di rendere pittoriche le immagini? Perchè ‘adattare’ la realtà – sicuramente già bella e poetica (il fascino misterioso e segreto delle vecchie chiese) – a sfumati, a forme circolari sovrapposte alle immagini, a frammenti di cornici ritagliate? Perchè trasformare un foto in una sorta di disegno a matita?
Belle, queste foto, fanno dimenticare l’approfondito studio che Gobbi ha investito in questa ricerca. Percorso poetico nel tempo tra romantiche architetture religiose o espressione di un interesse verso un’indagine degli aspetti identitari e multiculturali del vecchio continente, la sua memoria collettiva, i suoi incerti confini culturali?