E’ in corso fino al 31 ottobre al CAP – Centro Arti Plastiche di Carrara la mostra fotografica di Primož Bizjak, Alpi Apuane.
Riportandoci indietro nel tempo, quando la realizzazione dell’immagine fotografica era dipendente dalla tecnica analogica, l’opera di Bizjak è una sorta di sintesi di una lunga e approfondita investigazione delle Apuane, alla scoperta di cave nascoste, alcune delle quali abbandonate. Il grande formato delle foto, fino a 3 metri di base, ci invita (e coinvolge) a stabilire un rapporto meditativo con l’immagine, per scoprirne dettagli e svelamenti.
Segue il testo critico Simone Menegoi —
ALPI APUANE
Il soggetto preferito di Primož Bizjak è il paesaggio in divenire. Che si tratti del rifacimento di interi quartieri della capitale spagnola (Madrid. Mudanzas y Reflejos, 2006-16) oppure della cerchia di fortificazioni di Venezia, in gran parte in rovina, allagate e invase dalla vegetazione (Difesa di Venezia, 2005 e 2008-09), o ancora dei canali di Venezia prosciugati per lavori di manutenzione (è una delle sue primissime serie, datata 2002-05) le sue fotografie raffigurano paesaggi in trasformazione; rapida o lenta, improntata ai ritmi dell’uomo o a quelli della natura. Ciò che sembra soprattutto attirare lo sguardo dell’artista è la zona grigia, ancipite, fra uno stato e l’altro. Nelle fotografie della serie madrilena, gli edifici non sono né interamente abbattuti – le demolizioni lasciavano integre le facciate, che sarebbero state incluse nelle nuove costruzioni – né intatti; i forti e le casematte del ciclo veneziano sono ancora riconoscibili come opere dell’uomo, ma già in larga parte riconquistati dalla natura; i canali veneziani, colti nel momento in cui i lavori di manutenzione li ha temporaneamente trasformati in incongrue vie di terra, attendono di riprendere la loro secolare identità di vie d’acqua. Le immagini delle cave delle Alpi Apuane si collocano in questa linea. I siti che raffigurano sono contesi fra il lavoro umano e il lavorio della natura: l’uomo impone alla morfologia accidentata della montagna la sua logica, fatta di linee parallele e angoli retti; la montagna reagisce con le frane, con gli allagamenti, con la vegetazione spontanea che torna a reclamare i propri diritti non appena si allenta, o viene meno, la vigilanza dell’uomo. Come in un palinsesto, queste due operazioni convivono e si sovrappongono nelle immagini di Bizjak.
Bizjak lavora lentamente. Ha cominciato a esplorare e a fotografare le cave nel 2014, ritornandovi a intervalli regolari negli anni seguenti. Quattro anni dopo, il ciclo dedicato alle cave conta qualche decina di scatti, di cui appena sette sono diventati stampe. Una produzione fotografica così esigua, addirittura risibile per gli standard correnti, si deve in parte alla tecnica adottata: Bizjak fotografa solamente con un banco ottico, su negativi 10 x 12 cm, e stampa in formati imponenti, prossimi alla misura massima concessa dalle stampanti a getto d’inchiostro di cui si serve (150 x 190 cm, ad esempio). Ma la parsimonia della produzione dell’artista è soprattutto frutto del suo approccio all’atto di fotografare. Prima di produrre anche un solo scatto, Bizjak studia lungamente, nel corso di sopralluoghi successivi, il sito che vuole fotografare; prova e riprova la posizione della camera, la sua angolazione, il taglio dell’inquadratura. Prima di imprimersi sul negativo, l’immagine, dice, deve formarsi nella sua mente. Una frase che riecheggia quella celeberrima di Leonardo, secondo cui la pittura “è prima nella mente del suo speculatore” (Libro di pittura, I, 29).
Non è una coincidenza. Da ex studente di pittura all’Accademia di Belle Arti di Venezia, Bizjak considera tuttora la pittura come un riferimento significativo per il suo lavoro. (È lui stesso a ricordare volentieri che il banco ottico discende in linea diretta dalla “camera obscura”, ausilio dei disegnatori e dei pittori fin dal XV secolo). Le sue opere chiamano spesso in causa la pittura per dimensioni, senso della composizione, colori. E le stampe delle serie Alpi Apuane portano questo aspetto all’estremo, tanto da sollecitare paragoni specifici. Passarle in rassegna significa quasi ripercorrere, in una sintesi discontinua e idiosincratica, la storia della pittura (e dell’incisione) degli ultimi tre secoli. Nelle gradinate colossali di Antro del Corchia (2015) rivediamo le Carceri fantastiche di Piranesi. I titanici frammenti di marmo di Passo della Focolaccia (2017), sospesi in una luce irreale d’alba o di tramonto, richiamano i ghiacci spezzati di Caspar Friedrich. Il riflesso dell’acqua che moltiplica le linee prospettiche in Sella di Macina # 3 (2014) e soprattutto in Passo del Vestito (2017) riporta alla mente le composizioni più vertiginose di Helena Vieira da Silva. Nella densa, tormentata orografia e nella mancanza di profondità di Monte la Rocchetta (2017) ritroviamo la logica overall di tante composizioni dell’Espressionismo Astratto americano e dell’Informale europeo. Tre Fiumi (2015, di nuovo un paesaggio specchiato nell’acqua) alterna nette linee verticali a zone amorfe, segnate da striature, secondo una struttura che ricorda i grandi dipinti astratti realizzati da Gerhard Richter con l’ausilio di spatole a partire dalla fine degli anni Ottanta. Infine, la grande lastra di marmo quadrata, quasi parallela al piano dell’immagine, su cui convergono le linee di fuga di Sella di Macina (2014) evoca la tabula rasa di un foglio bianco o di una tela vergine: una mise en abîme del supporto stesso della pittura, come nelle opere di Giulio Paolini.
Il sospetto del kitsch insidia sempre, fatalmente, la fotografia che insegue la pittura e le sue risorse tecniche, a rischio di dimenticare le proprie. Ma nulla del genere si riscontra nelle immagini di Alpi Apuane. Compatte dal punto di vista del soggetto, tanto da proporsi come variazioni di un unico tema (Bizjak non fa mistero della sua ammirazione per Bernd e Hilla Becher), le opere della serie si attengono a principi rigorosi: nessuna illuminazione oltre a quella già presente nel luogo dello scatto, nessuna manipolazione digitale dopo lo scatto. Le variabili su cui Bizjak agisce sono solo due, essenzialmente: l’inquadratura, pazientemente ricercata e messa a punto (un’immagine documentaria mostra l’artista immerso fino alla cintola nell’acqua sul fondo di una cava, la macchina fotografica installata su un alto treppiede per ottenere il punto di vista voluto) e la lunghezza dell’esposizione, che determina l’intensità dei colori (ma sotto questo aspetto, la serie dedicata alle cave spicca nella produzione dell’artista per moderazione: alle esposizioni di parecchie ore delle serie precedenti, che saturavano di luce le vedute notturne fino a farle sembrare diurne, Bizjak ha preferito aperture dell’obiettivo di alcuni minuti, che producono un risultato prossimo alla percezione naturale dell’occhio). L’artista non si è imbarcato nell’impresa di fotografare le cave apuane con l’intento di produrre degli analoghi della pittura, e nemmeno di citarla. Si è imbattuto nelle affinità che abbiamo indicato – e in altre, che gli spettatori vorranno riconoscere – nel corso del processo fotografico, senza forzature. Si tratta di affinità che sono “nella mente”, appunto: in quella dell’artista, formatosi sulla pittura non meno che sulla fotografia, e nella nostra, di spettatori consapevoli della storia dell’arte.
Più di tutto, Bizjak ha evitato di sublimare le sue fotografie escludendo da esse le tracce dell’industria estrattiva. Anche nelle vedute più formalmente “belle”, più prossime a una composizione astratta, dei dettagli – un cavo spezzato, una ruspa che fa capolino, un utensile abbandonato a terra, una scala a pioli – rivelano l’opera dell’uomo. Quei dettagli reintroducono nelle immagini la realtà della Storia. Ci ricordano che ciò che stiamo osservando non sono grandiosi siti naturali, ma il prodotto di un’attività estrattiva che è cominciata già in epoca romana; cantieri che sono stati teatro di una lunghissima vicenda umana di fatica e sfruttamento, pericolo e ingegno. E ci inducono a riflettere sugli sviluppi straordinari delle tecniche estrattive, dai cunei di legno dei romani, che venivano bagnati in modo da spaccare la roccia per espansione, fino alle gigantesche lame e ai fili d’acciaio diamantati in uso oggi: una moltiplicazione vertiginosa della capacità estrattiva – e, di pari passo, inevitabilmente, del suo impatto ambientale. Le 250mila tonnellate di marmo cavate a Carrara in un anno nel 1950 sono diventate oggi già un milione[1]. Intere montagne vengono decapitate, erose, svuotate a un ritmo sempre più accelerato per estrarre il marmo apuano; spesso non per ottenere blocchi o lastre, ma soltanto frammenti di marmo, detriti da cui estrarre carbonato di calcio per usi industriali – la produzione di dentifrici, ad esempio. E il problema ambientale non si limita alle ferite aperte sui fianchi dei monti e nelle loro viscere. La polvere dei marmi e la terra degli scavi inquinano fiumi e sorgenti dell’area[2].
Alla luce di considerazioni del genere, le immagini di Alpi Apuane si possono leggere anche come testimonianze dello sfruttamento intensivo, su scala industriale, di una risorsa naturale limitata e non rinnovabile. Le fotografie di Bizjak evocano Caspar Friedrich, ma lo spirito con cui le guardiamo è pressoché il contrario di quello con cui il grande pittore tedesco guardava la natura. Il sentimento del sublime di Friedrich e dei suoi contemporanei nasceva dalla contemplazione della grandiosità dei fenomeni naturali, e dal senso di fragilità dell’uomo di fronte ad essi. Il sentimento del Sublime degli uomini del XXI secolo nasce dalla contemplazione dei disastri ambientali causati dall’uomo, e dallo sgomento al pensiero della loro irreversibilità.
[1] Fonte: Gianni Barlassina, “«In cava si muore»”, Il Post, 4 maggio 2016, https://www.ilpost.it/2016/05/04/cave-di-carrara-marmo/. Consultato il 12.6.2108.
[2] Fonte: Legambiente Carrara, “Cave di Carrara, il caso del bacino estrattivo di Torano. Spunti per una pianificazione integrata”, 3 maggio 2018. http://www.greenreport.it/news/urbanistica-e-territorio/cave-carrara-caso-del-bacino-estrattivo-torano-spunti-pianificazione-integrata/. Consultato il 12.6.2108.