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Sembra quasi una scelta dettata da uno spirito ironico quella di aprire la mostra “La Velocità delle Immagini” con un’opera di Giacomo Balla: l’artista che ha fatto della velocità il suo pigmento, della celerità la sua filosofia esistenziale, della sveltezza la sua principale fonte di ispirazione. L’opera in questione è la famosa tempera su carta intitolata “Forze di paesaggio – Cocomero” del 1917-1918. Questa piccola opera (sarà grande poco più di 50 cm di larghezza), a suo modo, sintetizza molti dei temi trattati dalla mostra: le forme astratte, la velocità, la tavolozza coloratissima, l’essere cangiante delle forme, il dinamismo… ecc. Insomma tanti temi cari ai Futuristi, resi noti nel Manifesto del Movimento nel 1915. È soprattutto sulla velocità che si concentra il percorso della mostra, sulla ‘digeribilità’ dell’arte di inghiottire, assimilare e, in ultima, smaltire le immagini.
“La Velocità delle Immagini”, ospitata fino al 21 gennaio all’ Istituto Svizzero di Roma, ci porta a riflettere in modo, direi imprevedibile, sulla celerità delle forme, sulla rapidità degli immaginari (prima che di immagini) grazie alla ricerca degli artisti e alle loro opere. Queste ultime, a volte, diventano commenti sulla società contemporanea, quando non vere e proprie critiche o giudizi.
Curata da Samuel Gross, nuovo head curator dell’Istituto Svizzero, la mostra raccoglie le opere di Sylvain Croci-Torti, Chloe? Delarue, Nicola?s Ferna?ndez, Louisa Gagliardi, Miriam Laura Leonardi, Emanuele Marcuccio, Rammellzee, Manon Wertenbroek e Urban Zellweger: artisti per lo più molto giovani – a parte, ovviamente, il maestro del Futurismo, lo street artist newyorkese Rammellzee e Nicola?s Ferna?ndez, classe 1968 – nati tra gli anni ’80 e ’90.
Ed è soprattutto da questo confronto che nasce un possibile percorso, nel vasto e scivoloso tema della “velocità”. Basti individuare un possibile nesso tra gli entusiasmi degli inizi del secolo scorso, la voracità e ambiguità degli anni ’80, per giungere all’età dei Millennials, la generazione “sempre connessa” e dall’elevata dimestichezza con la tecnologia digitale. Come traghettare dunque l’energia vitalistica di Balla con i giovinastri nati a fine millennio? Astutamente il curatore trova in Ramellzee il chiasmo per collegare due epoche lontane anni luce. Artista visivo, rapper e street artist newyorkese, Ramellzee è stato una figura a suo modo rivoluzionaria in quanto teorizzatore del Gothic Futurism, un universo in cui le lettere si danno battaglia l’una contro l’altra e combattono ogni standardizzazione derivante dalle regole dell’alfabeto… In mostra una serie di opere grafiche dove l’artista sovrappone elementi architettonici metropolitani con scritte e inserti grafici… Si intuisce l’ambiente di una stazione, forse la metropolitana. Velocità e azioni illecite sono manifestate con energia dirompente, con la volontà di appropriasi del paesaggio urbano, inghiottirlo per rigurgitarlo trasformato e, per tanti versi, innalzato nell’olimpo dell’arte.
“Per uno strano effetto di condensazione cronologica, non lontana dall’estatica speranza moderna appena un po’ morbosa di Balla, e dalla capricciosa disillusione di Rammellzee, le questioni di identità, poste tanto dalla circolazione dei saperi quanto dall’esplosione delle frontiere e delle pratiche, diventano uno degli spazi privilegiati di tanti artisti.”
Giungiamo alle grandi tele di Nicolás Fernández, che abbandona grandi figure “classiche” nel bel mezzo del vuoto e piatto schermo pittorico. Non è sedotto dalla realtà, ma dalle immagini che trova in internet, già abbandonate nelle acque profonde della rete.
Siamo oramai agli sgoccioli, la carrellata di giovani talenti ci portano – non senza un balzo che richiede perspicacia e leggerezza – dentro alle ferree maglie della produzione industriale.
Attraverso l’utilizzo di competenze industriali, Emanuele Marcuccio racconta un diverso tipo di modernità e il suo funzionamento: ripetitivo, consequenziale, monotono e prevedibile. Anche nella pittura-muro di Sylvain Croci-Torti, il racconto che emerge è sconsolante: sembra che l’artista – esposta dirimpetto alle superfici colorate e vibranti di Ramellzee – opponga all’energia del writer un denso e impenetrabile schermo piatto dove, solo mediante una scrupolosa verifica, si nota che gli stati di colore stesi in ampie campiture tradiscono la manualità e la velocità dell’azione dell’artista.
All’azzeramento visivo di Croci-Torti il vertiginoso citazionismo di Manon Wertenbroek, le cui opere oscillano tra pittura e fotografia, tra prelevamenti dalla rete e digressioni nella storia dell’arte. Nelle sue opere si scorgono avvisaglie impressioniste, toccate di divisionismo, Fauve e post-espressionismo… ma anche le superfici patinate degli anni ’80, immaginari legati alla moda, decorativismo anni ’90.
Naviga in acque poco distanti anche Louisa Gagliardi, con le sue superfici fintamente pittoriche dai soggetti ambigui e oscuri dalla pelle traslucida, ultraumana. Sembra guardare al futuro, rovistare in una post-umanità “costruita” con epidermide artificiale, organi sintetici, sensi contraffatti dalla robotica e microchip. Anche nelle grandi installazioni di Chloé Delarue si intuisce come l’opera diventi materiale per dar vita a racconti di una società distopica dove le cose – macchine, oggetti di consumo, hardware – perdono la loro funzione per diventare carcasse biomorfe, relitti di un’umanità schiantata per la troppa velocità, caduta nel precipizio del più trito luogo comune: che il progresso porti sempre ad un miglioramento.
In contemporanea all’inaugurazione de La velocità delle immagini, vengono proposte al pubblico due installazioni degli artisti svizzeri Valentin Carron e Sylvie Fleury, che abiteranno per un anno gli spazi del patio e del giardino di Villa Maraini, sede romana dell’Istituto Svizzero.