Per un artista trovare “la natura profonda che si cela dietro ai modelli”, è una sfida che ne anima da sempre la ricerca. Trovare – o ideare – la struttura che detiene, per molti aspetti, un pensiero primordiale, un’idea primigenia, non è solo una conquista, ma è, soprattutto una rivelazione.
Queste sono le complesse premesse della significativa mostra di Mario Merz ospitata fino al 6 ottobre alla Fondazione Merz a Torino. Il titolo è mutuato da una frase dell’artista: “Vorrei avere la firma di qualcuno che sia stato curato dalla proliferazione… Qualcosa che toglie il peso…”
Scavare, scoprire, svelare. Tutta l’opera di Merz, le installazioni, gli igloo, le tele, può essere vista come un’unica grande scacchiera dove le opere cercato di avvicinarsi ad una forma sfuggente, impalpabile, sfumata.
Reiterare le forme, muoverne pochi elementi, variare lo stesso motivo, nella ricerca di Merz diventa un modus operandi per far sì che le forme e i concetti, prelevate dalla natura – l’igloo su tutti – esprimano una forma di resistenza contro il tempo, contro la sua incorruttibile capacità di trasformare e annichilire ogni cosa.
Per capire questa sorta di costante ricerca di immutabilità basta ascoltare la lunga conversazione avuta da Mario Merz con il curatore Harald Szeemann, realizzata nel 1985 in occasione della sua personale alla Kunsthaus di Zurigo. La videointervista, ascoltabile in mostra, rivela molti passaggi fondamentali della ricerca dell’artista, soprattutto per quanto riguarda la genesi degli igloo:
“L’igloo è un canone musicale, un canone pittorico, ma anche un canone fisiologico. E’ un ventre da cui ho bisogno che nascano delle cose. Probabilmente nel mio lavoro precedente all’igloo, il senso del ventre – qualcosa che tutto contiene e da cui tutto può uscire – è una delle cose che ha fatto sì che io possa fare l’artista. L’igloo rimane un grande cerchio attorno al quale posso lavorare, dentro al quale posso lavorare.
Sopra all’igloo posso avere delle invenzioni che vanno al di là delle formalizzazioni che rimandano all’igloo.” Continua. “Trovo che la sensazione di perdita di potere sia grandiosa. Come mettere nell’arte questa sensazione di perdita? Da qui l’idea dell’igloo, questa mezza sfera; l’arte della terra, una sfera. Il senso del potere che noi abbiamo di essere su questa terra, ma nello stesso tempo, l’impotenza che abbiamo di essere su questa terra. (…) L’energia perde e sovrasta, l’energia perde quando diventa troppo grande come spazio. L’energia acquista enormemente quando lo spazio diventa piccolo e di qui la lancia, la freccia, il senso fisico dell’energia che i nostri fisici ci hanno abituato a osservare. (…) L’igloo come matrice di energia.” (trascrizione della conversazione)
Nella grande sala della Fondazione, dopo vent’anni ritorna l’igloo Senza Titolo del 1997, descritto come una cupola cosmica. Con i suoi tre metri di diametro, questa grande opera domina la sala, irradiando una particolare luce grazie a delle piccole foglie d’oro disseminate in tutta la superficie.
Nelle alte pareti dello spazio espositivo, dei grandi disegni ospitano forme organiche che potrebbero essere radici, fiori, fluttuanti esseri invertebrati le cui forme sono date da rapidi e sicuri segni a carboncino, pastello, inchiostri o vernice. Come fosse un ampio abbraccio, una grande scritta in corsivo delimita due lunghi lati della stanza: “Le chat qui traverse le jardin est mon docteur. Un messaggio leggero, toccante, quasi tenero: apre a delle immagini bucoliche se non dichiaratamente favolistiche. Sovrasta questa grande scritta, la corsa di strani quadrupedi dal collo lungo e le gambe tozze, pesanti, neri e piatti.
Le opere a parete campeggiano anche nell’altra stanza: un branco di arieti/cervi dalle forme bombate tracciate sempre con gesti rapidi, salienti: dal colore neutro del grande foglio di carta, emergono queste imponenti e muscolose figure, rese inquietanti da una manto ritmato da quelli che potrebbero essere grandi occhi gocciolanti. Così come è enigmatico il grande Pterodattilo (1985) formato da grosse e grasse budella tremanti tracciate sulla diversi foglia di carta installati su un pannello di legno.
Tutto in questa stanza è pervaso da una forte e vigorosa energia: i gesti che danno forma ai disegni, le masse di colore che rendono spessi i corpi di questi robusti animali, la stessa grandezza delle opere su carta, sembra voler dare spessore a quelli che alla fine sono solo dei tratti a pastello.
L’opera che domina questa seconda sala è Quattro tavoli in forma di foglie di magnolia (1985), realizzata in occasione della personale di Merz da Sperone Westwater e Leo Castelli a New York. Esposta in questa occasione per la prima volta in Europa, l’opera sintetizza molte delle ricerche compiute da Merz. Come per l’igloo, anche il ‘tavolo’ è un archetipo utilizzato dall’artista in molte occasioni. Struttura primaria in grado di rispondere ai bisogni essenziali e di sostentamento, rappresenta anche un luogo in cui affondano le radici del mangiare e dell’accoglienza. La particolarità di questo tavolo è la forma che richiama quella della foglia di magnolia. Osservato in prospettiva, il tavolo sembra il frammento di quella che potrebbe essere una fila infinita di foglie che si originano continuamente. Aiuta questa immagine generativa la superficie dei tavoli ricoperta di cera dal colore caldo, a volte omogeneo a volte cangiante. Da questa distesa di materiale organico che sembra molle, emergono forme spiraliche e cuneiformi, segni di movimento ed espressione di ciò che Merz definiva come il sollevarsi della materia su sé stessa. L’utilizzo della cera diviene il fulcro che unisce insieme i riferimenti naturali, temporali e strutturali.
La conchiglia di una lumaca, un cono rovesciato che trafigge la superficie di un tavolo, dei contenitori circolari da cui irradia del pigmento colorato, delle aste, quello che sembra uno schedario aperto che da l’impressione di essere un uccello in procinto di librarsi. Ma anche dei peduncoli che sembrano muoversi al nostro passaggio, delle foglie galleggiante: al sottile lirismo di queste forme intrappolate, risponde il vigoroso e vischioso indurimento della materia un tempo molle e malleabile. Immaginifico pensare che basterebbe un po’ di calore per far si che queste forme, rese primordiali da Merz, possono tornare ad essere libere.
“L’artista ha la sensazione di essere un vecchio marinaio che naviga nella società. E’ una bella sensazione, anche se a volte è soggetta a delle condizioni sociali molto forti; più le condizioni sociali sono forti più uno acquisisce una auto-sufficienza che gli permette di esprimersi con l’arte, avendo la sensazione di libertà. Quando si dice “la sensazione di libertà” è una cosa falsa. La libertà è vera, è la sensazione che è falsa. L’arte fa della sensazione una specie di nuova libertà. Chi non capisce la sensazione di libertà che si prova guardando l’arte, è una persona che non vuole la libertà. Solo quelli che amano la sensazione di libertà amano l’arte. Quelli che non vogliono la libertà, di solito reprimono l’arte.” Mario Merz (trascrizione della conversazione)