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Tutto è connesso, collegato, in relazione. Idee, affetti, ragionamenti, ma anche patologie, paure, estremismi. La visione che Krištof Kintera restituisce del mondo – che è principalmente il suo – è al di sopra delle distinzioni, forse anche della comprensione. Se da sempre la conoscenza si fonda sulla capacità dell’uomo di discernere concetti e pensieri, frutto soprattutto di esperienza e immersione della realtà, Kintera segue questa nostra capacità intuitiva per dar vita ad un sovra-mondo. Ecco allora che le sue mostre potrebbero essere attraversate come dei luoghi di sperimentazione immaginaria.
Ospitata fino al 31 luglio alla Collezione Maramotti, la mostra Postnaturalia di Krištof Kintera inscena un vero e proprio tragitto di gestazione dell’artista. In primis, si parte dal giardino con le opere “Praying Woods”: presenze mimetiche antropomorfe composte da esili rami immersi – dunque eternati – in un bagno d’argento. Questi sono concepibili come creature che dalla natura provengono ma che da essa si distinguono in quanto figure contemplanti, fameliche di scorgere quello che forse la generazione umana ha perso dalla notte dei tempi: la capacità osmotica di immergersi e confondersi con la natura stessa. Permeata da una visione panteistica, dove l’alterità sta in tutto ciò che ci circonda, le ambientazioni di Kintera pretendono una sorta di sospensione del giudizio, un superamento di ciò che è naturale, artificiale, ma anche di ciò che è prettamente legato al sapere, all’intelletto e alla conoscenza.
Sono proprio i “Praying Woods” – mezzi umani e mezzi alberi – che ci indicano l’attitudine con cui percorrere il grande “sistema nervoso” costruito dall’artista, un organismo dove, dicevamo, tutto è collegato e indistinto, dai materiali alle forme, ma anche dove il tempo cronologico fallisce, avanza e indietreggia seguendo un ritmo umorale. Lo dimostrano gli innesti che l’artista ha voluto fare con i Musei Civici di Reggio Emilia, verifica che la sua sensibilità ha tracciato delle strette analogie tra le sue ricerche e i preziosi erbari conservati da secoli. Come i botanici di un tempo, dove la scientificità spesso si confonde con l’alchimia o la magia, anche Kintera basa le sue ricostruzioni ‘naturali’ su una progettualità istintiva e passionale. Curioso cogliere come le sue creazioni, nelle teche della sezione dedicata alla botanica nei Musei Civici, si confondano, formalmente, con la riproduzione di piante e fiori, così come le varie teche provenienti dai Musei, si mimetizzano con i tanti ed eterogenei materiali presenti nel Laboratorio ricostruito alla Collezione Maramotti.
Nel Laboratorio dell’artista, vero e proprio studio ricostruito in Collezione, riusciamo ad entrare in quella che è la sua fucina. Spazio caotico e privo di ordine, caratteristiche tipiche di un luogo dove la funzionalità è al servizio dell’estro creativo più che a classificazioni o progettualità razionale, questa officina si presenta come un diario di bordo dove l’artista appunta idee e progetti, dove accumula stimoli, sperimenta tecniche e materiali, dove accantona errori o ipotizza soluzioni. Ogni angolo dello spazio trabocca visioni, così come ogni immagine che l’artista fissa sulle pareti mobili ci suggerisce quanto la sua ricerca spazi in diversi ambiti del sapere reale. In questo luogo magmatico, vere e proprie opere – i lavori a parete e le varie sculture disseminate nello spazio – si mimetizzano con grovigli di cavi e fili elettrici, con bidoni e blocchi di polistiroli, con meccanismi e circuiti elettronici: tutti resti e pezzi di recupero, ammassi di scarti recuperati nelle discariche o depositi di materiale elettrico. L’artista mi racconta che la maggior parte dei materiali che utilizza sono proprio residui inutilizzati di fabbriche e laboratori.
Consapevole che questi ‘rottami’ altro non solo che una natura (de)generata dall’uomo, è come se Kintera ‘facesse di necessità virtù’, estraendo da ciò che non ha più un’utilità pratica – e forse neanche bellezza – una funzionalità estetica. Le sue opere, siano esse elaborati su carta – come i tanti esemplari raccolti nel libello Scriptum Herbaruim (sezione di compendio del catalogo Postnaturalia edito da Silvana Editoriale in occasione della mostra alla Collezione Maramotti) – siano le opere di piccole o grandi dimensioni, senza distinzione sono tutte da intendersi come dei memento mori per l’uomo occidentale, dei chiasmi in cui natura e cultura si intrecciano per generare un punto di riflessione su cosa e dove siamo. Da questa prospettiva è da comprendere la grande installazione “Systemus Postnaturalis”, descritta come “un tappeto sintetico di piante che cresce tra un’intricata rete radicolare di rame: tre isole che sono raccordate tra loro da percorsi esperibili”. La sala della Collezione è letteralmente ‘invasa’ da escrescenze e organismi filamentosi e vibranti che, grazie alla ritmicità dell’illuminazione che muta lentamente di intensità, sembrano crescere e, piano piano, inghiottire lo spazio.
Negandosi come scienziato – l’artista sorrise quando, intervistato da Marina Dacci, viene sollecitato come artista-scienziato – Kintera mantiene dell’uomo di scienza la volontà di “mostrare il processo di realizzazione delle cose”. Spiega l’artista: “Mi sono reso conto che portare allo scoperto questo processo, per offrire allo spettatore l’opportunità di scoprire cosa avviene dietro le quinte, può essere parte del risultato! La motivazione è molto semplice: è così che l’installazione appare prima di diventare un’opera d’arte e questa è tutta la robaccia che dobbiamo utilizzare per produrla”. (Estratto dal dialogo tra Marina Dacci e Krištof Kintera, pubblicato nel catalogo catalogo Postnaturalia edito da Silvana Editoriale, 2017).
Con ironia e spirito giocoso, l’artista ci invita a riflettere, ancora una volta, sulla legittimità di farci paladini della salvezza del mondo, stacanovisti del riciclo ad oltranza, indefessi cultori di una visione ecologica della vita… per poi dimenticarci tutto, naufraghi dell’arroganza tecnologica che sembra tutto sapere e conservare. Dove finirà il computer che sto utilizzando in questo momento, già obsoleto una volta scartato dal suo bel packaging immacolato?