“Se non me lo chiedi, forse lo so, ma se me lo chiedi non lo so più.” Alla domanda su cos’è per lui la fotografia, Guido Guidi, risponde nel mondo più onesto e veritiero che, dall’alto della sua carriera, è in suo possesso. Analogo al suo sguardo fotografico, anche il suo pensiero fotografico anziché farsi assertivo è allusivo.
“Quello che importa è il processo, tra una fotografia e l’altra, non è la singola immagine. Il contrappunto di una sull’altra e sull’altra ancora, è quello che mi piace. Ci sono dei momenti che confluisco e si trasformano in un’altra presenza.” Questo frammento di dialogo che Guido Guidi (Cesena, 1941) ha avuto con Alessandro Rabottini, il curatore della mostra Da un’altra parte – fino al 27 luglio 2025 a 10 Corso Como – per molti versi abbraccia tutte le serie di fotografie esposte in quanto il “trasformarsi” e il “confluire” di un’immagine sull’altra, la ripetizione di alcuni soggetti o lo stesso soggetto ripreso in momento diversi, testimonia una volontà molto precisa. Scrive Rabottini nel testo in mostra: “Nei decenni, Guidi ha affermato la necessità di una ‘poetica dell’attenzione’: nelle sue opere l’atto stesso del vedere non è mai dato per scontato ma, al contrario, analizzato da molteplici punti di vista, da quello esistenziale fino ai suoi significati formali e teorici.”
Il punto nodale di questa mostra, aperta pochi giorni dopo quella ospitata al Maxxi, Guido Guidi – Col tempo, 1956-2024, è il suo essere trasversale nel percorrere la carriera del fotografo dai primi anni ’70 fino al 2023, tracciando un percorso connotato dalla presenza dell’ombra, di un riflesso di luce, riverbero di un bagliore o l’intreccio impalpabile tra il buio e il chiarore.




“L’ombra per me è l’ombra di vino che si beve a Venezia, che è chiamata semplicemente ombra perché la si prendeva all’ombra del campanile. L’ombra comunque è l’essenza della fotografia. Sì, certamente è importante la luce, ma la luce è anche l’ombra.”
Nella semplicità di questa frasi, Guidi sembra dimostrare un’attitudine ironica e al tempo stesso lirica nel leggere la realtà, fatta di semplici momenti rivelativi, istanti di realtà nella loro forma più lieve e profonda. Tutto il suo guardare si sofferma sulla mutevolezza della luce che, impercettibilmente diventa ombra, colore sfumato, irradiazione di una cosa sull’altra. Visioni poetiche che non lasciano nulla al caso perché sembrano condensare una struttura basilare di incredibile perfezione. E anche laddove l’imprevisto e l’accidente sembrano entrare nella visione, con un’abilissima maestria, Guidi sembra mettere in ordine l’inaspettato, farlo rivelare per sua natura di essere nel mondo. E’inevitabile pensare le fotografie di Guidi come dei congegni filosofici che sondano l’essere, l’esserci e il permanere. L’essere in quanto sostanza, l’esserci in quanto fissare un momento nel presente e renderlo assoluto, il permanere che trasforma l’effimero in una visione classica.
E’ come se guardando la serie di immagini esposte – tralasciando l’anno in cui sono state scattate, sia esso il ’67 o l’’82 – avessimo la sensazione di aver già visto questi tagli di realtà. L’aspetto empatico dunque, in queste fotografie, sembra avere la meglio. Empatia deriva da “en-pathos” che significa “sentire dentro”. Osservando le fotografie come Senza titolo, 1978 – il riflesso di alcuni alberi sul piano di un tavolo di legno lucido – Ronta, 1979 – tre fotografie che mostrano lo svolazzare di alcuni panni e la loro ombra su un muretto – Treviso, 1982 – una finestra aperta su un cielo piatto e una piantina secca sul davanzale – si ha sensazione di guardare pezzi di realtà che ritornano nella nostra memoria. Un “già visto” che appartiene all’esperienza del vivere, a una memoria secondaria che trattiene le atmosfere, le circostante quotidiane.



E in questa lunga raccolta, fatta di serie anche molto distanti nel tempo, il fotografo da prova di saper dar voce ai tanti e complessi significati che il gioco tra luce e ombra da sempre pertiene.
Non è un caso che la dicotomia tra questi due opposti, sia utilizzato metaforicamente per raccontare la dialettica tra elementi contrari e complementari come il bene e il male, la vita e la morte. Quasi trattato come dualismo metafisico, nelle fotografie di Guidi l’ombra emerge nel suo essere essere fugace e a tratti malinconica, a dispetto di una luce che si vuole più aggressiva e spietata nel rivelare i dettagli di una stanza, il muoversi degli alberi scossi dal vento o farsi schermo piatto oltre l’apertura di porte e finestre. Si ha l’impressione che a ‘costruire’ il reale, nella ricerca del fotografo, non si tanto la luce, ma bensì l’ombra.
Per Guido l’ombra è “l’essenza della fotografia”, quasi a voler ribaltarne lo statuto. Il meccanismo della fotografia analogica si basa infatti proprio sulla capacità della luce di impressionare una superficie sensibile e di fissare l’immagine, diventando così l’elemento fondamentale che ne determina lo statuto. Luce dunque come creazione dell’immagine quando in realtà sono le ombre che definiscono contorni, volumi e il controllo delle sfumature. Ma Guidi, probabilmente, è da qui che rivela l’istintiva ironia nel citare l “ombra de vin” che si beve a Venezia all’ombra e al fresco di un campanile. E’ come affermare che è nella zona d’ombra che il reale che gli interessa si palesa con più forza.
In mostra ci sono tantissime immagini che svelano questa sua propensione verso il nascosto, verso il rarefatto, il vuoto e l’assenza. Roncisvalle, 1995; Treviso, 1979; Lizzano, 1972, solo per citarne alcune, mostra una realtà minima fatta di muri scrostati, un portone aperto, il riflesso di un prato nel vetro di una porta, la silhouette di un tetto nell’asfalto.
Scrive Rabottini: “La ricerca fotografica di Guidi può essere interpretata all’interno di una traiettoria del silenzio che percorre la cultura visiva italiana da Piero della Francesca a Michelangelo Antonioni, passando per Giorgio Morandi e Luigi Ghirri. Come icone del non detto o del detto sommessamente, compaiono in mostra più volte cartelloni pubblicitari vuoti, pareti spoglie che registrano i momenti di un’eclisse solare – come nella sequenza di sei fotografie Ronta 11/08/1999 –, finestre che si aprono su orizzonti quasi privi di riferimenti spaziali e composizioni, ai limiti dell’astrazione, che ritraggono frammenti della sua casa-studio a Ronta.”





