La Macchina Estrattiva al PAV — Intervista con il curatore

"La violenza del termine “estrattivo” non è solo figurata: non solo il capitalismo contemporaneo non ha cambiato faccia, ma la situazione è ancora più drammatica che in passato, dal momento in cui ai processi di produzione vanno sommandosi dinamiche predatorie..." Marco Scotini
2 Maggio 2017

Curata da Marco Scotini, La Macchina Estrattiva. Neocolonialismi e risorse ambientali ospitata al PAV di Torino fino al 4 giugno – propone video, installazioni e ricerche documentarie di artisti che hanno riflettuto sul tardo-capitalismo e sulle conseguenze che tale sistema economico ha provocato sul pianeta: da Ursula Biemann (1955), fondatrice della piattaforma online geobodies, Peter Fend (1950), fondatore della Ocean Earth Developement Corporation, Piero Gilardi (1942), fino a Oliver Ressler (1970) e Pedro Neves Marques (1984), la differenza generazionale degli artisti proposti testimonia la durata del processo della fase estrattiva del capitalismo.

Segue l’intervista di Alessandro Ferraro al curatore Marco Scotini —

Alessandro Ferraro: Nel corso degli ultimi anni sono stati formulati vari termini e perifrasi per comprendere appieno le forme finali del capitalismo, intendendolo non più solo come organismo finanziario, ma come elemento ormai connaturato nell’uomo, nelle sue relazioni sociali, nei suoi intimi linguaggi. Riprendendo la definizione di David Harvey, nel comunicato stampa parli di “capitalismo estrattivo”. Questo concetto mette in luce l’elemento chiave dell’etica capitalista: lo sfruttamento, sia di risorse naturali, sia di risorse umane. E’ una delle accezioni più mirate, forse più specifiche, perché evidenziano come il capitalismo non abbia mai realmente cambiato faccia, ma sia sempre risultato un sistema di dominio. L’aggettivo “estrattivo” inoltre focalizza l’attenzione sulla fisicità e sulla violenza del tipo di sfruttamento. Quali risposte fornisce questa mostra?

Marco Scotini: Una tesi condivisa da più teorici (da David Harvey a Saskia Sassen) è quella che vede il sistema finanziario attuale come la seconda fase del capitalismo: definita come “fase estrattiva”. E, cioè, non più legato esclusivamente alle forme di produzione modernista e fordista o ai consumi di massa e alla circolazione delle merci, il nuovo capitalismo si presenta piuttosto come un gigantesco meccanismo di estrazione di valore dall’uomo e dalla natura con una progressiva inclusione di tutte le possibili risorse, che non lascia al suo esterno nessun ambito della vita individuale né dell’ambiente naturale. In occidente è più visibile la predazione cognitiva (dove non si mettono più al lavoro le persone bensì si espropriano delle loro capacità innovative) ma non appena si cerca di ripercorrere le geografie dello scenario post-coloniale – il Sud America, l’Africa, ma anche il cuore degli Stati Uniti, nelle terre dei nativi – le devastazioni ambientali e i programmatici genocidi delle popolazioni indigene lasciano ben poco spazio alla retorica. La violenza del termine “estrattivo” non è solo figurata: non solo il capitalismo contemporaneo non ha cambiato faccia, ma la situazione è ancora più drammatica che in passato, dal momento in cui ai processi di produzione vanno sommandosi dinamiche predatorie, sia nel frangente della realizzazione del valore (dato che assistiamo ad un progressivo crollo del potere d’acquisto della classe lavoratrice) sia nella natura della produzione, ovverosia nel momento in cui i territori vengono letteralmente spogliati delle loro risorse con i disastri che ne conseguono. Di fronte a tutto questo, la mostra fornisce una risposta univoca: abbandonare una visione antropocentrica del mondo, mettendo sotto inchiesta l’industria dei combustibili fossili, le multinazionali dell’agricoltura e le molteplici cause del riscaldamento globale.

AF: Gli artisti proposti hanno un range di età piuttosto vario: si va da Piero Gilardi o Ursula Biemann fino a Pedro Neves Marques. Molti hanno progetti “extra-artistici” all’attivo, altri invece hanno un profilo artistico standard. Oltre al tema proposto, quali nessi hai voluto porre in evidenza esponendo questi artisti?

MS: Ti confesso che tutti hanno progetti extra artistici (o di militanza) e si muovono su un terreno extra-disciplinare, se così lo vogliamo definire. Pensiamo ad una figura complessa come quella di Peter Fend, che dalla fine degli anni ’70 si muove a cavallo tra arte, scienza, economia e politica a partire dalla lavorazione delle alghe come fonte di energia sostenibile, in parallelo ad un ripensamento dei confini geografici che metta al centro i bacini oceanici. O allo stesso Piero Gilardi, che da decenni anima (letteralmente!) le sue opere in direzione della tutela del patrimonio ambientale e di un nuovo rapporto tra essere umano e natura, attraverso dinamiche sociali, politiche e relazionali che abbattono il confine tra rappresentazione ed azione. Oliver Ressler e Ursula Biemann da anni si muovono con il video come strumento di intervento e di sostegno alle lotte politiche dal basso. Infine Neves Marques (il più giovane) ha editato un’importante antologia sull’Antropofagia e sull’ecosofia brasiliana.

Ursula Biemann, Forest Law, 2014, Video sincronizzato in doppio canale, 38’, Courtesy dell’artista

Ursula Biemann, Forest Law, 2014, Video sincronizzato in doppio canale, 38’, Courtesy dell’artista

AF: La produzione artistica non credi sia assimilabile ad una sorta di inquinamento linguistico, ad un surplus di forme? La mostra credo aspiri ad una maturazione di consapevolezza nella mente dello spettatore: quale valore ha la produzione artistica in questo caso? Cosa lega la necessità della produzione all’importanza della maturazione di un pensiero consapevole?

MS: Al contrario, credo che l’operazione artistica sia (o dovrebbe essere) per sua natura una sorta di ecologia delle immagini. Gli altri ambiti ne producono milioni al giorno ma spesso l’arte visiva non ha bisogno del precipitato in immagine per essere tale. Pensa all’arte relazionale o a quella concettuale, anche se non si tratta di un problema di tendenza. L’arte in questo caso cerca di lavorare nel macrosistema delle rappresentazioni e propone una specifica decostruzione degli immaginari, crea cortocircuiti, scopre vie di fuga, forme di esodo, apre spazi prima non immaginati. Se pensiamo a Debord e i suoi palinsesti filmici capiamo cosa intendo. A questo proposito penso al rapporto del mondo dell’arte contemporanea con le dinamiche post-coloniali e al modo in cui si sono sviluppate le politiche di rappresentazione dell’esotico – uso volontariamente questo termine non poco problematico. Credo sia importante lasciar spazio all’auto-rappresentazione delle popolazioni autoctone, dichiarando guerra ad un sistema dell’arte ancora drasticamente etnocentrico e porci interrogativi etici ogni qual volta decidiamo di rappresentare l’Altro (naturale o sociale) appunto. L’estrazione di valore è un fatto anche in tal senso. Vedo infatti all’ordine del giorno forme di rappresentazione del fenomeno della migrazione o della miseria globale che catturano e neutralizzano ogni possibilità d’eversione, la bloccano, la riconducono sugli stereotipi o cliché. Credo, all’opposto, sia d’esempio il modo in cui Ursula Biemann ha documentato la voce e le narrazioni delle popolazioni indigene dell’Ecuador, la loro cosmologia della foresta in lotta contro le multinazionali dell’estrazione mineraria. O i parallelismi tracciati da un artista e teorico come Pedro Neves Marques, che mette in relazione le predatorie spedizioni coloniali dei secoli scorsi alla proprietà intellettuale che la Monsanto esercita sulle sementi OGM che impone agli agricoltori nei paesi del Sud del mondo, denunciando l’assoluta mancanza di una soluzione di continuità tra lo scenario coloniale e quello post-coloniale. E potremmo continuare.

AF: Di recente ti sei occupato di riscoprire profili artistici o approfondire situazioni culturali trascurate, o addirittura volutamente ignorate, dalla critica. Ricollegandomi alla domanda precedente, che peso ha un apporto ideologico, o comunque chiaramente politico, alla curatela?

MS: Ti ringrazio per la domanda. Naturalmente oggi la curatela ha un grande ruolo, e questo ruolo è comunque e sempre politico (indipendentemente dal fatto che se ne abbia più o meno coscienza). Rispetto alla fine delle grandi narrative moderniste, poter mettere insieme delle narrative temporanee e immanenti richiede una grande responsabilità sociale. Prima di tutto e come dicevo prima: verso chi si rappresenta. Secondo: in rapporto a coloro che avranno accesso a queste rappresentazioni, i pubblici, ecc. Ma non è la scelta del contenuto in sé a rendere politicamente e culturalmente emancipativo un discorso. Oggi che la cosiddetta arte politica è diventato un trend, bisogna stare molto attenti. Le messe in scena o le situazioni che costruiamo possono essere predatorie ed espropriative, appunto, oppure di marca reazionaria. Dunque: neocolonialiste. Per questo sto lavorando soprattutto a decostruire il discorso modernista occidentale, la sua supremazia egemonica. Se vogliamo ascoltare realmente gli altri, dobbiamo spogliarci delle rappresentazioni che abbiamo cumulato e lasciare che siano gli altri a presentarsi. Non dobbiamo parlare al loro posto, ma fare in modo che il loro discorso divenga finalmente udibile per noi. Questi altri sono realtà sociali, realtà ambientali, modalità culturali che, nel tempo, abbiamo assoggettato.

AF:  Il PAV è uno dei pochi luoghi espositivi con una chiara programmazione curatoriale che spesso riprende discorsi iniziati da mostre precedenti, creando così un filo rosso molto coerente. Diciamo che le mostre non si concludono con i finissage, ma sviluppano nuove narrazioni. Prossima mostra?

MS: Quella che fai è un’ottima lettura del lavoro che portiamo avanti al PAV. Quelle che trattiamo sono questioni estremamente complesse, che difficilmente possono esaurirsi nella cornice di una singola mostra. Richiedono piuttosto una pluralità di approcci e punti di osservazione, cambi di prospettiva in termini storici, geografici e concettuali. Abbiamo la fortuna di poter creare tessiture e narrazioni di lunga durata, tra natura e storia. Nel 2014 Vegetation as a Political Agent vedeva già nel colonialismo storico uno dei momenti cruciali da cui ripartire per rileggere oggi il rapporto tra crisi ambientale e forme produttive del capitalismo. Poi nel 2015, con la mostra Earthrise, il PAV inaugurava una ricerca volta alla scoperta delle radici storiche delle pratiche a cavallo tra arte ed ecologica, indagando l’ambito italiano tra anni ’60 e ’70 con altre due tappe:la mostra ecologEAST, che trattava le vicende dell’arte ambientalista sotto il socialismo; poi il lavoro di Joseph Beuys, nel suo rapporto con la natura e l’emersione del Movimento dei Verdi. Da queste basi, nel 2017 il PAV torna alla contemporaneità: l’obiettivo è quello di rispondere all’urgenza della questione ecologica, dipanando la tematica attraverso i grandi problemi globali, ma anche attraverso soggetti estremamente locali, connessi alle tradizioni rurali del nostro paese. In quest’ottica, in giugno verrà inaugurata La passione del grano, una mostra realizzata insieme al gruppo milanese dei Wurmkos, che da più di trent’anni porta avanti un laboratorio di arti visive dedicato al rapporto tra arte e disagio psichico. A Novembre sarà la volta della ricerca di Uriel Orlow che tornerà ad indagare lo scenario internazionale con un Theatrum Botanicum dedicato alle piantagioni del Sud Africa e alla loro storia.

La Macchina Estrattiva — Neo-colonialismi e risorse ambientali
A cura di Marco Scotini
26 marzo – 4 giugno 2017
PAV – Parco Arte Vivente, Torino

Oliver Ressler, Failed Investments, 2015, Pvc, circa 2 x 4 m ciascuno, Courtesy dell’artista

Oliver Ressler, Failed Investments, 2015, Pvc, circa 2 x 4 m ciascuno, Courtesy dell’artista

Veduta della mostra - La macchina estrattiva, PAV Torino 2017

Veduta della mostra – La macchina estrattiva, PAV Torino 2017

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