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Jennifer West, Action Movies, Painted Films and History Collage | MAN, Nuoro

[nemus_slider id=”64139″] La mostra, a cura di Lorenzo Giusti, rivela passato, presente e futuro del suo lavoro. Grazie a un gruppo di 10 lavori, realizzati a partire dal 2005, il MAN di Nuoro offre la possibilità di scoprire l’affascinante metodologia...

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La mostra, a cura di Lorenzo Giusti, rivela passato, presente e futuro del suo lavoro. Grazie a un gruppo di 10 lavori, realizzati a partire dal 2005, il MAN di Nuoro offre la possibilità di scoprire l’affascinante metodologia con cui Jennifer West crea le sue pellicole. Questa prima personale in un museo italiano, Action Movies, Painted Films and History Collage, è stata strutturata, come racconta nell’intervista che segue il curatore, come una piccola mostra antologia: “raccoglie dalle opere più astratte agli interventi su pellicole già filmate, che presentano quindi un sottofondo narrativo e figurativo.”
La mostra al MAN è diventata per l’artista l’occasione per dare avvio ad un nuovo lavoro che, partendo da un’esplorazione del territorio, ha avuto origine in Sardegna nei giorni precedenti l’inaugurazione. Come spiega Giusti, “Jennifer West ha voluto rendere omaggio a Michelangelo Antonioni, uno dei suoi autori di riferimento, iniziando la realizzazione di un nuovo film nel luogo che il regista aveva scelto per girare, nel 1964, la scena del sogno di “Deserto Rosso”.

Segue l’intervista con Lorenzo Giusti —

ATP: La mostra “Action Movies, Painted Films and History Collage” ospitata al Museo MAN, è la prima personale che un’istituzione italiana dedica all’artista americana Jennifer West. Mi racconti in che occasione hai scoperto il suo lavoro e cosa ti ha motivato nel proporla al museo di Nuoro?

Lorenzo Giusti: Ho osservato “a distanza” il lavoro di Jennifer West per diversi anni, guardando video in rete. Un giorno ho deciso di scriverle, per farmi mandare altro materiale in visione ed è iniziata così una corrispondenza. Prima dell’invito a Nuoro abbiamo avuto l’occasione di lavorare assieme per la Biennale dell’animazione di Shenzhen, l’anno scorso, all’interno della quale ho curato un progetto con una serie di lavori nei quali l’animazione è utilizzata per fare rivivere opere o progetti del passato – disegni, dipinti, performance, oggetti di design o architetture – e renderne di nuovo attuali il linguaggio e i significati. Insieme al lavoro di Jennifer West sulla Spiral Jetty di Robert Smithson c’erano lavori di Len Lye, Bruce Checefsky, Joachim Koester, Robin Rhode, Alessandro Pessoli e Francis Alÿs,.

ATP: Jennifer West opera manipolando le pellicole con un’infinità di materiali diversi. È un processo strettamente legato alla “materialità” del film, alla possibilità di produrlo senza l’utilizzo della telecamera. Il suo lavoro è in linea con l’attenzione dedicata negli ultimi anni dal Museo MAN al rapporto tra arti visive e cinema d’animazione.

LG: Sono attratto da tutto ciò che ha a che fare con le tecniche tradizionali dell’animazione, mi sorprende il modo in cui gli artisti visivi continuano a utilizzarle, a trasformarle, mescolandole o forzandole fino alle estreme conseguenze. Trovo interessante quando è l’animazione a definire il linguaggio di un artista, come per Jan Svankmajer o Nathalie Djurberg, per citare due giganti, ma ancora di più mi interessa capire le ragioni per cui un artista che utilizza altri linguaggi decide a un certo punto di utilizzare le tecniche dell’animazione, quale elemento, quale ragionamento può fare scattare la molla, quale idea dell’animazione, quale concetto. Al di là del lavoro istituzionale, come curatore ho sviluppato sinora due linee principali di ricerca, quella sul rapporto tra pensiero ecologico e arti visive, che considero la più importante, e quella sull’animazione, che è iniziata come divertissement e che piano piano ha preso sempre più campo, fino a diventare uno degli elementi connotativi dell’attività di ricerca del MAN. A questo filone abbiamo dedicato non soltanto rassegne, come quella su Norman McLaren, ma anche mostre collettive (la più importante è stata sicuramente Passo a due, che ho curato con Elena Volpato), e focus si singoli artisti, come il recente di Alessandro Pessoli, curato da Nicola Ricciardi, e infine quest’ultimo di Jennifer West.

ATP: La mostra presenta un gruppo di 10 lavori realizzati nell’arco di tempo che va dal 2015 ad oggi. Con quale criterio avete scelto le opere?

LG: Abbiamo progettato una restituzione generale del lavoro, definita in tre tempi: passato, presente e futuro. I dieci film costituiscono di fatto una piccola mostra antologia e danno conto delle diverse modalità operative dell’artista. Si va dalle opere più astratte agli interventi su pellicole già filmate, che presentano quindi un sottofondo narrativo e figurativo. I processi sono parte integrante dell’opera. Il più semplice è un film del 2005, una pellicola da 16 mm tenuta nel frigorifero per oltre dieci anni, marinata per molti mesi in assenzio e XTC, Pepsi e Poprocks, urina di Jim Shaw, vino rosso, caffè, tè anti-tossine e afrodisiaci. Il più complicato ha una didascalia talmente lunga che servirebbero due interviste per spiegarlo nel dettaglio. Film Title Poem è l’ultimo lavoro di Jennifer e rappresenta quindi il presente della sua ricerca. Il lavoro iniziato in Sardegna durante il suo soggiorno rappresenta infine il futuro, poiché sarà terminato in studio e presentato in anteprima soltanto dopo la fine della mostra.

ATP: L’opera più recente, “Film Title Poem” (2016), è l’unico film in cui l’artista si avvale del suono. Sai le ragioni di questa scelta e perché quest’opera è considerata un “punto di svolta” nella sua carriera?

LG: Abitualmente i titoli che Jennifer West attribuisce ai suoi lavori sono didascaliche descrizioni del processo e dei materiali utilizzati. In questo caso invece il titolo definisce l’intento. Title Poem è una sorta di autobiografia, un racconto per immagini della sua personale storia del cinema e allo stesso tempo una riflessione sulle modalità secondo le quali la memoria individuale incide sulla percezione e sulla restituzione delle cose. In questo nuovo contesto anche il suono, nello specifico le colonne sonore dei film scelti, viene trattato come un “materiale”, e quindi utilizzato brutalmente nel montaggio, tagliato e manipolato.

Jennifer West, Spiral of Time - Documentary - Film 16
Jennifer West, Spiral of Time – Documentary – Film 16

ATP: Jennifer West, per molti versi, compie delle vere e proprie contaminazioni tra discipline diverse, tenendo sempre come base la struttura filmica della sua ricerca. L’artista ha un rapporto molto fisico con la pellicola, servendosene come supporto per “incursioni” manuali che spaziano dalla pittura, all’incisione a manipolazioni chimiche. Come racconteresti la relazione dell’artista con la “materialità dei film”?

LG: L’industria del cinema è passata ormai quasi interamente al digitale; in questo contesto il lavoro di Jennifer West ci riporta alla materialità del mezzo. E la materialità del cinema è il punto di contatto tra l’animazione e il cinema tout court. Questa attenzione alla materialità del film ha una lunga storia americana: Stan Brakhage, Carolee Schneemann, Bruce Conner, tutti riferimenti dichiarati del lavoro di Jennifer West. Creati su pellicola e trasferiti in digitale, i suoi film evocano il cinema sperimentale delle origini, ma parlano al presente.

ATP: Estrema per molti aspetti è la pellicola in mostra “Salt Crystal Spiral Jetty Dead Sea Five Years Film” (2013). La gestazione di questo lavoro è stata lunga e articolata. Mi racconti brevemente le particolarità di questa importante opera, anche in relazione alla celebre opera di Robert Smithson, la Spiral Jetty?

LG: E’ un progetto che ha portato Jennifer a creare due film. Il primo è stato realizzato immergendo una pellicola in un bagno di argilla a temperatura elevata. In seguito il film è stato stipato fra altri oggetti in una valigia, messo tra le cartacce nel cestino dello studio dell’artista, coperto di argilla e sale e infine trascinato lungo le rocce incrostate di sale della Spiral Jetty di Robert Smithson e gettato nelle acque gelide del Lago salato dello Utah. L’intero processo è durato cinque anni. Il secondo dei due film è una specie di diario di viaggio strettamente legato al primo lavoro. Una miscela di immagini figurative e astratte, in una gamma di colori acidi che è propria dello stile dell’artista. Entrambi i lavori sono strettamente legati alla poetica di Robert Smithson, che in maniera diversa – più legata ai processi materiali il primo, più narrativa il secondo – cercano di evocare.

ATP: Mi accenni al nuovo lavoro che l’artista ha intrapreso in Sardegna, in occasione della sua personale ospitata al MAN?

LG: In occasione della sua prima personale in Italia Jennifer West ha voluto rendere omaggio a Michelangelo Antonioni, uno dei suoi autori di riferimento, iniziando la realizzazione di un nuovo film nel luogo che il regista aveva scelto per girare, nel 1964, la scena del sogno di “Deserto Rosso”, ovvero l’incantevole spiaggia rosa di Budelli, che è oggi protetta e controllata a vista da un guardiano anarchico, unico residente della piccola isola: il mitico Mauro da Budelli. Jennifer ha steso una pellicola originale di Deserto rosso – recuperata in Russia! – lungo il confine della spiaggia e ha utilizzato gli elementi naturali presenti – sabbia, acqua salata, rocce e vegetazione – per lavorarla. Vedremo, presto o tardi, cosa verrà fuori.

Jennifer West, Barbarella
Jennifer West, Barbarella
Jennifer West
Jennifer West